RSS Feed

TARANTO (curiosita’ tradizioni e costumi)

TARANTO STORICA

TARANTO (A. T., 27-28-29). – Antichissima città dell’Italia meridionale, situata sul Mare Ionio, nel tratto in cui su questo mare la Penisola Salentina si salda al continente. Il primitivo nucleo cittadino sorge su di un cordone litoraneo che divide dal mare aperto (localmente distinto col nome di Mare Grande) un’area lagunare che si allunga considerevolmente verso l’interno a forma di due distinti seni circolari e che prende il nome di Mare Piccolo. Questa area lagunare comunica col mare aperto mercé due canali, che limitano per l’appunto il cordone litoraneo suddetto e sono sormontati da due ponti, l’uno in direzione di NO. dalla parte della stazione ferroviaria, l’altro in direzione di SE. verso la “Taranto nuova”. Il primo ponte, detto di Porta Napoli, è lungo 115 m. e il canale che da esso è sormontato costituisce un’intaccatura naturale del cordone litoraneo; il secondo ponte è lungo 86 m., a una sola arcata, in ferro, e il canale che da esso è sorm0ntato è artificiale e fu tagliato nel 1480 con fine difensivo, per isolare la città. Questo ponte, costruito nel 1886, è girevole, perché, allo scopo di soddisfare le esigenze della marina militare e consentire il passaggio alle grandi navi, attraverso il canale, tra il Mare Piccolo e il Mare Grande, esso può essere aperto nel mezzo e permettere ai due bracci da cui è formato di girare su sé stessi e addossarsi ai parapetti del canale.

La topografia della città e il suo sviluppo dipendono, pertanto, dalle sue condizioni fisiche. Decaduta, con la conquista romana prima e con le invasioni barbariche dopo, dai fastigi a cui era pervenuta come fiorentissima città della Magna Grecia, Taranto si raccolse nel tratto più stretto del cordone lagunare suddetto, ove oggi è appunto la città vecchia con le sue quattro anguste strade parallele, unite fra loro da un dedalo di viuzze strettissime e tortuose, e con i principali monumenti medievali. Presso a poco in questi limiti, Taranto rimase sino alla costituzione a unità del Regno d’Italia, dopo di che, partecipe del magnifico rigoglio economico che tutta la Puglia ha avuto dalla seconda metà del sec. XIX, e divenuta, con la creazione del porto militare e con l’arsenale militare, una delle due importantissime piazze della marina militare italiana, essa si è spinta topograficamente al di là dei canali e ha costruito, prima verso SE., proprio dalla parte dell’arsenale, il suo ampio “Borgo”, con una magnifica rete di vie diritte e parallele, con palazzi superbi, con vaste piazze e giardini, e ha cominciato a espandersi poi anche verso NO., nella zona del porto mercantile e della stazione ferroviaria, a creare la “città nuovissima”, prospiciente al Mare Piccolo. Le cifre della popolazione rispecchiano questo recente progresso edilizio della città.

Dalle prime numerazioni dei fuochi ai primi censimenti del Regno d’Italia, la situazione demografica di Taranto si mantiene sempre modesta: figura di circa 2200 ab. verso la metà del sec. XVI e di 1650 alla metà del XVII, salvo a discendere a poco più di mille in seguito alla terribile pestilenza del 1656; si svolge con notevole progresso in tutto il sec. XVIII, raggiungendo nel 1800 la cifra di circa 17.000 abitanti; presenta nel 1861 la valutazione ufficiale di 27.484 ab., che passano a 27.546 nel 1871 e a 33.942 nel 1881. Lo sviluppo veramente straordinario della città si ha nel cinquantennio successivo: il censimento del 1901 segnala già 60.733 ab., che salgono a 103.807 nel 1921, e sono 127.230 nel 1936. Per questo suo progresso urbanistico e per il magnifico contributo dato negli anni della guerra mondiale, con il suo apparato militare, alla vittoria delle armi italiane, Taranto fu elevata nel 1923 a capoluogo di provincia ed ebbe nuovo fervore di iniziative nello sviluppo cittadino con la costruzione di splendidi edifizî (imponente fra tutti il nuovo palazzo del governo), col tracciato di ampie arterie stradali (mirabile specialmente il Lungomare), con la creazione di altri istituti d’istruzione, col miglioramento delle opere portuarie, ecc.

Il territorio comunale di Taranto, della notevole estensione di 310,16 kmq. (esso abbraccia anche le due frazioni di Statte e Talsano), è coltivato per poco meno di un terzo a seminativi, per un altro terzo a oliveti e per il resto a vigneti, frutteti, ecc. La coltura perciò prevalente nell’agro tarantino è l’olivo, che prospera rigogliosamente sugli ultimi terrazzi tufacei con cui le Murge scendono al Mar Ionio.

Molto esercitata a Taranto è la pesca, sia nel Mar Piccolo sia nel tratto del golfo che è compreso fra il continente e le isole S. Pietro e San Paolo (le antiche Cheradi); essa è costituita specialmente di aurate, triglie, cefali e acciughe.

Vasta rinomanza ha la coltivazione delle ostriche e dei mitili (cozze nere e cozze pelose), che trova nel Mar Piccolo condizioni ambientali assai favorevoli; essa è praticata da tempi antichissimi, ma si è migliorata e perfezionata solo recentemente; all’uopo Taranto è stata dotata di un Istituto demaniale di biologia marina, razionalmente attrezzato per le ricerche pratiche sulla molluschicoltura e in generale per le esperienze di biologia marina. La produzione delle ostriche è a Taranto altissima: si calcola a oltre 5 milioni di unità; quella dei mitili si è aggirata, negli ultimi anni, intorno ai 36-40 mila q. (10-20 mila nel 1914).

Oltre però che nell’agricoltura e nella pesca, Taranto ha conseguito negli ultimi decennî un progresso assai notevole nell’attività industriale e commerciale, in gran parte peraltro determinato dalla sua più spiccata funzione marinara, dallo stesso sviluppo demografico e dalla mirabile trasformazione agraria del suo vasto retroterra, che risale fino alle alture di Martina Franca, di Gioia del Colle e di Ginosa. Sono così sorti cantieri per le costruzioni navali, fabbriche di laterizî e di ceramiche, di concimi chimici, di saponi, di conserve alimentari, pastifici e molini, oleifici, caseifici, fabbriche di mobili, calzaturifici; è in esercizio una delle più grandi fabbriche italiane di birra e ghiaccio; e sono in pieno sviluppo l’industria meccanica e quella poligrafica.

Il movimento commerciale, oltre che attraverso le linee ferroviarie (a Taranto convergono le linee provenienti da Metaponto, da Bari e da Brindisi), si svolge attraverso il porto mercantile, per il quale nel 1933 sono passate 300 navi con 240 mila tonn. di stazza. Il totale delle merci sbarcate fu nel 1933 di 215.137 tonn. (186.136 tonn. nella media annua del triennio 1931-1933) e quello delle merci imbarcate fu di 12.559 tonn. (6352 tonn. nella media del triennio 1931-33).

Monumenti. – L’acropoli greca sorse dove oggi si adagia la “vecchia Taranto”; a oriente era divisa dalla vera e propria città da un muro, di cui però non si notarono tracce durante i lavori eseguiti per la costruzione dell’attuale canale navigabile. Lapolis occupava invece uno spazio più esteso della “Taranto nuova” e si stendeva, necropoli compresa, verso levante, sino a raggiungere le mura che con il relativo fossato (il “canalone” di oggi) andavano dalla Masseria Colipazzo a Monte Granaro. Di tali mura di difesa furono identificati alcuni brevi tratti, a oriente, presso la masseria del Carmine e a settentrione, verso il Pizzone, immersi già nell’acqua di Mar Piccolo; né i dati degli antichi ci permettono di ubicare Porta Temenide e le altre “portulae” (ῥινοπύλαι) esistenti. Sappiamo solo che al di là della Temenide stava il tempio di Apollo Iacinzio e che da tale porta aveva inizio la via Plateia; ma tanto questa, quanto la via Soteira, ricordate da Polibio e da Livio, debbono essere ancora topograficamente chiarite; sembra solo che siano state notate le tracce dell’antica strada degli Argentarî che si dirigeva verso il quartiere della marina, a S. Lucia (Not. scavi, 1883, p. 179).

Dei diversi templi quello che si presume dedicato a Posidone conserva tutt’oggi in situ una maestosa colonna dorica: degli altri (di Ercole, della Pace, di Minerva, ecc.), creati talora dalla fantasia degli scrittori locali, è scomparsa ogni traccia. Di certo v’è che nella contrada Solito si rinvennero in un pozzo varie tavolette e alcuni vasi fittili relativi al culto dei Dioscuri, e che le divinità principali rappresentate dai plasticatori tarentini sono quelle di Demetra e Persefone, Artemide, Afrodite e Apollo Iacinzio.

Né meglio informati siamo sui monumenti civili che dovettero sorgere nella polis (museo e ginnasio) e nell’acropoli (Pritaneo); e ignoto è il sito dell’agorà. Più conosciuti sono invece i monumenti di età romana: le grandi terme s’innalzavano dove oggi il Lungomare s’incontra con il Viale Virgilio, i ruderi delle thermae Pentescinenses, alimentate da un’aqua nymphalis, si rinvengono nei pressi della chiesa di S. Francesco (all’angolo della via Duca di Genova) e avanzi di un altro edificio termale si notarono già presso la chiesa del Carmine.

Anche le vestigia dell’anfiteatro, in opera reticolata, si vedevano sino a non molti anni fa in un avvallamento al disotto dell’attuale mercato coperto; ma quasi tutti gli studiosi, per il fatto che Floro (I, 18) e Livio (XXII, 7) parlano di un theatrum maius, hanno finito col confondere questo anfiteatro con il teatro greco, di cui non conoscíamo il sito.

L’ esistenza di un theatrum maius fa pensare alla probabile esistenza di un minore teatro o odeon.

Abitazioni romane con pavimenti a musaici furono casualmente messe in luce nel giardino dell’Istituto della Immacolata, e un abitato che sorgeva lungo l’antico porto di S. Lucia fu scavato nel R. Arsenale, presso il nuovo bacino di carenaggio.

Tombe si sono trovate e si rinvengono continuamente nel recinto della polis; forse come a Ruvo, a Canosa e nella stessa Sparta, esse sorgevano un po’ dappertutto, presso i varî nuclei di abitazioni (Mayer, in Not. sc., 1898, p. 197). Nell’età greca esiste solo il rito dell’umazione, per lo più con tombe a fosse rettangolari, cavate nella roccia e coperte da lastroni; ma non mancano i sarcofagi di pietra carparo e le fosse ottenute nella nuda terra e non cintate da massi. Le tombe a camera con pareti dipinte e letti funebri sagomati, qualche volta decorati a pittura, sono piuttosto tarde. Molte tombe a fossa con materiale proto-corinzio e corinzio si trovarono nella contrada Montedoro, non molto distante dall’acropoli; però i complessi principali che vanno dal sec. VI al III a. C. giacevano o presso la Masseria Vaccarella e nella vicina contrada Madre Grazia, o nel tratto che dalla vecchia “piazza d’armi” si stende sino all’ex-baia di S. Lucia. Nell’età romana prevale il rito della cremazione con le urne di pietra o di marmo e con le olle di terracotta o di vetro; la grande necropoli dell’impero, scoperta (1931) nei lavori per la costruzione della Casa dei mutilati, poggiava su quella ellenistica, così come nella contrada Montedoro molte costruzioni, pur esse di epoca imperiale, erano apparse sovrapposte a quelle di epoca greca (Not. scavi, 1883, p. 179). Scarsissimo fu l’uso di sarcofagi figurati.

Quando Taranto rinacque per opera di Niceforo Foca si restrinse alla sola “rocca”, all’estremità dell’istmo.

Il duomo fu riedificato verso il secolo XII in forme romaniche, che, pur sommerse da rimaneggiamenti e rifacimenti barocchi (1569 e 1657), affiorano ancora negli archetti ricorrenti nei fianchi della navata mediana e in una parte dell’abside. Bifore romaniche sveltiscono le forme tozze del campanile (1413). Ultimi restauri furono eseguiti nel 1871-73. L’intonazione barocca, che è già nella facciata (1713), predomina all’interno, che serba la struttura basilicale nelle tre navate spartite da solenni colonne di marmi antichi, coronate da mirabili capitelli, alcuni di provenienza romana o di ispirazione classica, altri scolpiti in modi bizantineggianti. Accresce splendore all’ampiezza della navata mediana il dorato soffitto ligneo (sec. XVII).

A destra dell’abside il fastoso “Cappellone” di S. Cataldo, rifatto in stile barocco dopo l’incendio del 1627, rivestito di marmi preziosi e ornata di molte statue marmoree, tutte non anteriori alla seconda metà del Settecento.

Notevoli sul sontuoso altare la statua argentea di S. Cataldo, opera di Vincenzo Catello napoletano (1892), e nella cupola ellittica gli affreschi di Paolo De Matteis (1713), rafliguranti episodî della vita del santo. Antiche opere di oreficeria e pregevoli oggetti sono serbati nel tesoro di S. Cataldo.

Nelle adiacenze del duomo è la chiesa di S. Domenico Maggiore (sec. XIII), che ha ancora, malgrado i molti rimaneggiamenti, una bella facciata romanico-gotica con maestoso portale.

Adagiato sulla riva destra del Mar Grande, quasi a vigile custodia dell’imbocco del Canale, è il Castello, munito di cinque tozzi torrioni cilindrici uniti da cortine. Si dice costruito dai Bizantini nel sec. X, rifatto da Ferdinando d’Aragona nel 1480 a difesa dalle incursioni turche, ingrandito dagli Spagnoli nel 1577. In tempi recenti fu in parte demolito per consentire la costruzione del ponte girevole.

Poderosa opera di architettura moderna in vista della glauca distesa delle acque ionie è il Palazzo del governo.

Il Museo nazionale ha preziose raccolte d’archeologia e d’arte classica. (V. tavv. LV e LVI).

Storia. – Antichità. – Taranto (Τάρας, Tarentum) fu colonia greca della Magna Grecia, fondata, nel corso del sec. VIII a. C., da coloni provenienti da Sparta. La tradizione sulla sua fondazione ci è giunta in due versioni, l’una di Antioco, l’altra di Eforo, conservate da Strabone (VI, 278 segg.): secondo Antioco, la città sarebbe stata fondata dai figli di quei Lacedemoni che avevano partecipato alla prima guerra messenica, cioè dai Partenî, i quali, guidati da Falanto, stabilirono la colonia in località già abitata da barbari Iapigi, di origine cretese; Eforo aggiunge che i Partenî spartani, avviatisi verso l’Italia, si congiunsero con gli Achei che guerreggiavano ivi contro i barbari e, durante questa guerra, fondarono la città. Capo dei Partenî ed ecista della colonia sarebbe stato Falanto; la città ebbe però il suo nome da quello di un eroe locale, Taras.

La sostanza di queste leggende è confermata da varî elementi di fatto che ci sono presentati dalla storia e dalle condizioni più antiche della città: laconico fu il dialetto dei Tarentini, spartane le loro leggi, le istituzioni, le magistrature, spartana perfino la divisione topografica della cittadinanza in cinque phylai; sicché i moderni sono concordi nell’attribuire a coloni spartani la fondazione di Taranto. Alle origini della colonia la cronologia tradizionale (in Eusebio) assegnava la data del 706 a. C.: in realtà il sorgere di Taranto deve piuttosto – come anche la sua posizione geografica insegna – farsi risalire ad età più antica, sicuramente alla prima metà del sec. VIII. Il territorio ov’essa sorse era certamente popolato da altre genti, e precisamente da Messapî, affini agli Iapigi, non però di provenienza cretese, come argomentarono i Greci, bensì, com’è noto, di origine illirica. Il nome della città, Taras, è quello stesso del fiume, l’odierno Tara, che, dopo breve corso, si getta nel golfo esterno, a poca distanza dal Mar Piccolo. Nella figura del mitico ecista, Falanto, si è creduto di poter ravvisare un’ipostasi del dio Posidone o di Apollo Delfinio, identico all’Apollo Iacinzio, venerato ad Amicle, in Laconia; d’altra parte esso ci richiama anche la divinità omonima venerata in Arcadia, ipostasi anch’essa di Posidone, e ci fa pertanto supporre la presenza di elementi arcadi (della Messenia meridionale) fra i coloni che fondarono Taranto.

Il luogo ove fu posta Taranto, era in verità dei più favorevoli, per lo spazioso retroterra che si apriva all’attività dei coloni, per l’ottima ubicazione nei rapporti del commercio e anche dell’industria, giacché quel mare è abbondantissimo di pesci d’ogni specie e di molluschi. Magnifico il porto, il valore del quale è accresciuto dall’importuosità di tutta la rimanente costa italiana del Mare Ionio. Il solo ostacolo al fiorire della nuova città poteva essere rappresentato dall’ostilità degli abitatori del luogo (i Messapî) verso i nuovi venuti e dall’indole assai bellicosa di tutte le genti iapigie, in genere, che popolavano allora il territorio corrispondente all’odierna Puglia, arrivando, verso occidente, almeno fino al Bradano. I primi secoli di vita di Taranto sono infatti tutti dominati da una ininterrotta operosità guerriera, rivolta ad allargare il dominio della città sulla regione circostante. In un primo tempo, i Tarentini trovarono più agevole estendersi nella penisola Salentina, che entrò progressivamente nella loro sfera d’influenza, specialmente dopo che essi ebbero fondato, sulla costa orientale di essa, la piccola colonia di Callipoli (l’odierna Gallipoli).

Più difficile riuscì loro l’espandersi a settentrione, ove più ostinata e meglio organizzata si opponeva la resistenza degli Iapigi, i quali inflissero a Taranto una memoranda sconfitta, verso il 470 a. C. Questo avvenimento ebbe ripercussioni notevoli così sulla politica interna come su quella estera della colonia spartana: all’interno, segnò la fine del regime aristocratico, cui sottentrò una costituzione democratica; all’esterno, preclusa ai Tarentini, almeno momentaneamente, ogni espansione verso nord e verso oriente, li indusse ad allargare la loro sfera d’influenza dalla parte d’occidente, ove si stendevano le belle e feraci pianure di Metaponto.

Metaponto dovette ben presto subire la superiorità di Taranto e finì per accettarne una specie di protettorato politico; tanto che i Tarentini poterono far valere le loro aspirazioni sul territorio della Siritide, che pure era rimasto compreso, dopo la distruzione di Siri, dentro i confini di Metaponto. Quando, nel 444-43, fu fondata, nella regione dell’antica Sibari, la colonia panellenica di Turî, Turini e Tarentini furono per un decennio in lotta fra loro appunto per il possesso della Siritide: la guerra finì con un trattato, nel quale Turî e Taranto si accordarono per abitare in comune la città alle foci del Siris, la quale però doveva essere riguardata colonia tarentina. Di lì a poco i Tarentini fondarono, un po’ più nell’interno, la città di Eraclea, di cui Siri rappresentò il porto (433 a. C.).

Quando si costituì, verso il 400 a. C., la Lega degli stati italioti, per parare il pericolo lucano, al quale erano esposte anche Eraclea e Metaponto, è probabile che anche Taranto ne abbia fatto parte – benché le fonti ne tacciano – ed abbia quindi seguitato ad appartenervi anche quando, nel 390, le forze della Lega furono impegnate a resistere alla politica di assorbimento di Dionisio il Grande di Siracusa: tuttavia è certo che essa assisté quasi inerte allo svolgersi di quegli avvenimenti; spiando ogni occasione per intervenire a ricondurre la pace tra i confederati e il despota siracusano.

Durante la prima metà del sec. IV, Taranto, amministrata dal saggio governo di Archita, rimase nei più cordiali rapporti con i tiranni di Siracusa e pare abbia ottenuto allora la presidenza della Lega italiota, la cui sede venne stabilita ad Eraclea. Taranto era allora una città ricchissima e popolosa, una delle maggiori del Mediterraneo: si calcola che dentro il perimetro di 15 km. delle sue mura, vivesse una popolazione di circa 300 mila abitanti.

Una così florida vita fu presto turbata dalla minacciosa pressione degl’indigeni dell’interno – Messapî, Lucani e Bruzî – che tuttavia Taranto riuscì in un primo tempo a vincere, con l’aiuto di Archidamo (339/8) e di Alessandro d’Epiro (334 a. C.). Da allora Taranto poté affermare il suo protettorato su tutte le genti iapigie e tenere in rispetto, per qualche decennio ancora, gli stessi Lucani. Nel 303 o nel 302 a. C., i Lucani ottennero però l’alleanza di Roma; onde i Tarentini, paventando il pericolo più grave di quanto poi in realtà non si dimostrò, cercarono ancora aiuti in Grecia; e la madre patria Sparta inviò loro il principe reale Cleonimo, della dinastia degli Agiadi. Ma i Romani offersero subito la pace a Taranto, che fu del resto ben lieta di potersi sbarazzare al più presto dell’incomodo protettore e che approfittò di questa occasione per includere, nel trattato stipulato con Roma, la nota clausola, la quale faceva divieto alle navi da guerra romane di spingersi più ad oriente del promontorio Lacinio.

La violazione di questa clausola da parte dei Romani, avvenuta, per ragioni che non è facile identificare, nel 281 a. C., ebbe per conseguenza il grande conflitto fra Roma e Taranto, nel quale la città italiota fu soccorsa dall’intervento di Pirro, re dell’Epiro (280-275 a. C.). Partito Pirro dall’Italia dopo lo scacco di Benevento, l’esiguo presidio epirota lasciato dal re nella città, al comando di Milone, resisté qualche anno ancora; poi (272 a. C.) Milone si risolse a consegnare Taranto ai Romani, ottenendo la libera uscita per sé e per i suoi. Taranto dové così assoggettarsi ad entrare in alleanza con Roma, a condizioni assai dure: fu obbligata a consegnare ostaggi e a fornire un certo numero di navi da guerra, fu privata del diritto di batter moneta e dové, sola fra le città federate, accogliere un presidio romano nella sua rocca.

Durante la prima guerra punica, assolse con lealtà i suoi doveri di città federata; ma, nel secondo conflitto con Cartagine, Taranto fu la prima delle città italiote a darsi ad Annibale (212 a. C.); l’acropoli rimase tuttavia in possesso del presidio romano; riconquistata, tre anni più tardi, dal vecchio Fabio Massimo, venne duramente punita del suo tradimento: i cittadini furono in parte uccisi e gli altri (circa 30.000) venduti schiavi; la città fu data al saccheggio, che fruttò ingenti ricchezze ai soldati e all’erario: per un riguardo, però, agli abitanti della rocca, rimasti sempre, per amore o per forza, obbedienti e fedeli al presidio romano che l’occupava, fu rinnovato in loro favore il vecchio trattato d’alleanza.

Taranto rimase ancora a lungo, per lingua e per costumi, eminentemente greca: nel 125 fu trasformata in colonia (colonia Neptunia) e, dopo la guerra sociale, in municipio romano: il suo porto e i suoi commerci seguitarono a fiorire, ma vennero gradatamente eclissati da quelli di Brindisi; sotto l’Impero, si latinizzò rapidamente.

Medioevo ed età moderna. – Difesa a lungo contro i Goti da Giovanni capitano di Belisario, fu conquistata da Totila (549); e quindi ripresa da Narsete vincitore di Teia. Fu espugnata dai Longobardi dopo lungo campeggiare. Quando Costante imperatore tentò di riprendere l’Italia, Taranto fu una delle prime conquiste (663); di lì mirò a Lucera e a Benevento. Fu ritolta ai Greci da Romualdo duca di Benevento, e saccheggiata. Tornò a Bisanzio l’803. Conquistata dai Saraceni a varie riprese (846, 868), fu liberata dalla flotta veneziana del prode Urso Patrizio (864), poi dall’imperatore Basilio (880), cui la strapparono nuovamente i Saraceni che ne fecero scempio e resero schiavi gli abitanti (15 agosto 927). Riconquistatala, Niceforo II Foca (967) la munì di nuove mura, torri e del borgo Martina, e ne fece centro militare importantissimo. Per circa un secolo fu saldo nucleo della resistenza greca, anche dopo che i Normanni conquistarono la Puglia. Fu occupata da Roberto il Guiscardo ed ebbe ad arcivescovo il suo parente Drogone; fu assegnata poi col titolo di principato a Boemondo d’Altavilla. Servì come principale porto d’imbarco per le crociate; sotto Guglielmo il Malo congiurò con Greci e baroni normanni ribelli. Fu assegnata poi a Tancredi, e, lui morto, alla vedova Sibilla; poi al duca di Durazzo. Ribellatasi a Federico II, fu ridotta all’obbedienza dopo il ritorno di lui dalla crociata. Unita col contado di Lecce, passò a Manfredi. Si mantenne a lungo fedele agli Angioini, appannaggio di Filippo, quartogenito di Carlo II d’Angiò, poi al figlio Roberto che ne fece puntello per la sua offensiva contro gli Angioini d’Ungheria e per la futura conquista dell’Impero d’Oriente. Passò poi a Giacomo Del Balzo, a Ottone di Brunswick, quarto marito della regina Giovanna, al capitano generale del re Carlo, Ramondello Orsini, conte di Lecce, del quale seguì le alterne vicende nella lotta contro i Sanseverino. Fu capitale di un grande principato stendentesi da Otranto ad Oria, abbracciante Terra di Bari, gran parte della Basilicata, del Principato Ulteriore e poi Acerra e Benevento. Morto Ramondello, fu due volte assediata e conquistata da Ladislao di Durazzo che, sposata la vedova di lui, divenne principe di Taranto. Fu devoluta poi alla regina quale nipote di un Orsini. Ferrante I ne allargò i privilegi (1463). Aiutò Otranto assediata dai Turchi (1480). Durante la discesa di Carlo VIII, mentre i nobili tarantini avevano propositi di resistenza, terrazzani e pescatori, stanchi e maldestri nell’uso delle armi, aprirono le porte ai Francesi. Assediata da re Ferdinando, non volendo tornare agli Aragonesi, alzò bandiera veneziana (9 ottobre 1496), minacciando, se non fosse stata accolta da Venezia, di darsi ai Turchi; ma, non soccorsa a tempo dai Francesi, si arrese agli Aragonesi per fame (4 febbraio 1497). Nella lotta tra Francia e Spagna, fu difesa da Ferdinando, primogenito di re Federico, contro le truppe di Consalvo di Cordova cui cedette il 1° marzo 1502. Mantenuta dagli Spagnoli, nonostante l’assedio del Nemours, il re cattolico la fortificò. Ma ciò non valse a intimidire Turchi e Barbareschi, né a impedire l’invasione del Lautrec e dei Veneziani (1528 e 1529). Fortificata da Giovanni d’Austria, servì egregiamente quale concentramento di navi (immesse nel Mar Piccolo abbattendo parte del ponte costruito da Niceforo Foca), alla vigilia e durante la battaglia di Lepanto (1570-71), cui parteciparono molti Tarentini. Dal 1577 al 1597 furono eseguite nuove fortificazioni, reso navigabile alle galee il fosso tra Mar Grande e Piccolo, costruiti bastioni e torri sul mare e verso terra, costruito un muro terrapienato sulla strada verso Lecce. Queste fortificazioni tennero in rispetto i Turchi, nonostante il continuo incubo di loro flotte (nel 1594 una flotta di 100 navi assediò Taranto, difesa da don Carlo d’Avalos; poi nel 1598, 1599, 1657, 1671). Nel 1647-48, in coincidenza col moto masanielliano, proteste della plebe contro i nobili più che contro gli Spagnoli, lotta fra nobili asseragliatisi nel castello, e popolani padroni delle artiglierie, facilmente schiacciati dal Cardona; ammutinamento per il bando della leva. Taranto partecipò all’impresa dei Dardanelli e alla difesa di Candia (1656). Sotto i viceré fu negletta; e ancor più decadde nel sec. XVIII. Si democratizzò dall’8 febbraio all’8 marzo 1799: vide il processo politico del suo arcivescovo Giuseppe Capecelatro; tornò a Napoleone col patto segreto di Firenze (21 marzo 1801); fu occupata il 23 aprile dall’armata francese del generale Soult, che intraprese subito lavori di fortificazione, piazzò 100 cannoni e 14 mortai, istituì l’arsenale di artiglieria e un deposito di armi per volere di Napoleone che intendeva fare di Taranto “une sorte de Gibraltar”. Sgombrata dopo Amiens, ma non privata del materiale di artiglieria affluito da Ancona e da Livorno, fu ripresa da Gouvion-Saint-Cyr. Sguernita per il tentativo napoleonico contro le coste inglesi, fu ripresa dopo Austerlitz, ebbe un presidio di 13.000 uomini; e nel decennio cosiddetto francese (1806-1815) divenne la più sicura base navale contro gl’Inglesi, stabiliti a Capri e in Sicilia, e i Russi a Cattaro. Giuseppe Bonaparte portò al massimo l’efficienza militare di Taranto; il Murat affrontò l’organica riorganizzazione di forti, magazzini, caserme, diede alla città la fisionomia che tuttora conserva. Taranto declinò allorché la campagna napoleonica contro la Russia spostò il centro della lotta verso l’Europa centrale e settentrionale. Dopo il 1815, sembrando inutile e dannosa la fervida attività navale e militare napoleonica, Ferdinando IV Borbone abbandonò l’attrezzatura di Taranto. Taranto fu centro di azione del Church nella repressione del brigantaggio e del movimento liberale all’indomani del Congresso di Vienna; rimase tranquilla nel 1820-21: ma ciò non le risparmiò il presidio di 200 Austriaci. Nel 1848 i contadini e l’infima plebe si agitarono per rivendicazioni agrarie e per disoccupazione e dissodarono alcuni terreni comunali, minacciarono il saccheggio contro i notabili del luogo, liberali; questi, a loro difesa, organizzarono una guardia civica, poi un governo provvisorio presidiato dalla guardia nazionale. Nel 1860 un battaglione di garibaldini disarmò il castello e i soldati della riserva, e prese il comando delle armi; 44 Tarentini parteciparono alla spedizione di Sicilia; fra essi Nicola Mignogna, poi prodittatore della Basilicata, anello di collegamento fra il gruppo liberale meridionale, Mazzini e il governo di Torino. Nel’61 fu attraversata da una ventata di reazione borbonica, fino al’63 dal brigantaggio.

Le nuove finalità navali e militari dell’Italia unita, prospettate da Tarentini illustri quali Cataldo Nitti, i nuovi equilibrî e le nuove contese avanti e dopo il taglio di Suez, ridiedero valore a Taranto. Costituita – su relazione del gen. L. Valfré di Bonzo (1865), e studî e scandagli di R. A. de Saint-Bon – base di dipartimento navale e dell’arsenale, approvvigionò la flotta italiana durante la guerra del 1866. I lavori di demolizione delle antiquate fortificazioni furono iniziati nell’82 e ultimati nel’96. Nell’83 fu messa la prima pietra all’arsenale, poi scavato il bacino di carenaggio, livellato il terreno retrostante, allargato e approfondito il canale fra Mar Grande e Piccolo: lavori ultimati e inaugurati, presente il sovrano, il 21 agosto 1889. La trasformazione integrale della marina da velica a vapore e l’affermarsi della nuova arma – il siluro – richiesero ritocchi e correzioni ai lavori eseguiti e da eseguire. Le grandi manovre del 1907 furono una specie di prova generale degl’impianti di Taranto. La spedizione libica e la guerra mondiale documentarono la grande importanza di Taranto nella difesa dell’Italia e nella politica mediterranea. Il Mar Piccolo e l’arsenale videro inusitata, febbrile attività, essendo Taranto l’unico porto di grande ampiezza, l’unico completamente attrezzato in vicinanza della zona dell’attività bellica. A Taranto, al sicuro da insidie, ma pronte a intervenire erano le flotte italiana, francese e inglese; lì faceva capo tutto l’ingente traffico per l’armata d’Oriente che operava a Salonicco e in Macedonia; lì da Suez confluivano i convogli franco-inglesi dalle lontane colonie con preziose riserve di uomini e di materiali; lì finivano le ideali linee di sbarramento partenti da Tobruk e da Lero.

Monete. – La zecca di Taranto fu la più attiva di tutta la Magna Grecia, perché coniò ricchissime serie monetali dalla seconda metà del sec. VI all’occupazione annibalica. La moneta corrente è costituita dalla didramma d’argento, di gr. 7,97-7,77, del sistema denominato appunto italico-tarentino; ma insieme furono coniati anche i nominali inferiori. Le didramme si distinguono in varî gruppi bene caratterizzati per tipi, tecnica e stile, seppure la loro cronologia non sia del tutto fuori discussione.

Il primo periodo (circa 540-473) è caratterizzato dal gruppo delle monete a rovescio incuso; vi si alternano i tipi del giovane Taras sul delfino e di Apollo Iacinzio; segue il secondo gruppo a rovescio in rilievo, coi tipi della ruota, dell’ippocampo e dell’effigie di Taras. Col cambiamento di costituzione coincide il cambiamento di tipo della moneta, che inalbera la figura del Demos-Taras o Falanto, seduto, nudo, con in mano varî emblemi. Alla fine del periodo già si alterna questo con il tipo più proprio tarentino del cavaliere, il quale dominerà per più di due secoli questa monetazione. Sia questo tipo sia quello di Taras sul delfino si presentano in una grande quantità di varianti, con varî simboli, monogrammi, nomi di magistrati monetarî e cittadini.

Questa ricchissima serie di stateri del cavaliere è stata distinta da A. J. Evans in dieci gruppi che si susseguono cronologicamente. Più semplici sono le emissioni dei primi due gruppi datati al 450-380; il terzo gruppo (380-345) appartiene al periodo di Archita, e comprende i conî più belli, e le più ricche emissioni; al quarto (344-334), che comprende il periodo di Archidamo e della prima guerra lucana, e al quinto (334-302), di Alessandro il Molosso e di Cleonimo, si appongono serie ancora bellissime. In qualche sigla e monogramma si vuol vedere la firma di due artisti incisori (Aristosseno e Kal….), che hanno firmato anche qualche serie contemporanea di Eraclea. Al sesto periodo (302-281), che si estende da Cleonimo a Pirro, appartengono tutte le serie a peso pieno che, oltre alle sigle e ai monogrammi dei monetarî, portano il nome del magistrato cittadino.

Si aggregano a questo periodo le serie cosiddette “campano-tarentine”: un gruppo peculiare di didramme di peso ridotto (gr. 7,51-6,80) corrispondente a quello delle monete correnti al difuori del territorio tarentino, nei distretti del Sannio e dell’Apulia già sotto l’influenza del sistema monetario campano. I tipi sono: una testa femminile diademata o con sfendone (tipi campani), e il cavaliere che incorona il suo cavallo (tipo tarentino). Queste serie si considerano coniate da Taranto sia per correre fuori dei confini dello stato sia quali una coniazione federale fra Taranto e Napoli. Il settimo gruppo corrisponde al periodo dell’egemonia di Pirro (281-272) e comprende le didramme di peso ridotto a 6 scrupuli (gr. 6,80); l’ottavo e il nono a quello dell’alleanza romana (272-235-228) nel quale Taranto conserva il diritto di coniare l’argento; le serie sono ancora ricche e varie di simboli e di nomi, ma l’arte decade. Il periodo decimo è contemporaneo dell’occupazione annibalica (212-209). L’Evans è di parere che Taranto venne privata del diritto monetario già nel 228; certo si è che notiamo una scissura decisa nella monetazione, che riprende per breve ora, ma in misura ridotta; la maggiore unità coniata è ora la dramma, del peso del vittoriato o del denaro romano ridotto o anche della dramma fenicia corrente in Sicilia già dalla metà del sec. IV (gr. 3,80-3,40). Poche e scarse sono ora le emissioni coi soliti tipi; poi la zecca tarentina tace per sempre.

Ricche e varie serie di oro ha pure coniato questa zecca dalla metà del sec. IV a. C., che si suddividono in due gruppi: il primo comprende tutte le emissioni dal 340 circa al 281; sono stateri di gr. 8,61 che al tipo dell’effigie femminile accoppiano varî tipi con le figure di Taras, del cavaliere, dei Dioscuri, ecc. Sono infine coniate, in oro, dramme, semidramme, oboli e litre, con tipi varî. Il secondo e ultimo gruppo data dall’occupazione annibalica, e comprende un solo statere e un tetrobolo.

La moneta di bronzo fa tardi la sua apparizione a Taranto, nel secolo III, con pochi tipi, non molte emissioni, e non assume mai vera importanza nella circolazione.

La provincia di Taranto.

Costituita nel 1923 col territorio spettante all’ex circondario di Taranto, ha un’estensione di 2436 kmq. e una popolazione (1931) di 302.833 ab.: la densità è di 124 ab. per kmq.; essa è formata da 27 comuni. Fisicamente risulta del fianco più meridionale delle Murge e della zona occidentale del cosiddetto istmo messapico. Il tratto murgiano è solcato da profondi burroni, detti “gravine”. Meno che nelle aree elevate, ha scarsa piovosità. Il litorale, per molti secoli fortemente malarico, si presenta spopolato; l’unico centro abitato marittimo è Taranto; negli ultimi anni grandi opere di bonifica hanno risanato e restituito all’agricoltura intensiva molte di queste zone costiere; nelle altre i lavori sono tuttora in corso. La provincia è coltivata specialmente a seminativi, a uliveti, a vigneti e a mandorleti.

TARANTO (XXXIII, p. 256). – La popolazione della città al censimento del 21 aprile 1936 è risultata di abitanti 137.515 ed è salita al 31 dicembre 1937 ad abitanti 147.668. Il territorio del comune si estende, comprese le frazioni Statte e Talsano, per kmq. 310,07.

La città, già servita dall’antichissimo acquedotto comunale delle sorgenti “Triglie” che erogava mc. 1000 di acqua al giorno, è attualmente approvvigionata dall’Acquedotto pugliese mediante una nuova rete di distribuzione che assicura una dotazione di litri 150 per giorno e per abitante. Il consumo attuale dell’acqua si aggira intorno ai 18.000 mc. giornalieri.

La rete stradale urbana si svolge per 55 chilometri di cui 24 costruiti nel dodicennio 1926-1938, con sistemi moderni e di carattere permanente. È stata posta in esercizio una rete di fognatura di km. 27,268 quasi interamente costruita nel suddetto periodo. La città è stata contemporaneamente dotata di sei vasti edifici scolastici.

È in corso di attuazione il piano di risanamento della parte bassa della Città Vecchia, nel quale sono previste demolizioni di fabbricati inabitabili per un volume di 440.000 metri cubi. Al 31 dicembre 1937 ne sono stati demoliti 150.928,59 mc., bonificandosi, così, 10.792,06 mq. di suolo.

Per effetto dell’imponente mole di opere igieniche le condizioni dell’abitato sono assolutamente salubri e la mortalità dal 18,3 per mille del 1926 è diminuita nel 1936 al 15,3 per mille.

(p. 256). – I dati della popolazione relativi al sec. XVI e XVII riguardano il numero dei fuochi, non degli abitanti.

– Il costante incremento della popolazione fece registrare, al censimento del 4 novembre 1951, 168.941 abitanti residenti nel comune (presenti 174.871), con un incremento, rispetto al 1936, di ben 62.644 unità. La popolazione residente nella provincia risultò invece, a quella stessa data, di 423.368 individui; dei quali il 39% in condizioni professionali (pop. attiva), peraltro così distribuiti per rami di attività: agricoltura, caccia e pesca 55,6%; industrie, trasporti e comunicazioni 20,8%; commercio, credito, assicurazioni e servizî varî 8,4%; pubblica amministrazione 15,2%. Al censimento del 15 ottobre 1961 la popolazione residente nel comune era salita a 191.515 ab. e quella della prov. a 462.406.

Il notevole sviluppo edilizio del capoluogo continua a seguire le direttrici rigidamente imposte dalle particolari condizioni topografiche del sito urbano. Così, dal nucleo originario sulla penisoletta, poi isolata dal canale navigabile scavato nel 1480 ed allargato nel 1886 – anno al quale risale il vecchio ponte girevole, di recente sostituito – il primo sviluppo verso NO e fino alla ferrovia originò la cosiddetta città vecchia, ora completamente risanata.

La successiva e maggiore espansione avvenne invece in un primo tempo verso SE, dando origine al Rione Borgo, con pianta a scacchiera orientata da O-NO a E-SE fino alla costa del Mar Grande; e, negli anni più recenti, si è spinta ancora verso NE, oltre la ferrovia, portando alla formazione del polimorfo Rione Tamburi, con all’estremo settentrionale il villaggio rurale Vittorio Emanuele, il cimitero monumentale, il cosiddetto “Centro”, lievemente sopraelevato e, ad occidente, lungo la strada litoranea ionica, la zona industriale Rondinella. Ma ancora verso SE ed E, oltre il Borgo, è andata e va sviluppandosi attualmente la città (Rione Tre Carrare), talché essa, nella sua caratteristica posizione topografica, presenta uno sviluppo in lunghezza di oltre 10 km.

In contrada Salinelle, prospiciente il Mar Piccolo, è in costruzione il nuovo quartiere residenziale – la cosiddetta “città satellite” – per 4.700 vani, su un’area complessiva di 54 ha. È stato inoltre approvato il progetto per la centrale ortofrutticola, con propria banchina di caricamento e raccordo ferroviario; la Cassa per il Mezzogiorno ha stanziato 900 milioni per l’istituzione a Taranto di un Centro internazionale per l’addestramento professionale.

Interrotto dalle vicende dell’ultima guerra e posteriori il completamento del più grande bacino di carenaggio del mondo, già costruito per oltre due terzi, T. attende di vedere presto potenziate le possibilità della sua industria navalmeccanica di riparazioni dal grande bacino galleggiante in costruzione presso i cantieri navali di Monfalcone per conto delle sue officine di costruzioni e riparazioni (Finmare), già Cantieri navali (Tosi) di Taranto. Nel 1961 è stato inaugurato un grande complesso siderurgico (Italsider – IV Centro siderurgico) al km 4 della via Taranto-Statte, del quale ha già avuto inizio la produzione da parte del tubificio.

Anche negli ultimi anni l’incremento della popolazione è stato costante; essa ammontava (nel comune) a 139.720 ab. alla fine del 1940, a 146.100 alla fine del 1943 e a 164.956 alla fine del 1947. Specialmente nell’estate 1943 la città subì numerose incursioni aeree, con gravi danni: nelle case d’abitazione 888 vani distrutti e 1697 danneggiati; inoltre 25 edifici pubblici e scolastici colpiti, 4 edifici industriali distrutti e 16 danneggiati. Dopo lo sbarco degli Alleati fu iniziata l’opera di ricostruzione, specialmente nel porto e nell’arsenale. La ripresa economica non è tardata, ma l’attività industriale è stata colpita da nuova crisi con la fine della guerra. Sta per essere completato un altro grande bacino di carenaggio. La popolazione residente della provincia, calcolata al 31 dicembre 1947, era di 410.958 abitanti, con l’aumento demografico più forte (27,6%), tra le provincie italiane, rispetto al 1936.

Alle ore 18 dell’11 novembre 1940 la portaerei inglese Illustrious, con un incrociatore e 4 cacciatorpediniere, lasciò la flotta dell’amm. A. Cunningham e alle 20 si trovò a 170 miglia da Taranto, posizione scelta per il lancio della prima ondata di 12 apparecchi, di cui 6 con siluri, 4 con bombe e 2 con bombe ed illuminanti. Gli aerei siluranti erano preceduti dagli altri 6: alle 23 furono lanciati i primi bengala nella zona un po’ a levante dell’ancoraggio della Tarantola, mentre i bombardieri lanciavano le prime bombe contro le navi in Mar Piccolo onde far credere che l’attacco fosse solo di bombardieri: contemporaneamente, e poco rilevati, i primi tre siluranti sorpassavano l’isola di S. Pietro alla periferia del Mar Grande e si portavano all’attacco delle navi alla Tarantola e precisamente del Cavour e delLittorio, che furono colpiti da siluro. Il capo gruppo non arrivò al lancio e deve essere stato abbattuto dalla reazione antiaerea. Il secondo gruppo di 3 lanciò i siluri contro le corazzate colpendo il Littorio. Sul Trento e sul caccia Libeccio caddero due bombe da 50 chili senza esplodere. La seconda ondata partì dall’Illustrious alle 21 e 30 e, poco prima di mezzanotte, attraversò per parallelo il Mar Piccolo sorvolando gli incrociatori Bolzano e Trieste e, dal Porto mercantile, si abbassò a pochi metri dal mare dirigendo, per il passo lasciato dalle ostruzioni retali, verso il canale navigabile e lanciò i siluri contro il Littorio e il Duilio, colpendoli entrambi. In complesso il Littorio fu colpito da 3 siluri, e uno ciascuno ne ebbero il Duilio e ilCavour che, in serio pericolo di affondare fu portato ad incagliare presso la costa. L’operazione, che mise fuori servizio metà delle corazzate della flotta italiana, dimostrò ancora una volta l’utilità delle navi portaerei. Il 9 settembre 1943, cioè dopo la comunicazione dell’armistizio con gli Alleati, la seconda squadra, al comando dell’amm. Da Zara, formata dalle corazzate rimodernate, tranne il Cavour ancora in riparazione a Trieste, e da naviglio minore si trasferì a Malta, ove incontrò già giunta la prima squadra: contemporaneamente entrava a Taranto una divisione navale britannica e navi e truppe alleate. A Taranto, il 23 settembre 1943, fu firmato l’accordo, fra l’amm. Andrew Cunningham e l’amm. Raffaele de Courten, ministro della Marina, che stabiliva le norme per la collaborazione fra la squadra italiana e l’alleata.

ARCHITA (‘Αρχύτας) di Taranto. – Filosofo pitagorico e matematico, celebre per molte opere di cui non abbiamo che frammenti. Nato a Taranto verso il 430 a. C., figlio di Mnesagora o Estieo, fu per sette volte stratego, mostrando senno e prudenza; e non sembra sia stato mai vinto. Fu il fondatore della meccanica scientifica. Si attribuiscono al suo genio l’invenzione della vite, della puleggia, del cervo volante e di una colomba meccanica che si librava da sola nell’aria e volava. Ad Archita si deve lo studio delle proporzioni e delle progressioni; egli fu il primo a distinguere la progressione aritmetica da quella geometrica; a lui si devono anche studî di acustica. Come teorico musicale Archita contribuì, con gli altri pitagorici, probabilmente edotti del fenomeno della risonanza, all’enunciazione di regole per la composizione delle scale in dati intervalli; a lui spetta, tra l’altro, il calcolo della quinta come somma d’un intervallo di 5/4 e di uno di 6/5 (cioè di due terze, una maggiore e una minore).

Di Archita si conserva anche, attraverso Cicerone (De senect., 39), un frammento da cui si rileva ch’era di una moralità rigida e di austera continenza, secondo le prescrizioni pitagoriche. Morì forse nella seconda metà del sec. IV naufrago sulle rive dell’Apulia, se veramente il naufrago cui accenna Orazio nell’ode XXVIII del libro primo si deve identificare con Archita, cosa che è seriamente revocata in dubbio.

FILIPPO principe di Taranto e di Romania. – Quarto tra i figli di Carlo II d’Angiò, che lo investi del principato di Taranto (4 febbraio 1294). Quando Carlo II dové partire con Carlo Martello suo primogenito per raggiungere nell’Abruzzo il novello pontefice Celestino V, il principe di Taranto fu nominato vicario generale del Regno (12 luglio 1294). Le sue nozze con Ithamar Ducas Comneno, nata da Niceforo despota di Romania, gli procurarono il titolo di principe di Romania, e quando più tardi Isabella de Villehardouin andò sposa a Filippo di Savoia contro la volontà di Carlo II, questi le tolse il principato di Acaia e lo pose sotto il diretto dominio del figlio suo (1304), che ne aveva già l’alta signoria dal 30 agosto 1294.

Frattanto un secondo vicariato gli era stato affidato quando Carlo II col suo primogenito si era recato a Roma per l’incoronazione di Bonifacio VIII (gennaio 1295). E un titolo più alto gli era riservato dal secondo su0 matrimonio con Caterina, figlia di Carlo di Valois e di Caterina di Courtenay, per le ragioni o pretese della quale F. si chiamò anche imperatore di Costantinopoli (1312). Ma infelice fu la sua azione militare. Inviato dal padre in Sicilia contro Federico d’Aragona, fu sconfitto e ferito a Falconaria (dicembre 1299) e condotto prigioniero nella rocca di Cefalù, donde non uscì che dopo la pace di Caltabellotta (1302). A un disastro riuscì una spedizione “verso la Romania” (1305). Inviato dal re Roberto contro Uguccione della Faggiuola in Toscana, dove già operava Pietro, ultimo dei suoi fratelli, non si salvò che fuggendo dalla rotta di Montecatini, dove suo figlio e il fratello lasciarono la vita (29 agosto 1315). Morì a Napoli il 24 dicembre 1331 e fu sepolto in S. Domenico maggiore.

ARISTOSSENO (‘Αριστόξενος, Aristoxĕnus) di Taranto. – Filosofo peripatetico, scolaro di Aristotele, della prima generazione che seguì a quella del maestro. È il più grande teorico greco di ritmica e di musica. Prima seguace del pitagorismo, sviluppò poi in seno alla scuola peripatetica la sua tendenza alla ricerca naturalistica. I suoiElementi di armonia eccellono per l’esattezza della ricerca e della elaborazione teoretica, condotta non in base agli astratti presupposti aritmetici dei pitagorici, ma all’osservazione diretta dei fenomeni del suono (v. Grecia: musica). Tuttavia, egli continuò ad apprezzare nella musica l’elemento etico e l’efficacia di educazione spirituale. Col suo temperamento di studioso di musica è in accordo la sua dottrina dell’anima come armonia, che già doveva essere stata propugnata dal più antico pitagorismo, trovandosi pure ricordata e combattuta nel Fedone platonico. Egli si occupò, del resto, anche di altre questioni (di scienza naturale, psicologia, morale, politica, aritmetica) e compose narrazioni storiche, che non ci sono peraltro messe in troppo buona luce dai frammenti rimastici, in cui le notizie su Socrate e su Platone o sono inattendibili o rivelano troppo pertinace intento di svalutazione polemica.

LUIGI di Taranto, re di Sicilia. – Nato nel 1320, terzogenito di Filippo d’Angiò, principe di Taranto, fratello di re Roberto di Napoli, e di Caterina di Valois, sposò, nel 1347, Giovanna I regina di Sicilia, vedova di Andrea d’Ungheria. Tentò invano di opporsi all’invasione di Luigi il Grande, re d’Ungheria, fratello di Andrea, e, prima che questi occupasse Napoli, riparò con la moglie in Avignone, presso il pontefice Clemente VI. Rientrato nel regno, alla partenza del re d’Ungheria, attese a combattere i capi dell’esercito da lui lasciato nel Napoletano, ma, innanzi ad una seconda invasione del re ungherese, che occupò di nuovo Napoli, fu costretto a fuggire a Gaeta, per rientrare nella capitale solo quando l’invasore, richiamato da alcuni torbidi in Ungheria, partì definitivamente (aprile 1352). In Napoli, allora, un legato pontificio incoronò solennemente lui e la moglie Giovanna re e regina di Sicilia. Si accinse a ricuperare la Sicilia, perduta per gli Angioini sin dalla guerra del Vespro (1282); fece occupare buona parte del territorio, compresa la capitale Palermo, ma richiamato nel continente dalle lotte che gli movevano i Pipino, conti di Altamura e un suo congiunto, Luigi di Durazzo, dovette abbandonare l’impresa. Vinti nel regno tutti i suoi avversarî, non gli fu più possibile proseguire la lotta in Sicilia, dove i suoi nemici si erano notevolmente rafforzati, e attese, invece, a riportare l’ordine e la tranquillità nel regno. Quest’opera fu interrotta dalla morte avvenuta il 26 maggio del 1362.

MACDONALD, Jacquestienne, duca di Taranto. – Maresciallo di Francia, nato a Sedan il 17 novembre 1765, morto a Courcelles il 24 settembre 1840. Le guerre della Rivoluzione – che lo trovarono ufficiale – misero in valore le sue qualità militari. A trent’anni era generale di divisione. Con questo grado prese parte alle campagne del Reno e d’Italia (1796-97). Nel 1798 fu nominato governatore di Roma. Nella successiva lotta contro i Borboni di Napoli, sconfisse i Napoletani a Otricoli, poi successe allo Championnet nel comando in capo delle operazioni. Gli eventi dell’Italia settentrionale lo obbligarono a cercare la congiunzione col Moreau, conseguita nonostante la perduta battaglia della Trebbia (agosto 1799). A seguito della campagna di Marengo, diresse abili operazioni invernali nelle Alpi dei Grigioni (1800-1801). Dopo la proclamazione dell’impero, fu per alcuni anni in disgrazia, a causa della sua stretta amicizia col Moreau. Riprese la sua attività militare nel 1809, dapprima a fianco del viceré Eugenio (Isonzo, Raab), poi alla battaglia di Wagram, dove condusse una decisiva azione di attacco sfondante, ottenendone in compenso, sul campo, il bastone di maresciallo di Francia. Nel 1814 ebbe incarico da Napoleone di trattare con lo zar Alessandro per un’abdicazione dell’imperatore, che salvasse i diritti del figlio; ma gli avvenimenti precipitarono e le trattative fallirono. Dopo l’abdicazione di Fontainebleau il M. si sottomise ai Borboni e Luigi XVIII lo comprese nella prima lista dei pari di Francia. Ai Borboni rimase fedele durante i Cento giorni e ne ebbe la nomina a grande cancelliere della Legion d’onore.

MIGNOGNA, Nicola. – Patriota, nato a Taranto il 28 dicembre 1808, morto a Giugliano in Campania il 31 gennaio 1870. Studiò nel seminario di Taranto e poi legge a Napoli. Ma presto prese a cospirare. Fu dei Figlioli della Giovine Italia di Benedetto Masolino e si strinse in amicizia con il Settembrini. Partecipò alle dimostrazioni di Napoli per la concessione della costituzione, e combatté sulle barricate il 15 maggio 1848. Con la reazione s’iscrisse alla setta degli Unitarî, e fu arrestato con il Settembrini il 23 giugno 1849. Ma, non essendosi raccolte prove a suo carico, il M., che si era finto ebete, venne rilasciato. Nel 1855, su denunzia di un tale Pierro, fu di nuovo arrestato, processato e, l’anno dopo, ebbe bando perpetuo dal regno. Si recò a Genova, dove continuò a cospirare, tenendosi in relazione con il Mazzini e con il Fabrizi. Nel 1860 si unì ai Mille, nella compagnia Cairoli, fino a Palermo. Di là tornò a Genova e in Piemonte, per incarico di Garibaldi, allo scopo di trovare nuove forze. Ne ripartì nell’agosto e partecipò alla sollevazione della Basilicata (Lucania), accompagnando di poi il dittatore a Napoli e combattendo contro i borbonici sul Volturno. Quando Garibaldi fu costretto a partire, il M., rifiutato ogni uffizio e grado, tornò a fare l’agitatore. Unitosi con il generale a Caprera, nel 1862, lo accompagnò a Palermo e poi in Calabria. Dopo Aspromonte, si rifugiò a Napoli, e vi rimase nascosto sino all’amnistia. Continuò poi a tenersi in rapporto col Mazzini, sempre organizzando i comitati d’azione. Nell’agosto 1863 fu eletto consigliere comunale di Napoli, rinunziando alla candidatura a deputato. Malandato in salute, non poté partecipare alla campagna del’66 e a quella garibaldina del ’67: si adoperò tuttavia a raccogliere armi al confine pontificio meridionale.

ERACLEA (‛Ηράκλεια, Heraclēa) d’Italia. – Città della Magna Grecia, che sorse nel luogo ov’è oggi il villaggio di Policoro (stazione di Tursi-Policoro, sulla ferrovia Taranto-Reggio), a circa km. 4,5 dal mare e a nord della distrutta Siri, che divenne il suo porto navale. La regione ove la città fu fondata, cioè la Siritide, si trovava da tempo sotto il predominio di Taranto, quando, in vicinanza di essa, e precisamente riel sito della distrutta Sibari, fu fondata, per iniziativa degli Ateniesi, la città panellenica di Turi. Le mire espansionistiche di Turi verso la Siritide fecero nascere un conflitto fra questa città e Taranto; la quale uscì vittoriosa dalla guerra, e, per meglio affermare il suo possesso del territorio, vi dedusse la colonia d’Eraclea, nell’anno 433-2 a. C. (Strab., VI, 264); in base al trattato di pace, un certo numero di Turini fu ammesso ad abitare, insieme con i Tarentini, la nuova città.

La mescolanza dei due elementi etnici è testimoniata dai tipi delle prime monete della città, sulle quali compaiono così la testa dell’Atena attica come l’eroe laconico-tarentino Eracle, dal quale la città ebbe il nome. In realtà, Eraclea poté fin da principio considerarsi come una colonia di Taranto, da cui essa derivò il dialetto dorico, i principali culti e le istituzioni spartane, delle quali sono ancora documento le due famose tavole di bronzo (v. appresso).

Benché abbia coniato bellissime monete proprie (magnifiche didramme col tipo d’Eracle in lotta col leone), Eraclea rimase sempre dipendente politicamente da Taranto, anche quando, nella seconda metà del sec. IV, divenne sede dell’assemblea federale della Lega italiota, riunita allora sotto la direzione di Taranto Qualche anno dopo, Alessandro il Molosso, chiamato in aiuto dai Tarantini contro i Lucani, venuto in discordia con essi, si vendicò saccheggiando Eraclea e trasferendo la sede della Lega italiota a Turi. Lui morto, le cose ritornarono però come prima.

Nel territorio di Eraclea accadde, nel 280 a. C., il primo scontro fra i Romani e l’esercito di Pirro (v. appresso), e fin da questo tempo la città strinse con Roma un patto d’alleanza a condizioni vantaggiosissime; perciò nell’89 gli Eracleoti non si decisero senza esitazione a ricevere la cittadinanza romana. Quanto la città sopravvivesse come municipio romano e in seguito a quali vicende scomparisse, si ignora. La città si ascrisse anche l’onore di avere dato i natali al grande pittore Zeusi, il quale invece, più probabilmente, era nativo di Eraclea Pontica.

SALENTO (A. T., 27-28-29). – La Penisola Salentina è una regione fisicamente ben individuata, a SE. dell’Italia, che dalle ultime ondulazioni delle Murge – “soglia messapica” – tra il punto più interno del Golfo di Taranto e la spiaggia a S. di Ostuni, si protende ad arco, con la convessità all’Adriatico, tra questo mare e lo Ionio. Comprende tutta la provincia di Lecce e parte di quelle di Brindisi e di Taranto con una superficie approssimativa di 5800 kmq. su una larghezza massima di 54 km. (minima di 33 km.) e su una lunghezza di 138 chilometri, calcolata sull’asse tra Martina Franca e il Capo di Santa Maria di Leuca.

Nell’insieme la Penisola Salentina ha il caratteristico aspetto dei rialti collinosi a paesaggio carsico, con depressioni longitudinali e valliformi senza sbocchi (lame e gravine), con doline, conche superficiali, grotte e cavità sotterranee, dovute, più che a movimenti orogenetici, all’abrasione marina e all’azione meccanica e chimica delle acque. Si divide in tre zone geologicamente diverse fra loro.

A NO. la zona delle Murge Tarantine, serie di ripiani-costituiti da calcari compatti del Cretacico, che si elevano a 450 m.; al centro la pianura messapica o Tavoliere di Lecce, vasto e uniforme tavolato di sabbie, sabbioni, agglomerati sabbiosi del Pliocene e del Quaternario, tufi calcarei conchigliari pliocenici, che raggiunge i 170 m. ed è attraversato da una serie di basse elevazioni collinose fungenti da spartiacque; a S., a partire dalla strozzatura mediana, la zona delle “Serre”, colline calcaree del Cretacico con sabbioni argillosi calcarei del Miocene (pietra leccese), convergenti verso il Capo di Santa Maria di Leuca, e le cui anticlinali formano tre linee di basse colline che non oltrepassano i 200 m., e le sinclinali il fondo delle pianure interposte, coperte dalle sedimentazioni più recenti. Per tale costituzione geologica l’idrografia superficiale ha scarsa importanza, sostituita, quasi per intero, da quella sotterranea. Ad eccezione dell’Idro che, alimentato da sorgenti in prossimità della costa, sfocia nel Golfo di Otranto, brevi corsi d’acqua si formano in seguito alle piogge. Il clima risente il beneficio della latitudine e della vicinanza al mare; perciò è mite, con temperatura media di 16°-17° e con limitati contrasti climatici. Le precipitazioni oscillano tra i 500 e gli 850 mm. annui; zone di maggiore piovosità sono la fascia che guarda il Canale di Otranto e le Murge alte (oltre 850 mm.), mentre invece il litorale ionico registra le più basse piovosità (meno di 500 mm.). Imposta da queste condizioni di suolo e di clima è la flora, costituita in prevalenza da piante arboree, olivi, viti, mandorli, carrubi, fichi, con scarsa vegetazione erbacea (frumento, avena, orzo e ortaggi). Le coste hanno uno sviluppo di circa 365 km. e sono dappertutto poco alte, sabbiose, paludose e accompagnate spesso da dune, meno che nella zona otrantina dove il terrazzamento litoraneo si presenta con forme ripide dalla parte del Canale di Otranto e con dolci pendii dalla parte del Mar Ionio. Due soli porti hanno importanza commerciale e strategica: quello di Brindisi sull’Adriatico e quello di Taranto sullo Ionio; importanza esclusivamente locale hanno i porti di Gallipoli e di Otranto. La popolazione è in gran parte dedita all’agricoltura, alle industrie ad essa connesse e alla pesca; vive molto accentrata e per appena il 7% in case sparse. Nel 1931 contava 871.900 ab. con una densità di 150 ab. per kmq., che diminuisce a N. dove i comuni sono più estesi, e aumenta nella fascia mediana e nella regione del Capo dove i comuni sono più piccoli. Nella pianura messapica i centri sono più lontani dal mare, nella regione del Capo sorgono in prossimità del mare mentre, nell’interno, gli avvallamenti favoriscono l’insediamento a causa della natura del suolo e della maggiore quantità di acque sotterranee.

CARRINO, Nicola

Scultore, nato a Taranto il 15 febbraio 1932. Abbandonati gli studi di ingegneria, si dedica da autodidatta all’arte. Trasferitosi a Roma, nel 1962 vi fonda il Gruppo 1 (scioltosi nel 1967) con G. Biggi, N. Frascà, A. Pace, P. Santoro e G. Uncini: l’indagine razionale sui problemi della visione e del fare all’interno del rapporto arte-società è il fondamento per superare l’informale. Vincitore del premio Termoli (1963), del premio Rassegna d’arte del Mezzogiorno a Napoli (1966), del premio internazionale alla Biennale di San Paolo del Brasile (1971), è presente, tra l’altro, alla Biennale dei giovani a Parigi (1967), a Zwölf Italienische Bildhauer al Kunstverein di Amburgo (1969), alla Biennale di Venezia (1966, 1970, 1976, 1986), alla Quadriennale di Roma (1965, 1973, 1986). Le mostre personali dal 1958 in Italia e all’estero trovano sintesi significative nelle antologiche di Suzzara (1977), Taranto (1979) e Arezzo (1986); suoi lavori sono in musei e spazi pubblici. All’insegnamento presso vari enti, fra cui l’Istituto superiore di disegno industriale a Roma e l’Accademia delle Belle Arti di Bari, Firenze, Frosinone, ecc., affianca un’intensa attività teorica.

Dalle prime esperienze pittoriche realiste giunge nel 1957 a una scomposizione astratto-cubista con interessi materici che aprono a una ricerca informale di carica gestuale. All’inizio degli anni Sessanta, nell’ambito della scultura, in sintonia con il programma del Gruppo 1, inizia un lavoro logico-costruttivo con oggetti e materiali industriali, geometricamente strutturati, che culmina alla fine del decennio neiCostruttivi trasformabili, combinazioni di elementi modulari in ferro o acciaio, disponibili a variate organizzazioni: la percezione di un loro assetto spaziale-architettonico, pur di perentoria assertività, sollecita, infatti, a configurare altre possibilità aggregative implicite nel progetto mentale, con interventi di modifica, libera o programmata, delle forme nello spazio e nel tempo che coinvolgono, nel processo in divenire di composizione e scomposizione, la dimensione psicologico-spaziale dello spettatore. La ricerca concettualmente minimale si evidenzia in un forte rigore, di consequenziale coerenza nella lucida sintassi della sua grammatica conoscitiva. Aperto ai valori di gruppo, C. ne esibisce i connotati sociali con la proposta di una creazione partecipata collettivamente e di una riqualificazione urbana di diretta fruizione. Negli anni Ottanta le installazioni si articolano con frequenza sul motivo dell’ellissi variamente disposta a terra e a parete in rinvii dialettici tra rigore e sottile trasgressione.

PUGLIESE, Umberto (App. I, p. 955). – Allontanato il 1° gennaio 1939 dal servizio per la politica raziale, fu richiamato nel 1940 per salvare le grandi navi della flotta colpite a Taranto. Lasciato definitivameute il servizio effettivo nel 1945, è ora, tra l’altro, presidente dell’Istituto studî e esperienze di architettura navale (Vasca navale).

Fra le ideazioni più recenti del P. ricordiamo le seguenti, applicate alle corazzate tipoVittorio Veneto da lui progettate: a) il doppio sistema di governo della nave, di cui uno costituito dal consueto timone poppiero, nel flusso delle eliche poppiere centrali, e l’altro da due timoni laterali ampiamente proporzionati e distanziati dal primo, situati nel flusso delle due eliche laterali prodiere, e che per la speciale protezione sovrastante, costituiscono effettiva riserva nei casi di offesa nemica; b) la protezione subacquea “tipo Pugliese” (vol. XXIV, p. 384) è stata potenziata per l’applicazione alle 4 corazzate tipo Cavour, all’uopo trasformate (1935-39) e più radicalmente per le 4 tipo Vittorio Veneto, nelle quali il sistema è coordinato alla corazzatura di murata sovrastante e alle strutture del triplo fondo sottostanti. Ingegnosi piani di compartimentazione e di bilanciamento interno sono intesi ad assicurare forti riserve di stabilità trasversale e di galleggiabilità anche di fronte a molteplici offese subacquee. Il sistema permise più volte alle navi, ripetutamente colpite, di ritornare alle basi con ampia possibilità residua di mobilità e velocità; c) la corazzatura principale di cintura per difesa dai grossi calibri, costituita da singole corazze di struttura composita, con piastra anteriore “scappucciante” e piastra posteriore “resistente”, formanti un tutto compatto, applicabili con facilità all’esterno dello scafo; d) la protezione delle grandi aperture, costituita da cilindri corazzati singoli per ogni caldaia e per ogni ventilatore, con coperture corazzate a distanza sul ponte superiore e diaframmi corazzati alla base, raggiungente per la prima volta una radicale protezione dell’apparato motore.

CHIARELLI, Giuseppe. – Giurista, nato a Martina Franca (Taranto) il 15 giugno 1904. Professore universitario di diritto amministrativo a Perugia, ha insegnato poi Istituzioni di diritto pubblico a Roma. È stato giudice e poi presidente (1971-1973) della Corte costituzionale; alla scadenza del mandato è tornato a insegnare all’università di Roma diritto pubblico generale fino al 1974. Ha diretto negli anni 1940-43 la rivista di studi giuridici Stato e diritto. È autore di numerose pubblicazioni riguardanti prevalentemente il diritto pubblico, la teoria generale del diritto e il diritto del lavoro.

Opere principali: Il diritto corporativo e le sue fonti, Perugia 1930; La personalità giuridica delle associazioni professionali, Padova 1931; Lo stato corporativo, ivi 1936; La Camera dei fasci e delle corporazioni, Firenze 1937; La competenza legislativa della regione in materia di assistenza, in La rivista italiana di previdenza sociale, 1949, pp. 3 segg.; La Costituzione italiana, Roma 1951;Elasticità della Costituzione, in Studi di diritto costituzionale in memoria di L.Rossi, Milano 1952, pp. 43 segg.; Gli organi di elaborazione, di applicazione e di controllo del diritto del lavoro, Padova 1953; La disciplina organizzativa del lavoro (Trattato di diritto del lavoro), ivi 1953; Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, Milano 1957; Appunti sulle garanzie costituzionali, in Studi in onore di E. Crosa, ivi 1960, vol. I, pp. 527 segg.; Il diritto costituzionale del lavoro, in Annali della facoltà di giurisprudenza dell’università di Bari, III, vol. I, Bari 1965-66, pp. 43 segg.; Gli interessi collettivi e la costituzione, in Il diritto del lavoro, I (1966), pp. 31 segg.; Processo costituzionale e teoria dell’interpretazione, in Il Foro italiano, Bologna 1967, parte V, pp. 25 segg.; La giustizia costituzionale, Modena 1970; Lezioni di diritto pubblico, Roma 1975.

Personaggi di Quartiere

Personaggi che si aggiravano per i vari quartieri i cui nomi o soprannomi venivano a far parte dell’ immenso e straordinario vocabolario delle parolacce e insulti del tarantino medio.

  • La Pompa-Pompa (Tamburi):

mai saputo il suo vero nome. Quando ero piccolo aveva gia’ cira 40-50 anni. Nota prostituta non piu’ in servizio (non ne ero certo). Alcuni bambini, non sapendo che fosse un soprannome la chiamavano Signora Pompa-Pompa. Spesso negli insulti il termine “figlia della Pompa-pompa” si sostituiva al termine “zilatona”.

  • Giuann Panocchia (Paolo VI):

Si aggira per Paolo VI imprecando contro tutti. Ha una giacca chiusa da una centinai di spille da balia anziche’ da comuni bottoni, e porta sotto la giacca (e un po’ dove puo’) un numero esagerato di “chiangoni” che lui minaccia sempre di scagliarti addosso. Ha il viso molto deformato e tumefatto. Per quest’ultimo motivo chiunque si procura un normalissimo ematoma al viso diventa “Giuann Panocchia” per un po’.

  • Francucch Mill-Lir (Tamburi):

Pace all’anima sua. Notisso spacciatore tossico-dipendete perennemente alla ricerca di soldi. La sua frase di battaglia era: “EH .. m’ ah da’ Mill-Lir!?”. Se quindi qualcuno chiedeva soldi in prestito diventava automaticamente un “Francucch Mill-Lir”.

  • Cicc’ u Gnur (Taranto-Vecchia):

Mio padre scherzando diceva che era parente del famoso attore Franco Nero. Io ero piccolo e un po’ ci credevo.

  • Rigge (??):

Ridge di Beautiful!! Non c’entra niente lo so !!! Mia nonna non puo’ fare a meno di distorcere i nomi di Beautiful, anzi Tittifull, come direbbe lei.

  • Cinzella:

Essa merita sicuramente un posto nella agiografia della nostra città per aver contribuito alla iniziazione di innumerevoli adolescenti ai piaceri della vita e per aver offerto ai tanti stranieri una visione assai accogliente della nostra città. Non era solo un rapporto mercenario; se così fosse stato, il nome di Cinzella non sarebbe ancora oggi ricordato con affetto e nostalgia da tutti coloro che, ebbero a condividere con lei l’estasi sensuale del rapporto con l’eterno femminino…. no, Cinzella era la suprema sacerdotessa di un dionisiaco rito pagano, come la Bocca di rosa di Deandreiana memoria lei metteva nella sua opera un impegno ed una passione degna di miglior causa, tali da farla quasi diventare un simbolo, un icona, un limite a cui molte oggi asintoticamente tendono.
A noi che la conoscemmo non resta che rimembrare quelle sensazioni, che non erano ancora amore ma non erano solo sesso e rimpiangerla con nostalgia, come per la bottiglia di Raffo collo corto.

  • Rosina a scapulauagnun:

come Cinzella ma meno popolare

  • Timoteo:

Periodo di riferimento:anni 60/70, Soprannome:Timo
Il personaggio era solito passeggiare per via D’Aquino, ogni volta che incontrava nu piccione, gli dicevano:”Uè Timò, falle vedè a pizz’..”, E Timo faceva finta di niente, fino a quando non arrivava alla SEM, si abbassava i ‘pantaloni, per mostrare la pizz, lucculando:”Awwandate, Awwansate tutt’cose..”.Da cui Il soprannome:”Timo falle vedè a pizz!!!” Si racconta che ogni volta che il gestore della Sem lo vedeva avvicinarsi gli prendeva un colpo!

  • Antonie u spustate

Anni ’30/40. Venne definito “spustate” perchè, in pieno solleone, oleva indossare tutto il guardaroba invernale contemporaneamente. Asseriva che la sorella fosse stata l’amante del duce e che lo avesse cornificato a gogò. I più sostenevano che fosse affatto savio e
che si fingesse “falueteche” per poter criticare il regime senza incorrere in ritorsioni.

  • Attilio Tattaratta’

Anni ’50. Appartenente a quella che in altri tempi si sarebbe definita una “buona famiglia”,circolava con le tasche gonfie i “stacchie” che lanciava “alle panareddere” che , da debita istanza data la mira micidiale di Attilio, gli indirizzavano feroci sfottò. Si esibiva spesso,se richiesto con modi gentili e dietro modestissimi compensi, nel salto mortale dal bordo del marciapiede al
sedime stradale.

  • Turuccio

Anni ’50. Frequentava le zone adiacenti la piazza Marconi ed aveva una straordinaria somiglianza, per le dimensioni delle pedagne, per la postura in generale e per la mitezza del carattere (almeno cu nuije sculacchiatidde), con il personaggio disneyano di Pippo. Aveva in effetti l’abitudine di spernacchiare, su richiesta, proprio come se dovesse soffiare in un trombone.

  • Giuanne Portafoglie

Batteva solitamente l’asse Di Palma, Giordano Bruno, D’aquino rasentando i muri degli stabili, ai quali si appoggiava ogni tre passi circa, esibendosi in fantasmagoriche iaculatorie (arte in cui raggiungeva livelli di virtuosismo mpareggiabile) a causa di un doloroso valgismo alle estremità nferiori (le cepodde ‘nzomme)che lo costringeva a strascicare, entopede, gli smisurati fettoni .

CICCE CAURE
Era nel suo genere un artista sopraffino. La sua arte consisteva nell’ eseguire con il sedere “arie” celebri. CICCE CAURE era un petomane e le sue esibizioni sonore gli servivano a raccogliere qualche spicciolo per tirare a campare. Famosissima la frase che lo rese famoso: “PICCE’ LE SOLDE AIJERE JEVENE VIJANCHE E OSCE SO’ GNURE?” (perche’ i soldi ieri erano bianchi e adesso sono scuri?) riferendosi al fatto che ignoti gli avevano sostituito le monete d’oro, guadagnate con la sua arte, con volgari monete di ferro e quindi di un colore piu’ scuro. Usavano sfotterlo con la frase “CICCE CAURE, PAGNOCCHELE ‘NGULE!”

Martin’ U’ Pacc’
Siamo intorno agli anni 85/86, zona via Duca degli Abruzzi in fondo verso il lungomare quasi di fronte all’attuale Nautilus (si chiama ancora così?)
Era leggenda diffusa tra i ragazzini di quel periodo in quella zona; praticamente costui doveva essere una persona abbastanza anziana cù a capa bombe bombe e non tanto normale; la leggenda narra che si aggirava al calare della sera in quella zona verso il lungomare, quando vedeva i ragazzini li chiamava offrendo loro dolci e caramelle (classico!) e poi diceva di volerli portare giù sul lungomare dove aveva una casa costruita in legno e chissà quali orribili nefandezze accadevano!!
Si narra che una volta avvicinò un gruppetto di ragazzi (un pò più grandi di noi) e questi, riconosciutolo, lo “caricarono” di pietre in testa: inutile dire che divennero i nostri idoli e quando si avvicinava la sera si preferiva giocare “nei dintorni” dove erano loro.

GASPARE
Abito blu, perfetto. Scarpe bianche; pettinatissimo. Sfilava per le vie del centro come fosse in passerella.
Capo dritto e sguardo fisso in avanti. Al massimo gli occhi, si concedevano, faticosamente, deviazioni laterali per scrutare……. Un manichino insomma.
La mano destra, sempre in tasca faceva da fulcro al braccio, che in prossimità di qualche dolce curva femminile, a mò di ala, si apriva imperioso e nel contempo speranzoso, di affondarsi tra le rotondità piu’ prossime.
Gaspare era ‘NU RATTUSE!
La Fissità del suo sguardo derivava anche da una sua costante preoccupazione: ‘U PERNACCHIE.
Cioè quando il suo passo incrociava quello di alcuni PANARIJDDE, si levava forte da questi un sonoro: GASPAREEEEEEEEEEEEE? PRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR! Che interrompeva il silenzio della via.
GASPARE, non di buona corporatura, a volte, giusto per far valere il suo orgoglio, pubblicamente ferito, affrontava lo “ spernacchiante” con un virile: T’HAGGHIA FA’ DA’ MAZZATE!, demandando evidentemente a terzi piu’ abili, la tenzone.
Veniamo alla sua frase storica.:EHI! CA’ ‘NA MANE HAGGHIE MENATE!
…Siamo in un cinema, una coppia amoreggia, il Nostro, con un’abile mossa di avvicinamento, si siede al fianco della donna, e approfittando della concitazione, le infila una mano sotto la gonna.
Intanto, il ragazzo della stessa, intento nella stessa manovra, casualmente, ravanando tra le eburnee colline, incrocia con le sue mani quelle del Nostro.
Bah! CE’ SUCCEDIJEEEEEEEEE! Il giovane si alzo’ di scatto, sollevò di peso il GASPARE e lo “crepentò” letteralmente di mazzate, lasciandolo esanime sul pavimento.
Al suo risveglio, esclamo’ la storica frase di cui sopra!

BIACOCCHE
A Taranto per indicare ancora una persona un pò svanita si usa dire, appunto, BIACOCCHE.
Il Nostro, era solito ubriacarsi con una frequenza impressionante che unita alla sua dabbenaggine lo trasformava in una macchietta irresistibile.
Si racconta che, una volta, a causa dell’ingestione di fagioli poco cotti, venne colto da dolori cosi’ lancinanti che lo condussero alla convinzione che la sua ora fosse ormai suonata.
Allora si recò al camposanto e si infilò in una fossa, continuando a lamentarsi per i dolori addominali, tanto da attirare l’attenzione del guardiano, il quale, palesemente spaventato, si avvicinò alla fossa urlando: CHI E’?
BIACOCCHE credendosi gia’ morto, gli rispose: CE’ TE STE’ ‘NGAZZE? JE, SO’ L’ANEME DE BIACOCCHE!
suscitando la legittima ira del guardiano che per un pelo non lo ammazzava davvero.

MARCHE POLLE
MARCHE POLLE, ritengo sia il piu’ importante tra i personaggi di Taranto.
AMEDEO ORLOLLA di Giovanni e Angela Portulano è nato a Taranto il 27 Agosto del 1895 ed è passato a miglior vita il 12 gennaio del 1982.
Chi non lo conosceva?
Il suo soprannome derivava dal fatto che il padre fosse imbarcato sulla nave MARCO POLO, le cui gesta, Amedeo, non si stancava mai di narrare.
Svolse i lavori piu’ umili, dal garzone di fornai e carbonai, a venditore di girandole colorate. Ma l’immagine che io ho di lui è quella che lo vedeva col suo mitico berretto da panarijdde cresciuto, la giacca, un paio di misure piu’ larga e pendente da un fianco, l’immancabile sigaretta tra le dita che raccoglievano un “ammuzzo” di buste gialle contenenti delle schedine della SISAL, gia’ compilate, che vendeva ai passanti.
La sua frase storica era: ‘A VUE’ MO? (la vuoi adesso?) accompagnato dal suo dolce e impertinente sorriso “sgangate”, e che sottolineava l’evidente doppio senso della stessa, specialmente se espressa in presenza di una donna. MARCHE POLLE era amato da tutti, e chi lo incontrava per strada, specialmente negli anni della sua vecchiaia (ha venduto schedine fino a 80 anni) lo prendeva sottobraccio e piano piano lo portava nel bar piu’ vicino per offrirgli da bere o qualche sigaretta.
Era il sorriso della città. Un’altra sua frase celebre era: APPUENDETE ‘NNANDE! (abbottonati avanti) accompagnata da un gesto che induceva il malcapitato a dare un’occhiata alla braghetta del suo pantalone presumibilmente aperta.
Ovviamente, nel 90% dei casi la braghetta era chiusa e la cosa si risolveva con un sorriso rompighiaccio che lasciava spazio alla proposta di vendita ufficiale:A VUE’ MO?…..’A BUSTE?
Al funerale di Amedeo, nella chiesa di San Francesco da Paola, partecipo’ tutta Taranto che accompagno’ la sua ultima passeggiata per la città tra le note delle marce funebri della Settimana Santa.
Al cimitero San Brunone, dove è sepolto in una cappella comunale, dinnanzi alla sua foto si trovano immancabilmente delle sigarette che i passanti lasciano teneramente.


PEPP’ A RACCHIA
Si raccontava di lui che fosse sposato e con figli, poi una volta separato dalla moglie decise di dare appieno la sua effeminita’.
Abitante nella Citta’ Vecchia, ma assiduo passeggiatore nelle vie centrali di Taranto, sempre molto elegante e distinto, ostentava il suo essere con disinvoltura, ma senza escandescenze particolari, molto rispettoso e rispettato.
Nonche’ frequentatore di cinema “under ground” dove cercava di recuperare qualche preda atta a garantirgli le ore liete serali.
Si suppone portasse una parrucca dai capelli lunghi e riccioluti, ma non era molto rilevante la lunghezza dei capelli, d’altronde era il periodo dei capelloni, ma di sicuro il termine “ a’ racchia “ derivava dalla sua … diciamo cosi’ … non bellezza.
Famosa era la battuta che girava tra i maschietti dell’epoca che se a qualcuno veniva l’infelice idea, per gioco chiaramente, di dare la manata sul culo di qualche amico, riceveva per risposta un: “ce’ssi’ Pepp’a’ racchia? … a’ ce’ cinema a’ sce’?
La battuta era data scherzosamente ad intendere di sapere ove andasse lui, in modo da evitare di visitare lo stesso cinema.
Una volta ci capito’ di incrociarlo sul Ponte Girevole, era diretto verso il centro e noi verso la Citta’ Vecchia, … eravamo io e Michele (uno dei miei soliti inseparabili amici) su di un Motobecane sfiaccatissimo che a stento riusciva a trasportarci …
proprio sulla parte in salita del ponte … beh, … Michele ebbe l’infelice idea di gridare le testuali parole: “ Ue’ Pepp’a’ racchia … a’ ce’ cinema a’ sce’? ...” …
Ci fu’ una specie di inseguimento … lui correndo dietro di noi fingendo di volerci acchiappare, … Michele che pressava sui pedali del motorino per aumentarne la velocita’, io alla guida che a gambe divaricate cercava di mantenere l’equilibrio … dietro di noi la sua voce effeminata che strillava … “ ce’ v’azzecche … v’hagghija da’ mazzate! “ ….

PURGENELLE
PURGENELLE lo traggo da un libro di Nicola Caputo, Investivamo alla marinara.
Vestito da Pulcinella metteva in mostra la sua arte all’angolo di via Crispi con via Di Palma, il suo nome era SAMUELE e quello del suo compagno di scena, un vispo cagnolino, era FASULINE.
La coppia SAMUELE e FASULINE rallegrava i passanti, che gli offrivano qualche spicciolo.
Lui scimmiottando Pulcinella e il cagnolino facendo acrobazie spericolate che andavano ben oltre il camminare tenendosi dritto sulle zampe posteriori.
I suoi spettatori piu’ assidui erano i militari in libera uscita e i panarijdde.
Di SAMUELE e FASULINE parla anche GIACINTO PELUSO che lo ambienta pero’ nella città vecchia e lo raffigura con una bombetta che ci fa pensare ad un personaggio differente dal Pulcinella. Lo stesso ci informa che SAMUELE trasferì al borgo il suo spettacolo in quanto in quel periodo il boom dell’arsenale militare lo faceva sperare in migliori guadagni.
SAMUELE fini’ a chiedere l’elemosina.
Ancora oggi, a Taranto, per sottolineare la stretta amicizia tra due persone si usa dire: FA CA SITE, SAMUELE e FASULINE!


PIPIELE
: era conosciuto per la sua non eccelsa intelligenza che faceva il paio con una personalità sempliciotta. Il suo mestiere era ‘U CITREDDARE, cioè coltivava le ostriche nei citri presenti nel nostro mare.
Era riuscito a fidanzarsi; e da quel giorno, girava per la città “lucculando” PURE JE TENGHE ‘A ZITE!
Un giorno la sua “zita” gli preparo’ una focaccia che lo stesso portò sul posto di lavoro. I compagni, per scherzo gliela fecero sparire e da questo episodio nacque una canzoncina, come ci racconta Enzo Risolvo:
PIPIELE ‘U CITREDDARE.
FATIAVE A LE CITREDDE;
IND’U VICHE D’U SPIRETE SANDE
SE TRUVO’ ‘NA CARA AMANDE;
‘A ZITE L’HA CHIAMATE,
E L’HA DATE ‘NA CAZZATE;
JEVE CARECHE DE LUATE,
E ALL’AMICHE L’HA MUSTRATE,
CA SE L’HONNE PO’ MANGIATE!
(Pipiele che lavorava nei citri;
Nel vicolo dello Spirito Santo,
trovo’ un’ amante.
Lei lo chiamo’ e gli diede una focaccia;
che era piena di lievito,
e che agli amici lui mostro’
i quali, poi se la mangiarono)

U’ NEGUS
: Vecchio birbante, girovago con il suo pendolio a gambe divaricate, ciccione di “birra Raffo” sua prediletta compagna.
Raccoglieva di tutto, trovato molte volte immerso nei cassonetti dei rifiuti a recuperare qualcosa che per lui … “po’ sembre servi’ …”
Vestito sempre da quattro stracci altamente impuzzoliti, era “ospitato” gentilmente nel giardino delle palazzine della Marina Militare di Via Magnaghi, ove per casa aveva un rottame di macchina abbandonata da qualche inquilino, e li’ aveva fatto sorgere, nell’angolo piu’ remoto del giardino stesso, una sorta di capanna con teloni a proteggersi dal sole o dalla pioggia.
Dalla voce stridula, molto scuro di carnagione, cu’ na capa grossa grossa.
Giorovagava tra le traverse di via Magnaghi e via Cugini, via Messina e Battisti, ma tutto limitato tra via Millo e via Quinto Ennio, e sovente bazzicava a Piazza Icco per racimolare qualcosa da mangiare.
Famosa la sua battuta nel passare tra i vari locali delle attivita’ artigianali e non, chiedendo: “t’avanze quaccheccose?” (ti avanza qualcosa?) in modo tale che la sua disponibilita’ nel ripulire da cose inutili, gli garantisse la sua Raffozza da portarsi a passeggio in bella mostra mentre la sorseggiava.

FENANICCHIE: “Va tagghiete le capidde ca’ pare Fenanicchie” è un’espressione che sta ad indicare che i capelli hanno ormai raggiunto una lunghezza tale da rendere necessario l’intervento del barbiere.
Ma veniamo al nostro. FENANICCHIE era un fabbro di nome Angelo che spesso e volentieri alzava il gomito. Ma era conosciuto per un’altra sua caratteristica cioè per i suoi lunghi capelli neri che trattava con ossessiva cura.
Motivo di questo suo narcisismo era la convinzione che la sua scura capigliatura potesse fargli conquistare il cuore di qualche donna bella ma principalmente ricca.
Ma lo scorrere inesorabile del tempo non faceva altro che far sfiorire la bellezza della sua criniera e con essa il suo sogno d’amore.
La bottiglia diventava sempre piu’ la sua inseparabile compagna e le “panareddere” (ca no’ lassavane de pede a nisciune) lo esortavano ormai da tempo a rinunciare alla ricerca del ricco matrimonio dicendo: “Capacete Fenanicchie, no’ jè pe tè!
Fenanicchie invece continuava a curare la sua capigliatura ormai ingrigita con ostinazione fino al momento in cui decise di arrendersi definitivamente all’evidenza esclamando la frase: “S’ha capacetate Fenanicchie
Il motto finale viene ancora usato oggi, per far mettere l’anima in pace a chi cerca di ottenere ad ogni costo un risultato che non potrà ormai piu’ ottenere spronandolo nel contempo ad accettare con rassegnazione la dura realtà.
Sei di Taranto se…

10665123_10152713203528810_1784930676440049412_n

Il 25 Gennaio 2014 e’ nato il Gruppo piu’ popolare di Facebook Intitolato ” SEI DI TARANTO SE…”

Questo Gruppo, ideato da Vincerlo Pirlo ed amministrato dallo stesso e da Loredana Latagliata e da Francesco Solfrizzi, i quali oltre che ad essere i moderatori dello stesso, sono anche riusciti a rendere bello l’essere cittadini uniti di Taranto.

Grazie a questo gruppo, che ha all’attivo più al momento 26.533 membri,  in continua crescita e di cui anche io con orgoglio ne faccio parte, , i cittadini di taranto hanno un luogo d’incontro, confronto su tutti i principali temi della nostra città, momenti anche di simpatia, di svago, e di aiuto reciproco.

Grazie agli amministratori, il Gruppo e’ sostenitore dell’associazione Avis per la donazione del sangue e di altre iniziative interessanti.

PERCHE’ TARANTO NON E’ SOLO ILVA, NON E’ SOLO MORTE, NON E’ SOLO DISOCCUPAZIONE, INQUINAMENTO.

PERCHE’ TARANTO E’ ANCHE UNIONE, SOLIDARIETA’, INCONTRO

Un Grazie agli ideatori del gruppo sei di Taranto se… Da parte mia (Camilla) e credo, anzi ne son sicura, di tutti i membri dello Stesso.

Ancora un sentito GRAZIE A TUTTI, Ragazzi

Cibo, amore e cultura: le facce di Taranto

cosa-fare-taranto-638x425

Una città ricca di fascino e di storia affacciata sul mare. Taranto, la città dei due mari, centro della Magna Grecia, permette di fare un viaggio tra ambienti e culture diverse che hanno lasciato tracce del loro passaggio.

Taranto, una terra negli ultimi famosa per altro, non per le sue bellezze naturali ed artistiche. Altre faccende legate all’industria ed all’inquinamento hanno offuscato questo gioiello di città a cui troppo spesso è stato fatto del male. Eppure Taranto ha una storia millenaria, un intreccio tra natura e cultura che ha pochi rivali al mondo. Nella città sono ancora i vivi i ricordi che ne hanno fatto uno dei più importanti centri della Magna Grecia e della storia del nostro paese, dal Castello Aragonese, al barocco Cappellone di S. Cataldo, alla chiesa gotica di San Domenico Maggiore, alla Città sotterranea, il ponte girevole che porta all’isola della Città Vecchia, all’elegante Borgo Umbertino ed il Lungomare con i palazzi del ventennio.

Taranto, detta la città dei due Mari, poichè divide il mar Piccolo ed il mar Grande sul golfo dello Ioni, fu fondata nel 706 a.c, quando gli Spartani giunsero nel sud Italia facendola diventare una delle più importanti città della Magna Grecia. Successivamente diventò colonia romana e fu lungo contesa tra Longobardi e Bizantini. Fra il XIV e il XV secolo fu un fiorente principato, per poi diventare un importante porto militare sotto gli Spagnoli, decadde nel XVII secolo sotto i Borbone e fu poi unita al Regno d’Italia nel 1860. Tutte queste dominazioni hanno lasciato i loro segni, ma oltre a conoscere la storia e la cultura ci sono molte altre cose da fare a Taranto. Tra cui provare la gustosa cucina ed ammirare le aspre rocce a strapiombo sul mare e le lunghe distese di sabbia finissima che si fondono con il blu, rendendola anche una perfetta meta per le vacanze a mare in puglia.

Passeggiare tra la storia di Taranto

Tra le cose da fare a Taranto non si può prescindere dalla sua storia. Passeggiare tra le sue strade sarà una ricchezza per la vista e per emozioni. Infatti la città di Taranto permette di scoprire le tracce delle civiltà che si sono succedute sul territorio e che si sono armonizzate insieme. Taranto è suddivisa in due zone, la città vecchia, che si trova su un isolotto collegato alla terraferma dal famoso ponte girevole e la città Nuova. Nella visita alla città si può partire dalla Chiesa di San Domenico Maggiore, edificata per volontà dell’Imperatore Federico II, ma più volte modificata e ristrutturata nel corso dei secoli. Poco distante incontriamo il maestoso Duomo, eretto nell’anno Mille, ed il Castello Aragonese, che sorge lungo il Canale nel Navigatore, uno dei punti di comunicazione tra i due mari all’interno del Golfo di Taranto.

A piazza Castello si trovano tre colonne facenti parti dell’antico Tempio Dorico, luogo di culto di epoca greca. Molto suggestivo anche il Lungomare dedicato a Re Vittorio Emanuele III, dal quale è possibile ammirare un incredibile panorama dell’Isola di San Paolo. Quest’ultima è visitabile in traghetto ed ospita la Fortezza di Laclos, importante opera d’architettura militare, fatta realizzare da Napoleone Bonaparte. Passando alla zona nuova della città, tra le cose da fare a Taranto c’è la visita ad uno dei più importanti musei dell’Italia Meridionale, un museo archeologico che custodisce reperti preistorici e soprattutto oggetti provenieni dalla Magna Grecia. Sempre nella parte nuova, ci sono i Giardini Pubblici che conducono verso l’Arsenale Militare, il più grande d’Italia, mentre nella parte più orientale della città troviamo la splendida Concattedrale, dallo stile moderno.

Scoprire le spiagge del Golfo

La città detta dei due Mari, vanta di due bacini, uno piccolo ed uno grande che dividono il Golfo. La costa di Taranto è formata da spiagge sabbiose, tutte circondate da una verdeggiante macchia mediterranea. Le spiagge più famose della zona sono quelle di Praia a Mare, Baia Smeralda, Lido Azzurro, Marechiaro, Marina di Taranto. Spostandosi un pò dalla città, nella proncia non mancano le località dove trascorrere le vacanze al mare, come Castellaneta, Ginosa Manduria, Maruggio, Martina Franca, Grottaglie ed Avetrana. Marina di Ginosa si trova a nord di Taranto, ed è una delle località con il mare più bello e limpido.

Scoprire la storia d’amore di Skuma

Sul Lungomare di Taranto si affacciano delle serene, che impietrite sembrano aspettare il grande amore che arriva dal mare. La storia delle sirene scioglierà anche i cuori più duri e può essere un luogo perfetto dove scambiarsi promesse d’amore. La leggenda narra che le Sirene attratte dallo splendido mare, scelsero proprio il lungomare di Taranto come loro dimora, costruendo un castello incantato. Un giorno in città arrivarono due giovani sposi, lei bellissima e lui un giovane pescatore. La bellezza della ragazza non passò inosservata tra gli abitanti tarantini, ed uno di essi se ne innamorò e cominciò un lungo corteggiamento. Dopo tanti tentennamenti, la giovani cadde nella tentazione, ma distrutta dal rimorso confessò il suo grave tradimento al marito pescatore. Lui offuscato dalla gelosia e dal dolore il giorno successivo portò la moglie in barca e la spinse in mare. Le sirene arrivarono in soccorso della ragazza appena in tempo e, affascinate dalla sua incredibile bellezza, la incoronarono loro regina col nome di Ariel di Skuma perchè era stata portata dalle onde.

Il pescatore credendo di averla uccisa, ogni giorno tornava nel punto della catastrofe a piangere lacrime amare. Le sirene, colpite da quest’uomo così affranto lo portarono nel castello incantato dalla giovane amata, che scongiurò di risparmiarlo. Quando il pescatore si risvegliò a riva, ricordò quel che era accaduto, ed una fata gli rivelò il solo modo per liberare l’amata: raccogliere l’unico fiore di corallo bianco dal giardino delle sirene. Con un piano diabolico attrasse le sirene con gioielli bellissimi ed i due innamorati riuscirono a ricongiungersi. Questa leggenda misteriosa ed atroce attira la curiosità di molti turisti. Le statue delle sirene in realtà sono state realizzate dallo scultore Francesco Trani in cemento marino per renderle più resistenti all’azione corrosiva dell’acqua.

Fare shopping e partecipare alle feste popolari

perdoni-taanto

Il centro storico medievale di Taranto è molto caratteristico anche grazie alle tante botteghe aperte sulle piccole stradine. Sono piccoli negozietti dove vengono esposti souvenir di ogni genere. Questi attirano i turisti orgogliosi di portare a casa un ricordo di questo posto splendido. Nella parte moderna di Taranto invece, si trovano i negozi più prestigiosi con le firme più disparate.

Taranto è anche una città dalle forti tradizioni, ed ogni anno si susseguono una serie di feste popolari che riportano la città indietro nel tempo. Molto forti anche i riti religiosi, tra cui il più celebre e suggestivo è quello dei perdoni, durante il quale i fedeli della chiesa del Carmine, scalzi, vestiti di bianco, nel giorno del Giovedì Santo, con un crocifisso sulle spalle, fanno un pellegrinaggio tra le chiese del Borgo Antico e del Borgo Nuovo, camminando dondolando e roteando le troccole, che sono degli strumenti di legno che vengono battuti con dei pezzi di ferro. Molto importante anche la Processione dei Misteri del Venerdì Santo e dell’Addolorata dove da quattrocento anni i Gruppi Sacri della Via Crucis, seguono un lungo percorso attraverso la città.

Mangiare il pesce appena pescato

cosa-mangiare-taranto

In un posto di mare così bello e con una grande tradizione di pescatori non potete non sedervi in uno dei tanti ristoranti ed assaggiare il pesce appena pescato. I piatti forti sono i frutti di mare accompagnati da verdure della terra salentina. Da provare è il tarantello, un impasto di ventresca di tonno macinata e speziata, una vera bontà. Un altro piatto da provare sono le cozze arraganate, delle cozze farcite di mollica di pane, origano, aglio, olio, prezzemolo e pomodoro e  passate in forno. Dato che siamo in Puglia non dimenticate di assaggiare le orecchiette con le cime di rapa,ma anche il Risotto ai frutti di mare, il Polipo alla griglia, i Cavatelli con le cozze, tutto accompagnato dall’ottimo vino salentino.

IL PONTE GIREVOLE DI TARANTO

ponte-girevole1

Il Ponte Girevole rappresenta sicuramente il simbolo più conosciuto della città di Taranto. L’associazione Taranto-Ponte Girevole è praticamente automatica, un po’ come Roma-Colosseo, Parigi-Torre Eiffel, Londra-Big Ben, Amsterdam… vabbè, avete capito.
Vediamo come funziona il Ponte Girevole e ripercorriamo brevemente (sì, brevemente) le tappe della sua costruzione.

Innanzitutto, è costituito da un’imponente struttura in metallo che scavalca il canale navigabile collegando l’Isola della Città Vecchia con il Borgo Nuovo.
Le acque che il ponte sovrasta vengono solcate quotidianamente dalle piccole imbarcazioni dei pescatori tarantini, i cui volti sono abbronzati tutti giorni dell’anno.

Anticamente esisteva un vero e proprio istmo a unire le due sponde. Questo tratto di terra congiungeva l’acropoli della città (oggi “Città Vecchia”) con il resto dell’abitato, situato nell’attuale Borgo Nuovo, ma fu poi rimosso alla fine del ‘400 per proteggere il Castello Aragonese dall’attacco dei nemici. Più precisamente si trattava dei Turchi, i quali (dicono gli storici più rigorosi e preparati) erano tipi piuttosto vivaci…

L’apertura del Ponte Girevole

Assistere all’apertura del Ponte Girevole è davvero uno spettacolo singolare, tanto più considerando che avviene solo per consentire il passaggio di navi di grandi dimensioni nel Mar Piccolo o da questo verso il Mar Grande.

Sì, ok, ma come funziona l’apertura del ponte? Provo a spiegarla come se non capissi nulla di ingegneria. Il che corrisponde al vero.

VLUU L100, M100 / Samsung L100, M100

Il primo Ponte Girevole

pescatori-ponte-girevole-300x229

Qualche dato serioso. Pare che il primo Ponte Girevole di Tarantorisalga alla fine del 1800 e che sia stato realizzato in legno da una ditta di ingegneri di Napoli. Le turbine che ne garantivano il funzionamento erano azionate dalla caduta dell’acqua in una cisterna situata nel Castello Aragonese.

Nel 1956 il ponte in legno venne sostituito con quello attuale in metallo, sostanzialmente analogo al precedente ma confunzionamento elettrico. E’ inoltre più largo di alcuni metri.

In passato, il Ponte Girevole rappresentava l’unica via di comunicazione fra l’Isola della Città Vecchia e la terraferma, ma dal 1977 è affiancato in questo compito dal Ponte Punta Penna, detto anche Ponte Pizzone, che venne costruito a cavallo del restringimento naturale che crea i due seni del Mar Piccolo.

Curiosità (= frivolezze) sul Ponte Girevole

Avete mai letto il libro o visto il film “Ho voglia di te” di Federico Moccia? No? Questo depone a vostro favore.
Stando a quello che mi ha detto un amico di un amico (ok, ho letto il libro ma non mi è piaciuto affatto), è la storia di due ragazzi romani che si promettono eterno amore sul Ponte Milvio legando simbolicamente un lucchetto alla catena di un lampione e gettandone via la chiave nelle acque del Tevere.

Perché vi racconto questo? Perché gli innamorati della città bimare hanno trovato nel Ponte Girevole un analogo del Ponte Milvio e hanno attaccato alla sua ringhiera i famosi lucchetti dell’amore, lanciandone la chiave nel canale navigabile.
La maggior parte di essi sono stati rimossi, altri restano coraggiosamente aggrappati alla ringhiera a suggellare qualche ardore giovanile. Nonostante le numerose immersioni nel canale, le chiavi non sono mai state recuperate (è una battuta).

TARANTO ANTICA ED IL SUO MARE INTERNO

TARANTO ANTICA ED IL SUO MARE INTERNO
colon

Senza alcun dubbio, Taranto deve al mare, ed al Mar Piccolo in particolare, la sua stessa esistenza. Fin dall’antichità’ questo mare interno, dal clima temperato, le coste verdeggianti, l’acqua dolce e pura delle sorgenti, la pesca varia ed abbondante, dovette sembrare un luogo incantato sia per chi lo scelse come residenza, sia per i naviganti del Mediterraneo, che vi trovarono un porto sicuro e ricchezza di prodotti, come il bisso, la porpora, le ceramiche. Bisso: la più importante industria tarantina del passato è quella della lavorazione del bisso o lana pinna o lana pesce che è il ciuffo di filamenti serici, lungo da 10 a 20 cm., con il quale la Pinna Nobilis (detta volgarmente paricedda, conchiglia bivalva a foggia di scudo che in latino si chiama “perna “) è abbarbicata al fondo marino o sabbioso del mare, nel quale è infissa per circa 1/3 della sua lunghezza. Nel mollusco si ritrovano talvolta perle, ma il suo pregio sta nel ciuffo di filamenti, che opportunamente pettinato e trattato con soluzioni acide veniva filato e tessuto. Tinto o non con la porpora, dava stoffe pregiate, quasi diafane, con le quali nell’antichità venivano confezionate le vesti chiamate “Tarantinidie “. Ancora nel 1875 F.Gregorovius (Nelle Puglie,Firenze, 1882), visitando la città, descrive la Pinna Nobilis ed il tessuto semilanoso che dal suo bisso si produce ed i prodotti con questo confezionati: guanti, manicotti, merletti e frange, particolarmente pregiati. Nel 1889 una scrittrice inglese, Janet Ross (The land of Manfred,Londra, 1889), descrive la pesca della Pinna Nobilis con un particolare uncino, il “perneutico”(il pernilegium descritto da Plinio) e la lana pesce, cioè il bisso dal bel colore dorato. B.Mazzilli ( Relazione sull’andamento della vita economica a Taranto, 1926 ) scrive che la lavorazione del bisso, così come praticata dagli antchi, è insegnata nella Scuola Industriale Femminile. La Porpora : fu prodotto importantissimo nella Taranto MagnoGreca e Romana.Racconta D.L. De Vincentiis (Storia di Taranto, 1878 ) che questa si ricavava da due specie di murici, da una delle quali si ricavava un succo di colore turchino, dall’altra rosso chiaro.Dalla loro mescolanza nasceva una varietà di colori tutti pregiati; il più richiesto per la tinteggiatura dei tessuti più costosi era quello di colore viola. Nei pressi del convento di S.Antonio furono ritrovati grandi ammassi di gusci di murici così come in località Fontanella, cancellata dalla costruzione dell’ Arsenale Militare. La Taranto Magnogreca fu, per questi motivi, un importante centro di scambi commerciali soprattutto con la Grecia e l’Asia Minore, come testimoniano i reperti delle aree di scavo attorno al Mar Piccolo. Con la conquista romana il porto di Brindisi tolse a Taranto il primato, ma il Mar Piccolo continuò ad avere notevole importanza sia per la produzione del bisso che della porpora. I confini della città si erano estesi all’attuale borgo : durante i lavori di scavo per la costruzione dell’arsenale militare nei pressi della cava S. Lucia vennero alla luce i resti dell’antico porto e di costruzioni romane. Successivamente, la città vide l’alternarsi di vari padroni : Bizantini, Longobardi, Saraceni e dello splendore del passato rimasero solo gli scritti. Nel 927 il porto venne chiuso, ostruendo l’unico ingresso al bacino ad oriente. Nel 967 l’imperatore Niceforo Foca iiziò la ricostruzione della città, ampliò la superficie dell’Isola con la colmata della Marina e rafforzò il ponte di Porta Napoli. Il porto fu spostato a mar grande, dove è l’odierno porto commerciale. Con il dominio bizantino, il regime di proprietà si estese al mare con concessioni ai privati e agli organi religiosi (vedi lottizzazione del mare) ; anche i Normanni, gli Svevi e gli Angiolini lottizzarono, con rogiti notarili ; questi ultimi, anzi, istituirono in piazza fontana l’ufficio della dogana del principato, che diventò una delle entrate più importanti. Pali infissi sul fondo del Mar Piccolo contrassegnavano i limiti di proprietà delle peschiere, regolate da una serie complessa di tempi e modi di raccolta, tecniche di pesca, regole sulla qualità del pescato. Nel Libro Rosso dei Principi di Taranto sono contenuti tutti i regolamenti della pesca : regolamenti relativi ai diritti della Regia Dogana. Questa raccolta di leggi e decreti regolavano l’attività della pesca del XV secolo, cioè dal Principato di Antonio del Balzo Orsini, fino al 18 febbraio 1668. Era prevista una gabella per ogni specie di pesce pescato o venduto nei luoghi prescritti. Molto interessanti le date rigorose stabilite per la pesca d’ogni pesce, crostaceo o mitile e le proibizioni di pesca in alcuni luoghi ed in determinati periodi dell’anno. Nel 1793 furono aggiunti al Libro Rosso 19 articoli, compilatori N. Codronchi, F. Corradini, V. Reggi, con ulteriori regolamenti di pesca e compiti dei guardiani del mare. Era quindi indispensabile conoscere l’ubicazione, il nome delle numerose peschiere, le leggi che regolavano tempi e modi dell’attività di pesca, persino la misura dei pali di recinzione ; le infrazioni venivano infatti punite con multe severe e, talvolta con l’arresto.

QUADRI DEL CANONICO CECI
Nel corso delle nostre ricerche, ci siamo imbattuti in numerose carte topografiche di Taranto, antiche e recenti : tra queste ne abbiamo scelte due, per la loro atipicità e per il loro interesse. Sono il Quadro A ed il Quadro B del Canonico Ceci. I due quadri, di autore ignoto della seconda metà del 700, sono realizzati su legno, con tecnica mista : tempera e collage di minuscole conchiglie. Appartenevano alla ricca collezione ( costituita da reperti archeologici, oggetti di artigianato locale, conchiglie, quadri, ricami con bisso) del Canonico Giuseppe Antonio Ceci (1768-1851). Appassionato intenditore d’arte e malacologo, il Ceci aveva creato nella sua abitazione, nei pressi della discesa del Vasto, un museo che voleva affidare al Municipio di Taranto ; alla sua morte la collezione, invece, fu dispersa. Il Quadro A (cm. 135×80) è una planimetria anomala con due zone : nella parte alta è rappresentata la città di epoca greco-romana, con i dati topografici e toponomastici ; nella parte in basso è raffigurata la città medievale. La vista della città è presentata con il Sud in alto, per cui a Nord abbiamo il Mar Grande ed a Sud il Mar Piccolo. La rappresentazione mescola la storia con la leggenda ; nel mare vediamo navi greche, romane, galeoni saraceni e barchette di pescatori ; non siamo sicuri della reale esistenza dei toponimi e di alcuni monumenti. Nella parte alta, accanto all’Arx ( L’Acropoli), il canale appare come un fossato privo d’acqua, scavalcato da un ponte su arcate. Secondo il Quadro, lungo il Mar Piccolo correva la via Argentarea (che corrispondeva alla via Batheia, la via bassa, al tracciato della strada di S. Lucia, attuale via Pitagora) poiché, secondo la tradizione, avevano sede i banchi degli argentieri e dei cambiavalute. Lungo il Mar Piccolo procedendo dall’Acropoli, il Tempio della Pace, forse mai esistito, le officine della porpora (l’area tra il Museo Nazionale ed il Mar Piccolo era il quartiere industriale della Polis) il tempio di Dioniso (nella zona dell’ex convento S. Antonio, ex carcere giudiziario). Nella zona dell’Arsenale dov’era la rada di S. Lucia, viene ubicato il tempio di Priapo, protettore del porto o, secondo alcuni, il santuario di Asclepio, dio della medicina. In realtà come testimonia la ricostruzione di A. Conte, all’interno dell’Ospedale Militare, in un vasto ipogeo, si trovano i resti di un edificio sacro, dedicato a Demetra, Kore o Artemide. Nei pressi del Pizzone, la Fontana Maggiore, dove si credeva fosse sbarcato S. Pietro, e la Porta Temenide o di Apollo. Da notare l’ipotetico ponte che congiunge il Pizzone a Punta Penna. La città è munita da ogni parte da una doppia cinta di mura con in mezzo il pomerium. Nella zona bassa del quadro da notare le arcate e le torri di difesa, le numerose chiese ed i luoghi di culto della Città Vecchia, nel mare le peschiere e le attività di pesca. Il Quadro B (cm. 91×75) è una veduta del territorio del Mar Piccolo ; ha un asse centrale che divide il promontorio di Punta Penna ed il gruppo della famiglia Ceci ritratto in una capanna di ostricari. La rappresentazione è realistica e, in un’atmosfera serena di svago e di lavoro, rappresenta le attività di pesca e la toponomastica di Mar Piccolo in uso all’epoca del pittore. Nell’arco dei secoli, alcuni dei luoghi hanno nomi pressoché immutati, altri hanno due o più nomi, alcuni nomi sono invece scomparsi poiché con la costruzione dell’Arsenale Militare e poi dei Cantieri Navali, il passaggio della riva meridionale dal Canale Navigabile al Pizzone, è stato stravolto.(v. S. Lucia, Sciaje, Fontanelle). Abbiamo selezionato, partendo dal Pizzone) alcuni toponimi. Davanti al Pizzone, è illustrata la pesca derll’Intamacchiata ; nelle acque davanti a Pieschi si faceva la pesca delle ostriche con il ferro (o granfa). Nell’erta di Cicalone oltre Cimino, oggi zona militare, si faceva la pesca del fuso. Alle foci del Rasca e del Cervaro. Nel mare antistante le zone paludose (Erbara e La Vela) i cacciatori, dalle barche, sparavano ad un gran numero di uccelli acquatici.Si praticava la pesca della stordita. Le zone di Citri, Mascione e Copri, erano protette e chi pescava doveva pagare la quinta parte del pescato : da notare la pesca con le nasse. Lungo la penisola La Penna, nella zona Case, si praticava la pesca con lo sciabichello e quella del concio. Al di là del promontorio La Penna, a Malvaseda, la campagna era ricca di agrumi e di alberi da frutto ; nel mare antistante i tarantini andavano a gustare le ostriche ed altri molluschi. Nella peschiera Citrello (citrus) vicino al Galeso, dove erano le acque più ricche di pesce, si faceva anche la pesca delle sardelle con le reti. Il toponimo Lavandare fa pensare ad un corso d’acqua ; Fornaci trae origine dalla presenza di fabbriche di ceramiche : si faceva la pesca con le reti. E’ molto difficile fare un elenco delle peschiere, soprattutto dal Galeso a Porta Napoli ; abbiamo considerato soltanto il toponimo Torella, che designava sia la peschiera che un bellissimo giardino, irrigato dall’acquedotto Treglie, di proprietà della famiglia Torella, che degradava verso il mare. Dall’alto si poteva ammirare la vista del Mar Piccolo e del Mar Grande. Oggi è un territorio degradato, con discarica.

La pescosità del Mar Piccolo ci fa pensare alla fama di Taranto e dei suoi pesci, riferita dal Merodio che, alla fine del 600, nella “Storia di Taranto” scrive che suol dirsi quando si vede una persona grassa, che abbia trascorso la Quadragesima (quaresima) a Taranto. Quando guardiamo la barca coperta da un tettuccio colorato, con gitanti impegnati a banchettare, allietati dall’orchestrina di suonatori su una barca al seguito o analizziamo le scene idilliache di pesca, ricordiamo i versi delle “Deliciae Tarentine” di T.N. D’Aquino (1665-1721). Il poemetto in esametri latini in 4 libri, di modello virgiliano, fu tradotto da G. Carducci Artenisio nel 1771 con una serie di note importanti per capire la realtà tarantina.
” o dolcemente andar radendo il lito
in compagnia di musico drappello …
il mar n’echeggi e il colle ;e ‘l il bel concerto
tragga i delfini su pel molle argento”
leggiamo la pesca del cefalo
che, quando il Sole è in pieno leone,
va irrequietamente di qua e di là.
Veramente efficace la descrizione della pesca col frugnuolo, la “Jacca” del dialetto :
Quando splende Espero… e il cielo è senza luna
e il mare è tranquillo, tu accendi le fiaccole,…
subito il dentice, abbagliato da quella luce, si arresta…

Taranto e il suo mare interno tra il XIX ed il XX secolo
Alla costituzione del Regno d’Italia, Taranto si estendeva tra i due soli passaggi di Porta Napoli e di Porta Lecce, vigilati con i rispettivi ponti di pietra. Solo nel 1865 un regio decreto borbonico abolisce il divieto di edificare al di fuori delle mura delle fortificazioni antiche. Lo storico F.Gregorovius (Nelle Puglie, Firenze 1882) nella sua visita a Taranto nel 1875, ne ricava un impressione di miseria, abbandono, abulia. Solo il mare ricorda il glorioso passato della città, con i suoi floridi giardini di Mar Piccolo, con i suoi allevamenti di pesce e molluschi coltivati in recipienti(sciare) di proprietà di 56 ricche famiglie tarantine. Al di fuori di questi spazi la pesca è libera dietro pagamento di un dazio. Nel 1871 Taranto contava 27.546 abitanti, in maggioranza pescatori, presso la Marina per motivi di lavoro ed affettivi, da artigiani e da possidenti per attività del mare, masserie, non motivati quindi ad intraprendere altre attività imprenditoriali. La fine del regno borbonico eliminò l’antico sistema delle peschiere, del Libro Russo e dei dazi. Si sentì perciò la necessità di una nuova regolamentazione delle attività marinare attraverso la nascita di un’Azienda Municipale(vedi il fondo “Mar Piccolo” nell’Archivio storico comunale). Dopo il 1860, l’unificazione del mercato nazionale fanno scomparire le piccole industrie della lana pinna, della felpa e delle cotonate ; si sviluppano intanto attività connesse al porto(oli-vini-ostriche). Piccole industrie trasformano prodotti ittici(conserve in salamoia, in salsa dolce di ostriche e cozze in barilotti detti “cognotti”). Nel 1882 fu approvata la costruzione dell’Arsenale Militare, su progettodel senatore del regno Cataldo Nitti, e nel 1883 si procedette alla escavazione del Canale Navigabile.Sul Mar Piccolo vengono espropriati 49.622mq. di terreno, dal Canale Navigabile al Pizzone, si sbancano colline, si colmano 4ha. di mare, si abbattono ville(villa Beaumont, in parte Villa Peripato, villa S.Lucia di mons.Capecelatro). Fu il primo attacco all’ecosistema del bacino. Il 22/5/1887 dopo 5 anni di lavori viene inaugurato il Ponte Girevole (due bracci ruotanti mossi da turbine idrauliche). Dall’inaugurazione dell’Arsenale, 21/8/1889, si comincia ad affermare la monocultura statal-militare, con relativi progresso e condizionamenti. Al visitatore (G.Gissing “Sulla Riva dello Jonio”Bologna 1957) la vita dei pescatori appariva primitiva, come se avessero attraversato la storia indenni. In effetti l’industria del mare, che alla fine del secolo produceva in Mar Piccolo 93 specie di pesci e più di 150 varietà di conchiglie unitamente alle sciare con una produzione di 800.000 ostriche l’anno, non venne investita dal processo di modernizzazione in atto. Una economia quindi incapace di riconvertirsi e soggetta alle servitù militari fino ad oltre la 2 Guerra Mondiale, incapace di sfruttare le sue ricchezze naturali e di progredire nelle tecniche di coltivazione. Nel 1926 Mazzilli scriveva che la pesca era esercitata con metodi antiquati, pur se il pescato annuale era di 8.000q., e che lo sviluppo era ostacolato dalla mancanza di credito, mezzi tecnici, scuole professionali. La struttura industriale si sviluppa lungo le coste a nord del Mar Piccolo. Sorgono i Cantieri Tosi, l’idroscalo Pizzone, la scuola di aviazione della Marina : tutto è perciò funzionale allo scopo bellico, mentre le attività tradizionali sono in crisi profonda. Nel tempo si prediligono le attività metalmeccaniche prima ,siderurgiche poi (IV Centro Siderurgico nel 1964), e cementifere. Fino al 1972-73 la città vive il suo miracolo economico accompagnato da profonde modificazioni non tutte positive nella società e nell’ambiente spesso ignorato in nome dello sviluppo. Solo in questi ultimi tempi la città comincia a comprendere le conseguenze di aver privilegiato la produttività intesa come contraria all’ambiente.

q4 quadrob

MUSEO DI TARANTO

museo

Museo Archeologico Nazionale

Corso Umberto, 141 – Orari: dalle 9,00 alle 14,00 – Chiuso il Lunedì – Telefono: 099-453.21.12
Nel museo sono presenti mosaici di età greco-romana, terrecotte, antefisse, corredi funerari vascolari, ceramica attica a figure nere, ceramica di Gnathia. Un particolare settore è dedicato ai famosissimi ori e argenti del VI-VII sec. A. C.

Museo del Sottosuolo

Via Peripato
Il museo espone, in un settore della villa Peripato, i reperti speleologici e biologici.

Museo di Storia Naturale

Via P. Amedeo, 146 – Visite su appuntamento – Telefono: 099-452.69.62

testa

Museo Archeologico Nazionale
Istituito nel 1887, esso occupa la sede dell’ex convento di San Pasquale di Baylon, edificato poco dopo la metà del XVIII sec. e divenuto di proprietà demaniale in seguito alle requisizioni francesi del governo di G. Murat nel Regno di Napoli.
L’edificio è stato ingrandito e risistemato in varie fasi successive, a partire dal 1903. epoca della ricostruzione della facciata in stile umbertino, su progetto di G. Calderini.
L’ala settentrionale, invece, è stata costruita tra il 1935 ed il 1941, mettendo in atto parte di un progetto di completa ristrutturazione redatto da C. Ceschi.
Luigi Viola, l’archeologo cui si deve la stessa istituzione, proponeva di farne un Museo della Magna Grecia; esso, però, è sempre stato dedicato principalmente alla documentazione archeologica di Taranto e del resto della Puglia e conserva anche materiali di età preistorica e classica, provenienti dal territorio della Basilicata.
L’esposizione attuale risale alla risistemazione effettuata dal soprintendente De Grassi ed inaugurata nel 1963. Al secondo piano è ospitata la sezione preistorica che presenta le culture preclassiche dell’intero territorio regionale. Al primo piano è esposta, invece, la sezione dedicata alla società tarantina di età greco-romana. Il piano rialzato, infine, originariamente destinato ad accogliere la sezione topografica, è utilizzato attualmente per esposizioni temporanee. Il chiostro, che raccoglie mosaici ed elementi architettonici provenienti da Taranto, è chiuso al pubblico.
Uno dei musei più rimarchevoli e antichi del Meridione, oltre al Museo Provinciale di Lecce ed al Museo Provinciale di Bari, il Museo tarantino consta di ben due piani più un piano rialzato.
Piano rialzato: destinato ad ospitare una sezione topografica, attualmente custodisce alcune esposizioni transitorie.
Primo piano: accoglie la sezione greco-romana inerente la società tarantina:
Sale I – II: si custodiscono sculture in marmo, tra le quali: “statua acefala di divinità femminile” (sec. IV a.C.), “la Kore” (500 a.C.), “la testa di Eracle” (sec. IV a.C.), “stele” in marmo, “tappeti musivi” (sec. II – I a.C., cultura funeraria) e un antico “sarcofago” (sec. II a.C., neoattico).
Sala III: ospita reperti della civiltà romana, tra i quali spicca il pregevole “ritratto di Augusto velato” (il capo coperto da un toga) e preziosi elementi appartenenti alla necropoli Taranto.
Sala IV: custodisce un pregiato “sarcofago” arcaico (500 a.C.), una “lastra di chiusura” di un’antica tomba a camera (sec. II – I a.C.) ed altre gemme antiche.
Sala V: raduna una ricca collezione di ceramiche, provenienti dalla necropoli, in particolar modo corinzie e protocorinzie (“bronzetto di un cavallo”, aryballos”, “skyphos”).
Sala VI: si custodiscono particolari ceramiche provenienti da necropoli arcaiche; degne di nota le tre “kylikes”.
Sale VII – VIII – IX: impreziosite da vetrine ospitanti pregevoli materiali ceramici di corredi funerari (vasi attici), elementi di antiche armature, bardature da guerra, nonché raffigurazioni di attività atletiche, ben illustrano la mostra “Atleti e guerrieri”.
Sala X: anch’essa impreziosita di pregevoli ceramiche, ben illustra quella Àpula e di Gnathia.
Sala XI: o “sala oro”, custodisce i preziosi ori di Taranto, che rievocano l’antica arte orafa della città (sec. IV – I a.C.) e che trova particolare espressione in gioielli appartenenti a corredi funerari (“diadema”, “coroncine”, particolarissimi “orecchini a disco con tre pendenti”, ecc.)
Corridoi XII – XV: attornianti il chiostro, i corridoi costituiscono la parte finale della sezione greco – romana e radunano materiale coroplastico (antichi elementi artigianali della città greca – “tanagrine” -).
Secondo piano: offre la sezione preistorica, caratterizzata da espressioni artistiche preclassiche di tutto il territorio pugliese (Paleolitico ed Età del Bronzo).
I tesori della Taranto colonia di Sparta, sontuosa capitale della Magna Grecia, sono custoditi nel Museo Nazionale Archeologico. Una vastissima collezione di ceramiche e terrecotte consente una lettura delle tradizioni funebri, dell’arte della guerra, del ruolo dello sport, dei commerci, della cura per l’eleganza nella Taranto antica.

Demetra                                                                                                                              poseidon1

Le origini della nostra città e lo sviluppo del commercio
Sbarcarono su queste coste, sentirono profumo di rosmarino e non andarono più via. L’VIII secolo prima di Cristo era agli sgoccioli quando quegli uomini forti arrivarono dalla “tremenda” Sparta. Si chiamavano Parteni, illegittimi nati dalle vergini e dai guerrieri rimandati in patria durante la guerra di Messene per darle nuovi figli. Ma quando le armi tacquero, gli Spartani non furono leali con loro. Non vollero considerarli cittadini come gli altri e, dopo una fallita congiura, ai Parteni non restò che andarsene. Fu l’oracolo di Delfi ad indirizzarli: “Popolate la grassa terra degli Iapigi e siate la loro rovina”. Lo furono. Favorita dalla posizione geografica, Taranto divenne un simbolo della splendida era della Magna Grecia sulle coste lambite dallo Ionio. Mentre altrove, nell’Italia non ellenizzata, dominavano le tribù e si viveva in villaggi, in Puglia fiorivano le progredite e democratiche Città-Stato, le pòleis: “Percorse dalla filosofia, dalla matematica, dalla geometria, dall’astronomia, dalla logica, dalla fisica, dalla retorica, dalla medicina, avrebbero illuminato il mondo”.

Finché arrivò la potenza di Roma, cui Taranto si consegnò per evitare l’urto delle legioni. Per uno dei fari dell’antichità, era l’inizio della fine. Dal 272 avanti Cristo Taranto dineta “socia” dei Romani, cui paga un tributo di guerra e fornisce navi per la flotta. Esclusa dalle grandi vie di comunicazione, specie dopo la fondazione della colonia latina di Brindisi, perde la floridezza economica. Quando Roma la strappa dalle mani di Annibale, cui per dispetto si era consegnata, Taranto è saccheggiata e semidistrutta.Si conclude un’epoca. Diceva un vecchio saggio che per conoscere un popolo bisogna conoscere i suoi cimiteri. Attorno a Taranto una vasta necropoli ha restituito i resti della grandezza che fu. E il Museo Nazionale cittadino deve in gran parte a quelle 2500 tombe la sua ricchezza. A cominciare dalla prima meraviglia: gli ori. Collane, orecchini, anelli, diademi, monili rivelano tecniche di lavorazione che già 2300 anni fa avevano poco da invidiare a quelle odierne. Non tutti sono stati rinvenuti a Taranto, anzi alcuni tra i più ricchi provengono dalla tomba della fanciulla di Canosa.

Arch_gre_2

Finché le conquiste dello stupefatto Alessandro Magno misero a disposizione le immense ricchezze dei re persiani, e i Macedoni cominciarono a sfruttare le miniere della Tracia. Il nobile metallo non era molto diffuso nel mondo greco e magno-greco, a differenza del mondo orientale o di quello etrusco.I gioielli erano privilegio delle più fortunate donne del tempo, oppure venivano offerti agli dei, o infine deposti nelle tombe insieme alle spoglie dei proprietari. Ma la sala degli ori mostra anche il pezzo più pregiato fra le statue: il cosiddetto Zeus di Ugento, un bronzo trovato appunto nella vicina Ugento. Si ritiene opera di un artista tarantino di quella scuola magno-greca visitata da maestri provenienti dalla terra-madre. Venne anche il più noto di tutti, il famoso Lisippo, ad abbellire una città tanto ricca di statue, tanto maestosa e regale da fare la meraviglia dei conquistatori romani. L’altro pezzo forte della sezione statuaria è la Testa di Afrodite (325 a. C.), altera ed elegante. E poi il delicatissimo e morbido Corpo di Ninfa, il manto leggero che cade sui fianchi. E il giovane Dioniso, dalla linea ondulata del corpo, come voleva la sciola di Prassitele. Non c’era marmo sul posto e allora lo facevano arrivare dalla Grecia. Forse le piccole terrecotte figurate, esposte a centinaia, non reggono al confronto di tanta monumentalità. Ma trasmettono un senso di familiarità, e soprattutto colpisce la loro grazia.

Archeo_22Aimg_03                                                                                         Archeo_22Aimg_02

Sono opera degli artigiani della plebe e costituiscono il documento più immediato sulla vita di ogni giorno. Venivano depositate nelle fosse votive in onore della divinità; o anche nelle tombe, e la maggior parte raffiguravano il defunto in un banchetto con gli dei, perché così si credeva si svolgesse la vita ultraterrena.
Nelle vetrine sembra rivivere “la folla chiassosa e sciamante di Taranto magno-greca: giovani e vecchi, bambini e giocattoli, dei ed eroi, schiavi ed operai, danzatori e buffoni, saltimbanchi ed acrobati”. La famosa dolce vita ce la raccontano le danzatrici: una di queste balla il “baukismos”, quasi un tango. E una menade s’abbandona sfinita dopo il delirio orgiastico dionisiaco.

museo Archeo_22Aimg_01

E gli attori della farsa fliacica prendono in giro il mondo con maschere grottesche ed enormi falli. Ancora le tombe ci hanno restituito quello che resta della splendida ceramica del tempo. I vasi venivano dalla Grecia e sul fondo del mare chissà quante altre navi giacciono con preziosi carichi. Qui dalle sale occhieggiano le coppe laconiche, dall’orlo sottilissimo con le figure nere sul fondo rosso d’argilla (la Laconia era la regione di Sparta). Le più belle sono la Coppa con i pesci e la Coppa con tonni e delfini, due capolavori. Quindi la serie delle anfore. E l’hydria, i crateri, la kylix, la pisside. Infine una delle più ricche collezioni di ceramiche protocorinzie e corinzie: su tutte la celeberrima lékitos con la scena mitologica di Teseo e Arianna, opera del cosiddetto “pittore di Pan”. Si chiude l’epoca classica.

Non meraviglia che una potenza come Taranto partorisse atleti entrati nel mito. Questo, di cui si conserva qui la tomba, era robusto, alto circa un metro e settanta (una statura eccezionale allora), stroncato intorno ai trentacinque anni delle fatiche delle sue imprese. Tra il 500 e il 460 a. C. vinse tre volte il pentathlon (salto in lungo, disco, giavellotto, corsa, lotta), ebbe pochi rivali nella corsa delle quadrighe affrontò quel crudele pugilato che si protraeva fino allo stremo delle forze. Quando la sua bell’anima salì all’Olimpo, lo adagiarono per il meritato riposo in un sarcofago monumentale e dipinto. Ritrovato nel 1959 durante lavori di scavo in via Genova a Taranto, ora troneggia al centro di una sala pervasa da brivido della gloria. Agli angoli, tre anfore panatenaiche (dal nome dei giochi sportivi di Atene) illuminano la scena di sublime bellezza: erano quattro, ma una andò perduta.

ori museo2 museo Demetra Archeo_22img_01 (1) oro1 ori1 oro2

GLI SPORT DI TARANTO

  • CALCIO
  • VOLLEY
  • BASKET

CALCIO

curva nord 89 curva nord ta curva nord ta-lan erasmo jacovone gradinata 2 ta-casertana Ta-Cremonese1988 SECONDO ANELLO taranto-catania play off taranto-giulianova 2001-2002 untitled

TARANTO

IL CALCIO A TARANTO NASCE NEL 1906 DOVE L’ALLORA PRESIDENTE LUIGI ASCANELLI FONDA LA PRIMA SQUADRA CALCISTICA A TARANTO LA “PRO ITALIA”. NEL 1911 NASCE A TARANTO LA SECONDA SQUADRA DI CALCIO LA “AUDACE F.C.”.IN QUESTI ANNI L’AUDACE E’ LA PRO ITALIA SI DANNO BATTAGLIA, PARTECIPANO VARIE VOLTE ALLE SEMIFINALI NAZIONALI DI CATEGORIA, IL CAMPO DI GIOCO E’ IL “PIAZZA D’ARMI”.NEL 1927 L’AUDACE E LA PRO ITALIA FANNO LA FUSIONE E SOTTO LA GUIDA DEL PRESIDENTE ANTONIO COLUCCI NASCE L’A.S. TARANTO. L’A.S. TARANTO ESORDISCE AL CORVISEA BATTENDO L’IDEALE BARI PER DUE RETI A ZERO .NEL 1940-44 DURANTE IL CONFLITTO MONDIALE SI GIOCA SOLTANTO IN PUGLIA E PROPRIO A TARANTO SI RITROVANO TRE SOCIETA’ CALCISTICHE “PRO ITALIA, AUDACE ,U.S. ARSENALE”. NEL 1946 LA PRO ITALIA E L’AUDACE RIFONDANO L’A.S.TARANTO , QUINDI TARANTO SI RITROVA DUE SOCIETA’ CALCISTICHE IN SERIE B .NEL 1947 A FINE TORNEO LE DUE SOCIETA’ SI RIUNISCONO E NASCE “U.S.ARSENALTARANTO”. DOPO MOLTI ANNI TRA LA SERIE B E LA SERIE C, NEL 1955 RINASCE L’A.S.TARANTO . NEL 1964-65 CON LA SQUADRA IN C , L’ALLORA PRESIDENTE MICHELE DI MAGGIO FECE COSTRUIRE LO STADIO IN 100 GIORNI , MESSO SU CON ASSI IN LEGNO E TUBI IN FERRO , LA CAPIENZA ERA DI 20000 POSTI , IL ” SALINELLA ” FU COSI’ INNAUGURATO L’8 DICEMBRE DEL 1965 CON UN’AMICHEVOLE CON IL FOGGIA . NEL 1969 IL TARANTO SALE IN B DOPO CHE FURONO FATTI RECLAMI SUL CASO ” CASERTANA”. NEL 1974 IL PRESIDENTE DI MAGGIO CEDETTE LA SQUADRA A GIOVANNI FICO CHE LA TENETTE FINO AL 1979 . IN QUEI ANNI PROPRIO SOTTO LA SUA GUIDA PERDEMMO IL CENTRAVANTI PIU’ FORTE DELLA STORIA DEL TARANTO “ERASMO JACOVONE”. NEL 1983 DOPO BEN QUATTRO PRESIDENTI CAMBIATI DOPO FICO ,PRESO DALL’ENTUSIASMO PER LA CITTA’ DI TARANTO LA SQUADRA PASSA IN MANO AL “CAVALIER LUIGI PIGNATELLI ” CHE RIPORTA IL TARANTO IN B . NEL 1985 LA SQUADRA VIENE PRELEVATA DALL’ ING. VITO FASANO, E LA SOCIETA’ ANCORA UNA VOLTA CAMBIA DENOMINAZIONE , NASCE IL “TARANTO F.C. “. DOPO 5 ANNI DI GESTIONE CON LA PROMOZIONE IN B NEL 1986 LASCIA LA SOCIETA’ IN MANO A DONATO CARELLI IN SERIE C . CON CARELLI IL TARANTO FECE UN SOLO ANNO DI C , E TRE DI B . MA NEL MALEDETTO LUGLIO DEL 1993 IL TARANTO FU RADIATO PER CAUSE ECONOMICHE , ALLORA IN POCO TEMPO UNA CORDATA DI TARANTINI FORMATO DA ” RUTA-BITETTI.COMEGNA-DOTT.UZZI” FONDANO IL TARANTO CALCIO 1906, E SI RICOMINCIA DAL CALCIO DILETTANTISTICO .NEL 1995 SI EBBE LA PROMOZIONE IN SERIE C2 MA DURO’ SOLO 2 ANNI , PER POI RETROCEDERE NUOVAMENTE NEI DILETTANTI . NEL 1998 SOTTO LA PRESIDENZA DI UN’ALTRA CORDATA DI IMPRENDITORI TARANTINI NASCE L’ U.S. ARSENALTARANTO ,CON PRESIDENTE EMANUELE PAPALIA . LA SERIE C2 ARRIVA NELL’ANNO 2000 CON UN RIPESCAGGIO PERCHE MIGLIORE SQUADRA CLASSIFICATOSI NEI GIRONI DEL CND. NEL 2000-2001 , LA SQUADRA PASSA IN MANO AD “ERMANNO PIERONI”(60%) CHE CON ALTRI IMPREDITORI SI DIVIDONO LE PARTI (40%), E LA SQUADRA CAMBIA DENOMINAZIONE “TARANTO CALCIO SRL”. IN QUELL’ANNO ANDIAMO DIRITTI IN SERIE C1 DOPO UN CAMPIONATO STREPITOSO . NELL’ANNO SUCCESSIVO (2001-2002) IL TARANTO ARRIVA SECONDO , E SI DEVE ACCONTENTARE DELLA LOTTERIA DEI PLAY-OFF , POI PERSO IN FINALE CON IL CATANIA, DOPO CHE FU GIOCATA UNA PARTITA MOLTO POLEMICOSA , E UN’PO’ STRANA . NEL 2002-2003 IL TARANTO DISPUTA IL CAMPIONATO DI SERIE C1, RIESCE A SALVARSI SENZA PASSARE DALLA LOTTERIA DEI PLAY-OUT, MA NELLA STAGIONE SUCCESSIVA 2003-2004 IL TARANTO CALCIO A FINE CAMPIONATO RETROCEDE DISPUTANDO GLI SPAREGGI CONTRO LA FERMANA, MA COME SE NON BASTASSE OLTRE LA RETROCESSIONE DELLA SOCIETA’ , IL TARANTO CALCIO NELLA STAGIONE SUCCESSIVA 2004-2005 DISPUTA IL CAMPIONATO DI SERIE C2 SENZA PRESIDENTE, LA SQUADRA E’ AFFIDATA AL TRIBUNALE FALLIMENTARE E ALLA TIFOSERIA ORGANIZZATA CHE ATTRAVERSO INIZIATIVE RIESCONO A RICAVARE IL DENARO UTILE PER SOSTERE LE PARTITE INTERNE ED ESTERNE DEL TARANTO CALCIO, MA NEL DICEMBRE DEL 2004 LE COSE CAMBIANO IL TARANTO VIENE ACQUISTATO DAL NUOVO PRESIDENTE “BLASI” DI MANDURIA , CHE FA NASCERE UNA SOCIETA’ COMPLETAMENTE SANA CAMBIANDO LA DENOMINAZIONE DA TARANTO CALCIO SRL A TARANTO SPORT.

VOLLEY

magna grecia

LA STORIA DEL VOLLEY A TARANTO

LA “MAGNAGRECIA VOLLEY TARANTO” NASCE NEL 1996-97 DOPO LA FUSIONE CON LA VOLLEY CLUB MATERA CHE CEDE IL TITOLO SPORTIVO A TARANTO.IL PRIMO CAMPIONATO GUIDATO DAL TECNICO GABRIELE COTTARELLI TERMINA AL 4°POSTO IN SERIE A/2. NELLA STAGIONE 97/98 LA SQUADRA VIENE AFFIDATA A VINCENZO DI PINTO CHE CONCLUDE IL CAMPIONATO AL 5° POSTO AD UN SOLO SET DAI PLAY-OFF.
NELLA STAGIONE 98/99 SEMPRE IN A/2 LA MAGNA GRECIA FINISCE IL CAMPIONATO AL 9°POSTO ZONA TRANQUILLA.
NELLA STAGIONE 99-2000 AVVIENE LA PROMOZIONE NEL CAMPIONATO DI A/1 , LA SQUADRA INFATTI CHIUDE LA STAGIONE AL 1°POSTO.
NEL 2000-2001 NONOSTANTE SI E’ CONQUISTATA LA SALVEZZA IN A1 CHIUDENDO SEMPRE CON DI PINTO IN PANCHINA ALL’11° POSTO , PER PROBLEMI SOCIETARI LA MAGNA GRECIA VOLLEY VIENE RADIATA , MA GRAZIE AL PRESIDENTE BONGIOVANNI DOPO 3 ANNI PASSATI NELLA SERIE C CON UNA NUOVA SOCIETA’, LA “TARANTO VOLLEY” RIESCE AD ACQUISTARE IL TITOLO SPORTIVO DI UNA SOCIETA’ DI VOLLEY DI SERIE A1 “PARMA”, COSI’ DAL CAMPIONATO 2004-2005 LA TARANTO VOLLEY OTTIENE ANCHE IL PERMESSO DI GIOCARE LE PARTITE INTERNE NEL NUOVO IMPIANTO DEL PALAMAZZOLA (VECCHIO STADIO MAZZOLA)…

BASKET

Cras1

IL CRAS BASKET NASCE NEL 1961 DISPUTANDO GARE DI LIVELLO REGIONALE CONQUISTANDO SUCCESSIVAMENTE LA SERIE B INTERREGIONALE .
DISPUTA GARE DI CATEGORIE OTTENENDO OTTIMI RISULTATI NEGLI ANNI.
ARRIVANDO AI GIORNI NOSTRI IL CRAS BASKET E’ LA REALTA’ SPORTIVA PIU’ SIGNIFICATIVA DELLA PROVINCIA TARANTINA ,RAPPRESENTANDO TARANTO NEL MASSIMO CAMPIONATO ITALIANO DI SERIE A1.

TARANTO DUE MARI

…. TARANTO 2 MARI…..

LA STORIA DI TARANTO

Canale navigabile in costruzione copia PiazzaFontana copia PortaNapoli copia VIA D'AQUINO

IL PRIMO NUCLEO DELLA CITTA’ FU FONDATO ,CON IL NOME GRECO TARAS,DA COLONI PROVENIENTI DA SPARTA VERSO LA META’ DELL’VIII SECOLO a.C., E SI
SVILUPPO’ PRESTO IN UN RICCHISSIMO EMPORIO COMMERCIALE, CHE DOMINO’ LA VICINA METAPONTO E COMBATTE’ CONTRO LE POPOLAZIONI INDIGENE DEI MESSAPI,DEI PEUCEZI E DEI LUCANI .DOPO UNA GUERRA CONTRO ROMA IN CUI INTERVENNE ANCHE PIRRO ,RE DELL’EPIRO ,LA CITTA’ FU CONQUISTATA DAI ROMANI UNA PRIMA VOLTA NEL 272 a.C. E ,DOPO ESSER PASSATA DALLA PARTE DEI CARTAGINESI,FU RICONQUISTATA UNA SECONDA VOLTA NEL 209 a.C. E PUNITA CON DEVASTAZIONI E SACCHEGGI; INFINE VENNE TRASFORMATA IN COLONIA.

NEL 90a.C. TARENTUM (QUESTO ERA IL NOME ROMANO ) FU ELEVATA A MUNICIPIO, MA GRADUALMENTE DECADDE, ANCHE A CAUSA DELL’AFFERMARSI DI BRINDISI COME CITTA’ PORTUALE .PRESA SUCCESSIVAMENTE DA GOTI,LONGOBARDI E SARACENI, NEL1967 PASSO’ SOTTO IL DOMINIO DEI BIZANTINI CHE LA RIEDIFICARONO , A PARTIRE DAL 1063 FURONO INVECE I NORMANNI A TRASFORMARLA IN UN POTENTE PRINCIPATO,SOTTO GLI ANGIOINI, GLI ARAGONESI E, DAL 1502, GLI SPAGNOLI VENNE SEMPRE PIU’ FORTIFICATA PER CONTRASTARE LE INCURSIONI DEI TURCHI. A CAUSA DEL MAL GOVERNO DEI VICERE’ SPAGNOLI, TUTTAVIA ,LA CITTA’ DECADDE NUOVAMENTE, SEGUENDO DA ALLORA LE SORTI POLITICHE DELLA REGIONE . CON IL REGNO D’ITALIA DIVENNE UN’IMPORTANTE PORTO MILITARE E UN ‘ARSENALE DELLA MARINA.

TARANTO ODIERNA :
NEL 1943 GRAVEMENTE DANNEGGIATA DAI BOMBARDAMENTI AEREI DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE , LE VESTIGIA GRECHE E ROMANE SONO ASSAI SCARSE . LA CITTA’ VECCHIA CHE DIVENNE UN’ISOLA NEL 1481 QUANDO FU SCAVATO UN CANALE NAVIGABILE PER DIFESA CONTRI I TURCHI ( ORA ATTRAVERSATO DA UN PONTE GIREVOLE ) MOSTRA IN PARTE L’IMPIANTO VIARIO MEDIEVALE E RACCHIUDE I MONUMENTI PIU’ ANTICHI . LA CITTA’ NUOVA SI TROVA SULL’AREA ORIGINARIAMENTE OCCUPATA DALLA NECROPOLI GRECA ,DAL CUI SITO PROVENGONO MOLTI REPERTI OGGI CONSERVATI NEL MUSEO ARCHEOLOGICO , SULLO STESSO LUOGO , VERSO IL IV SECOLO a.C. , PRESE FORMA ANCHE LA CITTA’GRECA CONCEPITA SECONDO I PRINCIPI URBANISTICI .
NELLA CITTA’ VECCHIA SI TROVANO POCHI RESTI DI UN TEMPIO DORICO DEL VI SECOLO a.C. , IL DUOMO DELL’XI SECOLO CON FACCIATA E ALTRI INTERVENTI BAROCCHI , FRA I QUALI LA CAPPELLA DI SAN CATALDO, LA CHIESA DI SAN DOMENICO MAGGIORE DEL’XI SECOLO RIFATTA NEL 1302 , IL CASTELLO ARAGONESE, DAI QUATTRO TORRIONI CILINDRICI, COSTRUITO FRA IL 1481-1492,E INFINE LA CASA NATALE DEL MUSICISTA GIOVANNI PAISIELLO.

TAMBURI-LIDO AZZURRO

Tamburi – Lido Azzurro è una circoscrizione di Taranto posta alla periferia nord-occidentale del comune, con una popolazione di 17 644 abitanti. È costituita dai quartieri Tamburi, Lido Azzurro e dalla zona denominata Porta Napoli.

Il territorio della circoscrizione, che si estende per

37,85 km², è situato all’ingresso nord-occidentale della città, ed è attraversato dalle principali arterie che collegano il capoluogo jonico agli altri centri abitati: la SS7, la SS106 e laSS172. L’intera area circoscrizionale è posta inoltre nei pressi dei più importanti insediamenti industriali e portuali.

Confini territoriali

  • A nord : la linea di confine parte dal limite comunale di Statte seguendo la SS7 (inclusa) e la Gravina Gennarini, sino alla linea ferroviaria.
  • A est: la linea di confine parte dal mar Piccolo, interseca la SS172 e la SP20, passando per il fosso Galeso.
  • A sud: confina naturalmente con la costa di Lido Azzurro sino al Ponte di Porta Napoli (incluso, che rappresenta il collegamento fra la zona Porta Napoli e l’isola della Città Vecchia), e con la costa del mar Piccolo fino al fossoGaleso (incluso).
  • A ovest: la linea di confine parte dalla SS7 per raggiungere la costa di Lido Azzurro fino al Ponte di Porta Napoli.

Il nome “Tamburi” trae la sua origine dal termine “tamburo”, con cui si indicava il recipiente destinato alla raccolta delle acque provenienti da un cunicolo posto sulla collinetta “Le Fornaci”: lì sorgeva l’antico Acquedotto del Triglio, costruito nel 1543 ed unica fonte di approvvigionamento delle acque per l’intera città, del quale si trova notizia negli scritti di Giambattista Gagliardo, sacerdote, agronomo ed economista tarantino. Il quartiere “Tamburi” nacque agli inizi del XX secolo lungo un’area famosa a quel tempo per la folta vegetazione (ulivi e pini) e per la salubrità dell’aria.

I primi complessi abitativi furono edificati al di là della Porta Napoli, e sorsero con l’esigenza di far risiedere le famiglie dei dipendenti degli impianti ferroviari presenti nei pressi. In seguito, con lo sviluppo della zona industriale e soprattutto con la costruzione dell’acciaieria Italsider, questo rione iniziò ad espandersi lungo le arterie stradali che conducono verso la Valle d’Itria e la zona occidentale della provincia. Parallelamente, la continua espansione abitativa della frazione marina di Lido Azzurro, posta lungo la SS106, ha avvicinato i due territori ed allungato difatti l’estensione territoriale della città, rendendo necessaria la creazione della circoscrizione n° 2.

L’emblema della circoscrizione rappresenta la Vergine protettrice dei mari col Bambino, che salva un gruppo di pescatori dalle acque in tempesta. Esso riprende il bassorilievo in pietra bianca posto in via delle Fornaci presso l’ex Azienda delle Cozze.

Emblema

L’emblema della circoscrizione rappresenta la Vergine protettrice dei mari col Bambino, che salva un gruppo di pescatori dalle acque in tempesta. Esso riprende il bassorilievo in pietra bianca posto in via delle Fornaci presso l’ex Azienda delle Cozze.

Chiesa_di_Santa_Maria_di_Costantinopoli_(Taranto)

Una piccola chiesa dedicata alla Madonna di Costantinopoli fu eretta nel 1570 su volere di don Giovanni De Algertiis ed otto anni dopo ricevette la visita pastorale del vescovo Lelio Brancaccio.

Nel 1926 a causa dei lavori allo scalo ferroviario fu demolita e ricostruita pietra su pietra, col suo proprio materiale di risulta a pochi metri di distanza dal vecchio sito, sotto il cavalcavia della statale per Bari, conservando identiche dimensioni e disposizioni architettoniche. Riaperta al culto dopo il restauro del 2007, si caratterizza per lo spazio interno regolato da un movimento circolare evidenziato nella cupola ellittica che è sopra una piccola navata. La pavimentazione è stata realizzata in cotto antico, mentre l’altare è stato ricostruito in una posizione diversa rispetto a quella originaria. Su di esso è stata posta una effigie in ceramica di santa Maria di Costantinopoli che riproduce l’originale che si trova nella navata destra della basilica cattedrale.

800px-Madonna_Stella_Maris

Chiesa Stella Maris

Aperta al culto nel 1947, è stata dapprima ospitata nell’edificio XXIV Maggio e successivamente trasferita nella cappella della stazione ferroviaria. La statua della Madonna protettrice degli operatori del mare è stata realizzata da Ferdinando Stuflesser.

Ponte_girevole

Non tutti sanno che in realtà il vero nome del nostro ponte girevole e’ ponte di San Francesco da Paola.

Noi tutti lo conosciamo con il nome ponte girevole per la sua originalita’ e nella sua caratteristica principale cioè il suo “girare” al passaggio di navi.

Il ponte di San Francesco di Paola di Taranto è la struttura che collega l’isola del Borgo Antico con la penisola del Borgo Nuovo. Inaugurato il 22 maggio 1887 dall’ammiraglio Ferdinando Acton, il ponte sovrasta un canale navigabile lungo 400 metri e largo 73 metri che unisce il Mar Grande al Mar Piccolo.

Costruito dall’Impresa industriale italiana di costruzioni metalliche (Castellammare di Stabia) di Alfredo Cottrau, su progetto dell’ing. Giuseppe Messina, era originariamente costituito da un grande arco a sesto ribassato in legno e metallo, diviso in due braccia che giravano indipendentemente l’una dall’altra attorno ad un perno verticale posto su uno spallone. Il funzionamento avveniva grazie a turbine idrauliche alimentate da un grande serbatoio posto sul Castello Aragonese adiacente, capace di 600 metri cubici di acqua che in caduta azionavano le due braccia del ponte.

La struttura venne successivamente rimodernata negli anni 19571958, introducendo un funzionamento di tipo elettrico, ma mantenendo di fatto inalterati i principi ingegneristici della allora costituenda Direzione del genio militare per la Marina. Il progetto fu realizzato dalla Società Nazionale Officine di Savigliano, per tutto quello che riguardava gli organi meccanici ed i comandi elettrici. Il nuovo ponte fu inaugurato dal presidente della Repubblica Giovanni Gronchi il 10 marzo 1958, e venne intitolato a san Francesco di Paola, protettore delle genti di mare.

Il ponte misura attualmente 89,9 metri di lunghezza e 9,3 metri di larghezza. Il ponte girevole è sottoposto periodicamente ad accurati interventi di manutenzione, sia degli organi meccanici che dell’intera struttura metallica. Ciascun semiponte che costituisce di fatto la sua struttura, ruota intorno ad un perno centrale ancorato tramite tirafondi alla banchina in cemento, muovendosi sopra una cremagliera mediante un pignone sempre in presa azionato da un motore elettrico. Il tutto poggia su una pista di rotolamento costituita da una serie di cilindri di acciaio. L’apertura del ponte, si rende necessaria per consentire il passaggio delle grandi navi militari dirette alle banchine ed ai bacini dell’Arsenale della Marina Militare situati nel Mar Piccolo per i lavori di manutenzione. La gestione dell’apertura, così come la manutenzione, sono affidate alla Marina Militare.

Ponte_Girevole_(Taranto)_opening_1

Le procedure di apertura e di chiusura del ponte richiedono complessivamente una ventina di minuti, le manovre sono condotte dall’interno di due cabine di pilotaggio situate nei pressi di ciascun semiponte, mentre quattro operai controllano il corretto funzionamento dei dispositivi automatici, pronti ad intervenire in caso di avaria degli stessi.

Le prime operazioni manuali da compiere sono quelle di rimozione degli otto calaggi e di sganciamento dei due chiavistelli posti alle estremità, che hanno lo scopo di rendere il ponte stabile quando è chiuso. L’apertura vera e propria inizia con la rotazione di circa 45° del semiponte lato Borgo Antico, quindi con la rotazione di 90° del semiponte lato Borgo Nuovo, seguita dal completamento della rotazione di quello lato Borgo Antico.

Il ponte girevole costituisce il principale simbolo della città di Taranto, e può essere considerato per la sua unicità una mirabile opera d’ingegneria navale, ed è quiindi l’unico ponte mobile esistente in Italia. Inoltre, il transito delle navi con l’equipaggio sul ponte è un momento molto suggestivo per i familiari e gli amici che salutano i propri cari dal lungomare.

Il ponte appare in alcuni film, il più antico dei quali è senz’altro La nave bianca, girato a Taranto nel 1941. Anche Gabriele d’Annunzio cita la struttura in un suo poema: 

« Taranto, sol per àncore ed ormeggi
assicurar nel ben difeso specchio,
di tanta fresca porpora rosseggi?A che, fra San Cataldo e il tuo più vecchio
muro che sa Bisanzio ed Aragona,
che sa Svezia ed Angiò, tendi l’orecchio?Non balena sul Mar Grande né tuona.
Ma sul ferrato cardine il tuo Ponte
gira e del ferro il tuo Canal rintrona.Passan così le belle navi pronte
per entrar nella darsena sicura,
volta la poppa al jonico orizzonte. »
(Gabriele d’AnnunzioLaudi del Cielo del Mare della Terra e degli Eroi, libro IV)

Il ponte girevole è anche la destinazione di uno dei frequenti viaggi automobilistici del conte Oddino degli Oddi-Semproni e delle sue due zie, in Sipario ducale di Paolo Volponi, romanzo del 1975, ambientato nella Urbino del 1969.

Ponte_Girevole_at_Night

SUDDIVISIONE AMMINISTRATIVA

Suddivisione amministrativa

Il comune di Taranto è suddiviso in sei circoscrizioni:

  • La I Circoscrizione (Paolo VI) è costituita dall’omonimo quartiere, che sorge a nord della città, di gran lunga il più vasto della città, che conta circa 18000 abitanti. È il più recente per formazione, essendo sorto idealmente come zona residenziale per gli operai del confinante siderurgico negli anni sessanta. A causa dell’abbandono delle più fatiscenti costruzioni del borgo antico, furono costruiti anche in questo quartiere centri di edilizia popolare per soddisfare le esigenze della popolazione.
  • La II Circoscrizione (Tamburi – Lido Azzurro) accorpa un vasto territorio a nord-ovest della città esteso per circa 38 km², costituito da due quartieri principali (Tamburi e Lido Azzurro) e altri due più esiguamente abitati (Croce e Porta Napoli). Il quartiere Tamburi, adiacente allo stabilimento siderurgico, è considerato tra i più inquinati d’Europa: vi risiede gran parte dei circa 17000 abitanti della circoscrizione. La zona di Porta Napoli rappresenta il raccordo fra il quartiere Tamburi e l’isola della città vecchia e include la principale stazione ferroviaria della città. Il quartiere Croce, sito a ridosso dell’area industriale, è scarsamente abitato, mentre il quartiere Lido Azzurro contiene l’unico sbocco balneabile della circoscrizione.
  • La III Circoscrizione (Città Vecchia – Borgo) comprende i due quartieri storici della città: l’isola della Città Vecchia, primo fulcro dell’abitato, e il Borgo, separato dalla parte antica dal Ponte Girevole, su cui sorsero i primi insediamenti abitativi della “città nuova”. La circoscrizione, di cui fanno parte anche le Isole Cheradi, è fra le più popolose, con i suoi circa 43000 abitanti. Qui sono presenti le più importanti testimonianze storiche della città di Taranto e gli attuali punti di riferimento istituzionali.
  • La IV Circoscrizione (Tre Carrare – Solito) comprende i quartieri Tre Carrare – Battisti e Solito – Corvisea.
  • La V Circoscrizione (Montegranaro – Salinella) include i quartieri Italia – Montegranaro e Salinella.
  • La VI Circoscrizione (Talsano – Lama – San Vito) si estende sui quartieri Talsano – Palumbo – San Donato, San Vito – Lama – Carelli e Tramontone (Sant’Egidio)

CUCINA TARANTINA

Cucina

I ristoranti tradizionali della città offrono una cucina che combina i frutti di mare con i prodotti della terra, conditi con l’ottimo olio extravergine di oliva tarantino (Olio Terre Tarentine DOP). Piatti tipici come i cavatelli con le cozze, il risotto ai frutti di mare, il polpo ed il pesce alla griglia, sono accompagnati da ortaggi crudi o cucinati nei modi più vari: i pomodori, i peperoni, le melanzane, i carciofi ed i legumi sono particolarmente saporiti.

Da non dimenticare le orecchiette (a Taranto chiamate chiangarèdde) con le cime di rapa, al sugo di braciole di cavallo o al ragù, nonché le mozzarelle e le provole fresche, o gli involtini di vitello, i fegatini “fegatidde” e gli gnumarelli “gnumaridde” alla brace, accompagnati con i vini del territorio (Aleatico di Puglia DOC, Lizzano DOC, Martina Franca DOC, Primitivo di Manduria DOC).

Arance, mandarini, clementine (Clementina del Golfo di Taranto IGP), uva, fichi e angurie non mancano mai sulle tavole imbandite, così come i dolci di miele ed in pasta di mandorle, o le più tipiche Carteddàte, Sannacchiùdere e Pettole, preparate nell’occasione di particolari festività o ricorrenze.

La Birra Raffo è per antonomasia “la birra dei tarantini

 Inoltre, sebbene oggi non sia più di proprietà dell’omonima famiglia, ma oramai rilevata dalla distilleria Caffo, è originaria di Taranto la Borsci, creatrice del famoso Elisir San Marzano Borsci.

Le Poste e U Salamelicche

hqdefault

I Riti della Settimana Santa a Taranto: Le Poste e U Salamelicche

Il pellegrinaggio delle poste, la processione della Addolorata nella notte del Giovedì Santo e la processione dei Misteri del Venerdì Santo sono i principali eventi de I riti della Settimana Santa di Taranto. In questa pubblicazione ci occuperemo delle poste.

La posta è la coppia di confratelli penitenti che compie il pellegrinaggio ai Sepolcri. Oggi a Taranto le poste sono le coppie dei confratelli del Carmine. Ma pare che questo privilegio i perdoni di Taranto lo hanno acquisito solo alla fine del 1700. Prima di allora infatti il pellegrinaggio ai Sepolcri era fatto anche dalle poste composte da confratelli di altre congreghe. Come quelli del Rosario con i quali, pare che i Carmelitani ebbero diversi e spiacevoli disguidi (ndr di cui parleremo in un altra pubblicazione).

Le poste escono in pellegrinaggio dalla Chiesa del Carmine. Alcune escono dal portone principale, altre invece escono dalla portone della sacrestia, su via Giovinazzi.

Quelle che escono dal portone principale vanno in pellegrinaggio verso la Città vecchia. Anticamente questo loro percorso era detto “giro di città”. Quelle che escono dal portone della sacrestia invece visitano le chiese del borgo nuovo. In passato venivano chiamate “poste del giro di campagna”, poiché a quei tempi l’attuale borgo di Taranto era quasi tutta campagna.

Succede che durante il pellegrinaggio due poste, due coppie di confratelli, si incontrino sulla stessa strada. Quando ciò accade si verifica il rito de “U Samelìcche”: i perdoni si tolgono il cappello, il quale si adagia dietro le spalle, si inchinano e sbattono i medaglieri, i rosari e le corone all’altezza del petto.

Personaggi Famosi

Personaggi Famosi

La città di Taranto ha dato i natali a personaggi famosi che, al momento, operano nel mondo del teatro e dello spettacolo in genere. Uno di questi, per esempio, è Giobbe (vero nome Gianmaria) Covatta nacque a Taranto nel 1956 ed è un comico, uno scrittore, un attore e testimonial di AMREF e Save the Children (associazioni benefiche per salvare le popolazioni africane). Agli inizi degli anni ’90, prendendo parte al seguitissimo programma del Maurizio Costanzo Show, Covatta cominciò ad acquisire una certa fama nazionale. In seguito, il comico pugliese farà molto teatro in diverse città per poi debuttare al Parioli di Roma a metà degli anni ’90 con lo spettacolo dal titolo”Io e Lui”, affiancato dagli attori Vincenzo Salemme e Francesco Paolantoni, e infine “Art” con Ricky Tognazzi regista.

La consacrazione dell’autore arriva con il suo “Dio li fa e poi li accoppa” che continua con un’altra edizione dal titolo “Dio li fa…Terzo millennio”. Circa 10 anni è ritornato al Parioli ad affiancare Serena Dandini e Corrado Guzzanti nel programma L’Ottavo Nano che andava in onda su Rai 2. Infine, segnaliamo nel 2011 l’ultima sua fatica teatrale in insieme ad Enzo Iacchetti da titolo “Niente progetti per il futuro”, una commedia andata in replica nei migliori teatri italiani per ben ottantasette volte.

Un altro personaggio del mondo dello spettacolo e nato a Taranto è Teo Teocoli. Vero nome Antonio Teocoli, figlio di una coppia calabra, visse i suoi primi cinque anni di vita a Reggio Calabria, prima di trasferirsi con la sua famiglia definitivamente a Milano. Da adolescente s’interessa di musica creando diversi gruppi musicali, di cui era il solista, tra cui quello con il quale che ebbe un maggior successo, i “Quelli” che venderono tanti dischi con il singolo “La bambolina che fa no no no”. Nel 1967, Teo lasciò i “Quelli” e nel 1969 entra a far parte di un cast per una commedia dove vi erano personaggi del calibro di Renato Zero, Ronnie Jones, Loredana Bertè.
Negli anni ’70 entra definitivamente nel mondo del Cabaret dopo aver incontrato Massimo Boldi, Renato Pozzetto e Cochi Ponzoni. Saranno tanti in seguito le trasmissioni in cu vi partecipò, si ricordano Emilio nel 1989, nel 1991 al gioco dei 9, nella stagione stagione 1992/1993 presenta con successo Mai dire gol, lasciando la trasmissione soltanto nel 1995 per mancanza di dialogo con la Gialappa’s Band.
Nel ’97 lavorò alla RAI conduce diversi programmi e partecipa al programma di Fabio Fazio, Quelli che il calcio, di e con Fabio Fazio, imitando diversi personaggi come Cesare Maldini, Peppino Prisco e tanti altri.
Nel 2000 conduce anche il Festival di Sanremo con Fabio Fazio, poi conduce due edizioni del noto programma “Scherzi a parte” e in seguito sarà anche ospite fissò alla domenica sportiva su Rai 2 dal 2006 al 2010.

Giovanni-Paisiello

Giovanni Paisiello era un grande musicista del Settecento, nato a Taranto nel 1740. Studiò al Conservatorio di Napoli dove per la sua bravura divenne “mastricello”, cioè maestro supplente. Cominciò così la sua attività di compositore con brani di musica sacra. Ma rivelò ben presto straordinarie doti anche nel comporre opere giocose. Dopo un breve periodo di successo a Napoli, a Bologna e a Modena, venne chiamato a Pietroburgo nel 1776 dall’Imperatrice Caterina di Russia.

Essa gli affidò la carica di maestro di Corte e la direzione di due teatri italiani. Nei nove anni trascorsi in Russia, il Paisiello ebbe grandi onori e ricchezze, scrivendo una dozzina di opere tra cui “La serva padrona” (una delle sue creazioni più felici) e il “Barbiere di Siviglia”. Da non confondere però con l’opera intitolata sempre il “Barbiere di Siviglia” ma di Gioacchino Rossini. Rossini infatti compose la sua opera più tardi, chiedendone anzi anche il permesso a Paisiello.

Questi glielo concesse con tanti auguri, ma quando poi il “Barbieri di Siviglia” del Rossini venne presentato per la prima volta a Roma, gli amici del Paisiello lo fischiarono in modo tale che l’opera fece fiasco. Ma lasciamo questa breve parentesi per tornare al vero protagonista del nostro racconto: Paisiello. Esso, tornato in patria dalla Russia nel 1784, ebbe la nomina di maestro di camera presso la Corte dei Borboni, a Napoli. In questo periodo apparve il suo capolavoro “Nina pazza per amore”

Quest’opera è un gioiello di squisita fattura, e lucente di poesia in cui il grande Tarantino trasfuse la sua vena più preziosa e tutto il suo sentimento melodico. Nel periodo che seguì alla Rivoluzione Francese, il Paisiello cadde in mano ai Borboni, ma ebbe l’aiuto di Napoleone, che amava moltissimo la sua musica, e che lo chiamò a Parigi come direttore dell’orchestra imperiale. Tornato a Napoli sotto il Regno di Gioacchino Murat, poté riprendere il suo posto.

Continuò così la sua fecondissima attività di compositore d’opere (ne scrisse un centinaio) e di sinfonie, di concerti, di quartetti e di musica religiosa. Erano da poco tornati i Borboni, 1815, quando morì, il 5 giugno 1816 a ben 76 anni. Quella sera stessa si doveva rappresentare al Teatro San Carlo di Napoli la “Nina pazza per amore”. La triste notizia non sospese affatto l’esecuzione: nel Teatro, gremito di Napoletani e presenti il Re e la Corte, le melodie della Nina echeggiarono.

Dolci e acclamate sino alla fine da applausi vibranti e commossi come mai Giovanni Paisiello ne aveva ricevuti quando era ancora in vita. Altri personaggi famosi della Puglia sono il musicista Niccolò Piccinni, il poeta e “il padre della lingua latina” Ennio Quinto ed il grande maestro traduttore e scrittore Andronico Livio.

Marche Poll

arton44173-bf0beAd Alcuni, Il nome di Amedeo Orlolla non dice nulla… ma se poi aggiungiamo il soprannome che aveva quest’uomo, Marche Poll, allora tutto cambia. Era un vecchietto che viveva vendendo in buste delle lettere, schedine e la sua tipica frase era: A uè mo? (“La vuoi adesso?”).

Marche Poll dispensava fortuna e la gente lo rispettava con devozione come fosse una autorità e nel giorno del suo funerale Taranto lo seguì commossa nel suo ultimo viaggio. Qui vi metto il link dell’intervista al suo barbiere, che ci narra nel suo linguaggio popolare, da dove arrivava appunto quel soprannome. Il link è tratto da Taranto in cartolina, un sito tarantino sito molto ben curato sulle tradizioni locale della città jonica e sulla sua storia passata. Ho voluto ricordare questo uomo che spesso vedevo in giro col suo berretto da marinaio e quella bella faccina simpatica da braccio di ferro.

Morì in un ospizio comunale, ospizio che ho visitato e che oggi è in disuso. Ma voglio prendere il gesto suo come auspicio migliore per la mia città, come se nella sua lettera porta fortuna immaginaria, vedessi tutta la città a raccoglierla ed aprirla esultandone per una vincita. La vincita è nella continuazione delle battaglie civili in riva allo Jonio e la speranza di vittoria a venire. Questa lettera è per noi tarantini, escluso i politici.

Quando ho visto certe figure alle ultime primarie del PD, ho pensato al periodo in cui, dopo lo scandalo della nostra sindachessa Di Bello, alcuni “suoi amici di merenda”, percorrevano a petto in fuori la città tarantina… con menefreghismo e strafottenza. La scena si ripete, cambiano gli attori ma non la scena del film. Caro Marco Poll, questa busta vincente dalla a noi tutti, consapevoli di un fatto: siamo noi cittadini i veri vincitori ideali del nostro futuro e invece ai politici, ai falsi preti, ai vigliacchi voltagabbana, regala briciole di illusione, magari regalando loro una busta sì… ma vuota!

Tarantino/Testi didattici

In questo modulo ci sono dei testi a scopo didattico. Possono essere in tarantino, in doppia lingua italiano-tarantino o anche in italiano da tradurre per praticare alcuni argomenti della lingua. Non si dimentichi che per trovare testi, la fonte consigliata è internet, e non ultimo (anzi), è il progetto wiki in tarantino (Uicchipèdie) in tarantino, dove si può leggere e praticare su molti di argomenti.
I livelli indicati sono tre: elementare, intermedio e avanzato.

Prima di cominciare con i testi veri e propri, ecco un elenco di frasi utili. Così principianti più impazienti potranno impararle anche prima di saperle costruire da sé (per adesso…).

Tarantino Italiano
Se parlà ‘u tarandíne?
– Sìne, sacce parlà ‘u tarandíne
– Sai parlare il tarantino?
– Sì, so parlare il tarantino.
Comme te chiame? / Qual’è ‘u nome tue? (*)
– Me chiam … / ‘U nome mie ie …
– Come ti chiami? / Qual è il tuo nome?
– Mi chiamo … / Il mio nome è …
Quant anne tine?
– Hagghie … anne.
– Quanti anni hai?
– Ho … anni.
Addò jàvite?
– Ije jàvite a …
– Dove abiti?
– Io abito a (in) …
De addò avène? Da dove vieni?
Addò véje? Dove vai?
Cumme stéje? Come stai (ti senti)?
Ce ore ète?
– Sonde le dice.
– Che ora è?
– Sono le dieci.
Ce vuè ccu mange/ ccu bève?
– Nnijende, grazzie!
– Cosa desideri mangiare / bere?
– Nulla, grazie!
– Pozze ccu l’ajute?
– Sìne grazzie, addò se iacchie ‘na banghe (staziune ferroviarije, aeropuèrte…)?
– Posso aiutarla?
– Sì grazie, dov’è una banca (stazione ferroviaria, aeroporto…)?
Vuléve, ca ‘nu sciùrne venìsse jndr’ô paise mije. Vorrei che un giorno venissi nel mio paese.
Bovègne, fàce cumme ce fuèsse a case tove! Benvenuto, fai come se fossi a casa tua!
Te ame. Ti amo.
Vuè ‘nu picche de tè? Vuoi un po’ di tè?

Presentarsi (tarantino ed italiano)

(Livello elementare)

“Cià ‘mbà! Ije so’ ‘Ndonije. So’ ‘nu uagnùne tagliáne e jàvite a Tarde. Ije hagghie l’uècchije azzurre, e le capìdde gnure. Ije stoche studie ‘mbormateche, hagghie 23 (vìndettré) anne. Hagghie ‘nu frate e ‘na sore. L’attàneme, màmeme e le fratère mije sònde assaje sembateche. Nuje ame ‘nu jatte gnure”.

“Ciao amico! Io sono Antonio. Sono un ragazzo italiano ed abito a Taranto. Ho gli occhi azzurri e i capelli neri. Studio informatica, ho 23 anni. Ho un fratello ed una sorella. Mio padre, mia madre e i miei fratelli sono molto simpatici. Noi abbiamo un gatto nero.”

Modi di dire (tarantino ed italiano)

(Livello: variabile)

  • A Madonne se l’ha viste
Se l’è vista la Madonna? : quando il destino è andato nella direzione auspicata
  • A mjiezza parola!
a mezza parola! : adesione entusiata ad una proposta (mi basta la prima metà della parola per dirti di si)
  • Aa sécurdùne
a tradimento : quando meno te l’aspetti
  • Belle bbelle
piano piano : esortazione a fare con calma o con molta attenzione
  • Citte citte ‘mmijenze ‘a chiàzze
zitti zitti in mezzo alla piazza : detto di una cosa che sanno tutti (equiv. a “il segreto di Pulcinella”)
  • Cu ce se mete? cu le forbice!
con che si miete? con le forbici! : detto a chi insiste nel proporre una cosa sbagliata
  • Figghjie ‘du sckife
figlio dello schifo : (dispregiativo, offensivo) reietto, appestato, rifiuto della società
  • M’è pigghiate pe’ pàsta menuta?
Mi prendi per pasta piccola? : detto a chi sta sottovalutando le tue qualità
  • Ne vulime de vuje, nuje!
Ce ne vogliono di voi per arrivare a noi : usato come sfottò per rimarcare una certa differenza di qualità
  • No’ mesckàme le squércele culle fàve
Non mischiamo le bucce vuote con le fave : teniamo distinte le cose buone dagli scarti (equiv. a “non confondiamo la lana con la seta”)
  • Rabbine
Rabbino : (dispregiativo) tirchio
  • Se n’ha sciute all’acète
è diventato aceto : detto di qualcuno che non ci sta più con la testa

Cèlte (tarantino)

(Livello intermedio)

Cu ‘u nome de Cèlte s’ìnneche ‘n’inziéme de popule indoeuropée ca, ind’ô periode de masseme sblendore (IV-II sèchele a.C.), stavane ind’a ‘na ‘ranne vanne d’Europe, dall’Isole bretànneche ‘nzign’ô bacine d’u Danubie, otre a ‘nguarche ‘nziediamijnde sckurisciute cchiù a ssud, conseguènze d’u spandemijnde mére le penìselele ibèrche, itàleche e anatòleche. Aunite da l’orìggene ètneche e culturale, d’a condivisione de ‘nu stèsse funne linguìsteche indoeuropée e dda ‘na stèssa visione releggiose, le Cèlte fùrene sèmbe scucchiáte; ‘mbrà lle tanda mesckulanze de populazziune cèlteche stavene le Bretànne, le Galle, le Pannune, le Celtìbere e lle Galate, scettáte ind’a ll’Isele Bretànneche, ind’a lle Gallie, ‘mPannonie, ‘nIbèrie e ‘nAnatòlie.

Testo del “Padre nostro” (tarantino)

(Livello avanzato)

Táte nuéstre,
ca stéje jindr’a le cíjele,
cu ssije sandefecáte ’u nóme túve;
cu avéne ’u règne túve;
cu ssija fatte ’a vulundá’ ttóve,
a ccume ’Ngíjele accussíne ’nDèrre.
Dànne ósce a nnúje ’u páne nuèstre e pp’ogne ggiúrne,
e llívene a nnúje le díebbete nuèstre
a ccúme nú’ le leváme a lle debbetúre nuèstre,
e nnò ffá’ ca n’abbandúne a’ ’ndendazzióne,
ma lìbberene d’ô mále.
Amen.

Testo dell’ “Ave Maria” (tarantino)

(Livello avanzato)

Avemmaríje, chiéna de gràzzie,
‘u Segnóre sté’ cu ttéje,
tu’ sìnde ’a benedètte ’mbrà le fèmene
e bbenedètte jié’ ’u frùtte
d’a vèndra tóje, Gesù.
Sànda Maríje, màtra de Dije,
ppríje pe’ nnúje peccatúre,
móne e jind’a ll’ore d’a mòrta nòstre.
Amen.

” ‘U ‘Mbiérne de Dande” (tarantino)

(Livello avanzato)
‘Mmienze ô camíne nuèstre de ‘sta víte
ij’ me scè ‘cchiève jndr’a ‘nu vòsch’uscúre
ca ‘a drètta vije addáne havè’ sparíte.

Ma ci l’à ddà cundáre le delúre
de ‘stu vosche sarvagge e ‘a strada stòrte
ca jndr’o penzière me crèsce ‘a pavúre.

Ma è tand’amáre ch’è pêsce d’a morte;
ma pe’ ccundáre ‘u bbéne ca truvéve,
hagghia parlà’ de quèdda mala sòrte.

Ije mo’ nò ssacce accum’è ca m’acchiève,
tand’assunnáte stáve a qquèdda vanne
ca ‘a vije veràce te scè’ ‘bbandunéve.

Doppe ch’havè’ ‘rreváte tremelànne
già ‘ngocchie a lle fenéte de ‘sta chiàne,
ch’angòre ô côre dè’ mattáne e affanne,

vedíve ‘u cièle tutte a mmane-a-mmane
ca s’ammandáve d’a luce d’u sole
ca ‘nzignalèsce ‘a strate a ogne crestiáne…

  • Fonte: Claudio De Cuia, ‘U ‘Mbiérne de Dande, Editrice Tarentum, Taranto, 1976).

PROVERBI

No sputa’ ngiel ca ‘faccie t’arrive Non commettere delle azioni che si potrebbero ritorcere contro te stesso Ci sparte ave la megghia parte chi divide ha la parte miglioreCi tene lenga ve’ in Sardegna Chi ha lingua va in Sardegna: se chiedi puoi arrivare ovunque Zumpa u citrulo e spicce in gulo all’ortolano salta il cetriolo e va a finire in culo all’ortolano quando si viene accusati di qualcosa oppure si subisce qualcosa inaspettatamente e incolpevolmente, accusa o punizione che sarebbe destinata ad altri.A Madonn sap a ci port l r’cchin!! La Madonna sa benissimo chi porta gli orecchini! Come un modo di fare leva sui senzi di colpa di qualcuno che ha commesso qualcosa e quindi ha la coscenza sporca!!! Stai Attento perchè comunque esiste un’entità suprema che sa che tu sei il colpevole!!! Ci tutt l’acidd canuscesser u gran! Se tutti gli uccelli conoscessero il grano (e ne comprendessero il valore)! Si usa quando qualcuno non è in grado di apprezzare qualcosa(es.una portata a pranzo). Aviss fatt nu puerc quann ei nat !! Almen ste mangiamm sasizz!! Perche’ non ho partorito un maiale al tuo posto? Se non altro staremmo banchettando con insaccati(Figlio mio!! Le tue osservazioni non sono proprio brillanti! T’agghia purta’ all firr vicch !! V’dim … mu donn nu cuperchie (Chi sa se anche per gli altri conti poco!): come la frase di prima!Tagghia crescere e tagghia perdere Dopo averti istruito e formato mi abbandonerai A iaddin fac l’ov a au iadd l vusch u cul la gallina fa l’uovo e al gallo gli brucia il culo Ste frich u pesch e ste tremend a iatt Sta friggendo il pesce e guarda la gatta, allo scopo di tenere d’occhio un potenziale pericolo. Il proverbio viene allargato a tutte quelle circostanze in cui una persona fa due cose contemporaneamente Megghie 100 zit ca nu ml marit Meglio 100 fidanzati che un cattivo marito. Turce vignitiedde quann’è teneridde lett. “Torci il ramo della vigna finchè è tenero” . A ciascuno di voi il suggerimento del senso figurato del proverbio (es.: Educa una persona finchè è giovane) Mazze e panelle fann’ le figghie bell (politica del bastone e della carota) Pe’ canosc’r nu cristian’ t’ha mangià na salm d’ sal’ lett. per conoscere un uomo devi mangiare una salma – unità di misura – di sale; fig.: “non puoi mai dire di conoscere veramente un uomo” Chidd se ricordan le vigne d’minz a chiazza – let.: Costoro si ricordano del tempo in cui vi erano le vigne là dove oggi c’è la piazza; fig.: costoro risalgono a tempi oramai andati.La fatija ca se chiama cucuzza, a me me feta a te te puzza ‘U Signore dè “u besquètte  a ci no tenè dientetalvolta le ricchezze sono possedute da chi non sa godersele, cioe’ chi ha il pane  non ha i denti e chi ha i denti non ha il pane Amice e cumbare se pàrlene chiare patti chiari amicizia lunga E’ megghie ci t’onore ca ci te sazieè da apprezzarsi piu’ chi ti onora con parole e fatti che chi ti satolla nel senso materiale (non si vive di solo pane)Le corne de l signure so de vammace, chidde de le puveriedde Vammace e’ la bambagia cioe’ il frutto della pianta del cotone. Quindi, c’è chi puo’  tener celate le proprie vergogne, c’è invece chi non lo puo’. in sintesi i guai della povera  gente vengono strombazzati ai quattro venti, perche’ fanno rumore come le noci; quelli  dei signori possono essere tenuti celati perche’ bene … ovattati A menzadie, ci sta a case d’otre cu pigghie vie a mezzogiorno se qualcuno si trova a casa di altri vada via perche è ora di pranzo A sàntere viecchie no sa appizzichene chiu’ lambe il sole che nasce ha piu’ adoratori di quel che tramonta E va bene, disse Donna Lena, quanna vid’a figgh, a serv’ e a Jatta pren! E va bene, disse Donna Maddalena, quando si accorse che la figlia, la serva e la gatta erano incinta. Questo detto viene impiegato nelle situazioni in qui ormai non resta altro da fare che accettare quanto è avvenuto ed esprime appieno quel senso di rassegnazione atavica e quasi “genetica” che caratterizza il popolo di Taranto. Quann’squagghia a neve, parn l strunz’ (Quando si scioglie la neve, riappaiono gli stronzi) Versione nostrana del “Tutti i nodi vengono al pettine” con alcuni punti di contatto con l’orientale “Siedi sulla sponda del fiume e aspetta che passi il cadavere del tuo nemico”, ricorda che prima o poi le belle apparenze non reggono e che, di conseguenza, ricompaiono le meschinità che invano si era cercato di nascondere.Megghije na catar’nguedd’ ca n’onz’ngul’ Meglio un calderone (di merda) addosso che un’oncia (una goccia) nel sedere.  Il significato più evidente è quello che coglie chiunque abbia avuto a soffire di  “sgommate” e “tarzanelli” a causa di una poco efficace pulizia dopoaver  “nchiut’u pris” (fatto la cacca, nel caso ci siano minorenni in lettura);  il fastidio ed il prurito sono sicuramente peggiori da quelli che deriverebbero  da un gavettone di escrementi. Un’altra scuola di pensiero, meno materialista  e che attribuisce anche al tarantino un’anima ed una coscienza, legge in  questo detto l’affermazione che se uno ha la coscienza sporca (e non è  forse casuale che la coscienza venga identificata nel sedere)sta peggio che se fosse “smerdato” pubblicamente ma a torto. Astip a Zampogna pe quann abbosogna (Metti da parte la zampogna per quando necessita): E’ piu’ usato come consiglio  per fomentare un sentimento vendicativo. E’ un po’ la versione Tarantina di “la vendetta  e’ un piatto che va servito freddo”. La zampogna: non so se e’ da pensare allo strumento  natalizio, e quindi dire “mettilo da parte per il prossimo Natale”, oppure indica solamente un generico “fattapposta Na vot è fest a Palascian Non mi freghi più di una volta. Nel senso che una volta sola può andar bene ma non si può sfidare ulteriormente la fortuna Quann’u marit arriv’a quarantina, lass’a mugghier e s’n ve a cantina, quann’a mugghier arriv’a quanrant’ann lass’u marit e s’pigghi’a Giuann Quando l’uomo arriva alla quarantina, trascura la moglie ed i piaceri sessuali per dedicarsi alla cantina (amici, giochi di carte, bevute, ecc.) mentre la donna lascia perdere il marito e inizia ad apprezzare i piaceri che il marito trascura. Insomma, l’uomo ritorna un po’ bambino ed inizia la sua “decadenza”fisica oggi contrastata dal Viagra, mentre la donna inizia a vivere la sua “seconda giovinezza” e dopo essersi stancata di fare la “brava” comincia ad godere di quei piaceri che magari prima non apprezzava a causa di una educazione puritana o di una scarsa conoscenza del suo corpo. A bravura d mest’ Uccio, ca died nu schaff’ au ciuccio (La prodezza di Mastro Uccio, che diede uno schiaffo all’asino) espressa a commento di una azione apparentemente coraggiosa ma che non presenta poi pericoli reali o nel caso in cui qualcuno picchi o comunque aggredisca un’altra persona evidentemente non in grado di difendersi. L’anidd so cadut, ma l dic’t so rimast (Gli anelli sono caduti ma le dita sono rimaste), si usa nel ricordare orgogliosamente un passato nobile in un presente difficile (cfr. la classe non è acqua) percui anche se caduto in disgrazia, un “nobile” rimane tale nello spirito. Ha lassat Crist p’ scè all’ cozz Ha lasciato Cristo per andare a (raccogliere le) lumache”. Impiegato per commentare la scelta di qualcuno che trascura ho abbandona un’impegno importante per uno più futile. Sembra che il detto tragga origine da questo episodio: Durante una processione religiosa in campagna, il corteo venne sorpreso da una improvvisa quanto violenta pioggia. Mentre tutti cercavano un riparo per le statue ed i paramenti, il sacerdote che guidava la processione trascurò gli oggetti sacri per addentrarsi nei campi a raccogliere le lumache (di cui era evidentemente molto ghiotto) che a causa della pioggia iniziavano a spuntare sulla vegetazione T’agghie chiamat a coppe e t’n’iss a baston Ti ho chiesto di giocare una carta di coppe e tu mi lanci una carta di bastoni” pronunciata da chi vuole esprimere il suo disappunto per non aver visto una sua richiesta precisa. “T’avev chiest d’purtà na cassa di Raffo e tu ‘nnusc nu carton d’Sprait, e ccè facim, i t’chiam a coppe e tu t’n’iss a baston ?!? (Per maggiori particolari si consulti “Il tressette come strumento semantico della interpretazione ontologica dell’aspetto metafisico della psicopatologia comportamentale del popolano tarantino” di Filippo Maria Assabastone – Modiano – Dal Negro Editore). Figghie e nipute so tutte perdute Ci nasce tunne no more quadrate Come disse Garibaldi a Nizza, pure iosce am’ fatt’ pizz’! Quanne Criste ste n’croce, sule tanne iesse a’ voce

Terminerei con un modo di dire di cui si contendono la parenità sia Cambridge che i Tamburi:

A chiuvut’merda e n’ha ‘nzvat’a tutt! (E’ piovuta merda e ci ha sporcato tutti) Audaci (se pur non privi di valide motivazioni) collegamenti possono essere fatti tra il citato proverbio e gli italiani “Un po’ per uno non fa male a nessuno” e “Mal comune mezzo gaudio”; Da notare l’assoluto pessimismo che permea il detto, la situazione è espressa seccamente e senza giri di parole in tutta la sua realtà e la “merda” viene usata come simbolo e materia tangibile di offesa alla persona, mentre nei corrispondenti italiani il tutto è più lieve, o perchè la situazione è quasi sottintesa e non viene citato il soggetto-oggetto (un po’ di cosa ?) o addirittura si cerca una magra consolazione nella disgrazia comune (ma quando mai il dolore per una martellata al mio dito potrà essere lenito da una frattura altrui ?). Ancora una volta affiora la fatalistica rassegnazione del tarantino contro un destino oscuro e crudele, cieco nella sua volontà di colpire, che non fa distinzione tra buoni e cattivi ed a cui non è possibile ribellarsi.

SPIAGGE E LITORANEA

Lunghe e ampie spiagge bagnate dal limpido mare Jonio accolgono i turisti che hanno deciso di fare del Salento in Puglia la meta delle loro vacanze.
Sabbia fine e fondale basso caratterizzano comuni come San Cesareo o Marina di Leporano mentre invitanti tratti di costa rocciosa costituiscono il litorale di comuni come Santa Maria di Leuca. Una delle meraviglie del litorale ionico è senz’altro la grotta marina detta della Zinzulusa che deve il suo nome a delle concrezioni calcaree situate sul soffitto somiglianti a degli stracci appesi , chiamati zinzuli nel dialetto locale. In questa grotta marina sono state trovate ossa di diversi animali come orsi ed elefanti e utensili prodotti dall’uomo nel neolitico. Il paesaggio dei comuni interni è caratterizzato dall’olivo, presente praticamente ovunque, e dai muretti a secco.
Le vicine murge tarantine offrono alla vista del viaggiatore le gravine, profondi crepacci scavati dagli antichi corsi d’acqua, e un grande numero di grotte abitate già in tempi preistorici e spesso usate come rifugio dagli abitanti del posto o come luogo di preghiera dai monaci. Anche la Valle d’Itria costituisce una interessantissima meta per escursioni tra caratteristici trulli e morbide colline. Dolce è la sera quando si passeggia tra i graziosi centri storici dei comuni della litoranea salentina dove è possibile usufruire di una ricca offerta di ristoranti bar e pizzerie dove gustare i piatti basati sul gustoso pesce locale e dove poter godere della consolidata tradizione gastronomica del Salento
La zona costiera del comune di Leporano compresa tra Saturo e Gandoli conserva un ricco patrimonio di ritrovamenti archeologici appartenenti all’età classica e delle vestigia del neolitico

1389199976

images (1)

images (2)

localit_san_vito_taranto_itamair26_1230559806840

pugliataranto

+salento salento (1) spiaggia spiaggia_05 spiaggia_sabbia_bianca_5 spiaggia-di-campomarino

Le fave della prima moglie

Anche stavolta, una storiella spiegherà tutti i retroscena di questo modo di dire diffuso a Taranto.

Un contadino era sposato con una donna che preparava le fave – le nostre sublimi fave bianche – in un certo modo. Rimasto vedovo, il contadino sposò un’altra donna che cuoceva le fave in una maniera diversa, che non era conforme al gusto del marito.

favesecche

Lo spettro della defunta aleggiava ovunque perché l’uomo coglieva ogni occasione per rimpiangere lei e la sua cucina. Finché, un giorno, la nuova compagna lasciò le fave a cuocere per troppo tempo sul fuoco, tanto che si bruciarono e rimasero incollate sul fondo della pignatta.

La sbadata donna – che potrebbe benissimo essere una mia antenata – tentò di recuperarle alla bell’e meglio e le servì al marito all’ora di pranzo.

L’uomo notò immediatamente la differenza…nel senso che le gradì moltissimo, le trovò eccellenti. Quel piatto di fave aveva un sapore identico a quelle che era solita preparargli ‘a prime mugghiere.

Quel certo “non-so-che”, quel retrogusto di carbonizzato, aveva positivamente colpito il nostalgico contadino e degnamente evocato la memoria della defunta.

La morale della storia? Sui gusti non si discute e…ogni cuoco ha il suo ingrediente segreto.

A ZITE DE PUZANO

Sicuramente avrete già sentito dire questa espressione, oppure siete stati voi stessi a pronunciarla per indicare perplessità rispetto ad una situazione assurda in cui siete impelagati.

Ma chi era ‘a zite de Puzane? E perché la si tira in causa in circostanze simili? Ecco qui una divertente spiegazione.

zita puzaneLa storiella che dà origine a questo modo di dire tutto tarantino è ambientata aPulsano, un paese a circa 15 km dalla città. Durante un corteo nuziale, la sposa era sul punto di varcare la soglia della chiesa in cui doveva tenersi il rito, ma rimase bloccata all’ingresso perché la porta era troppo bassa.

Immaginatevi la scena: la donna di bianco vestita, invece di fare la sua entrata trionfale fra gli sguardi ammirati e commossi dei parenti, se ne stava lì, imbarazzata e impacciata, perché non sapeva come fare a raggiungere l’altare.

Quella porta troppo bassa sembrava un ostacolo insormontabile creato apposta per impedire il lieto evento, manco fosse stato premeditato da una suocera contrariata.

Il corteo nuziale si inceppò dinanzi alla chiesa. Tutti coloro che assistevano all’evento, parenti e non, fecero proposte per ovviare all’inconveniente e far cominciare la cerimonia.

Il consiglio prevalente era quello di colpire a picconate la porta per renderla adeguata all’ingresso della sposa, quando qualcuno – un vero genio – si fece largo fra la folla e sollecitò la donna a chinare il capo quel tanto che bastava per accedere in chiesa.

Grazie all’illuminante proposta del nostro Einstein – scommetto che voi non ci avreste pensato, vero? –  la sposa entrò in chiesa e la cerimonia si celebrò.

Da questa storia assurda ha origine l’espressione “Agghij remaste com’a zite de Puzane”, cioè inceppata per uno stupido e improvviso impedimento.

PRODOTTI TIPICI TARANTINI

Le cartellate, chiamate anche nèvole o rose (in dialetto pugliese carteddàte o cartiddati o péttue) o “crispedde” in Basilicata, sono, assieme ai Boconotti, tipici dolci natalizi originari della provincia di Foggia ma prodotti in tutta la Pugliatutta la Basilicata. Il loro nome deriva dal fatto che la sfoglia deve essere sottilissima, come la “carta oleata” (un tipo di carta da cucina che si usava un tempo, simile alla moderna “carta forno”). Le cartellate non sono altro che dei nastri di una sottile sfoglia di pasta, ottenuta con farina, olio e vino bianco, unita e avvolta su sé stessa sino a formare una sorta di “rosa” coreografica con cavità e aperture, che poi verrà fritta in abbondante olio.

La ricetta tipica regionale è quella che le vede impregnate di vincotto tiepido o miele, e poi spolverate con cannella,zucchero a velo o confettini colorati. Ci sono però delle varianti: ad esempio si può sostituire il vincotto con il cioccolatoo semplicemente lo zucchero a velo. Una volta preparate si conservano lontane dalla luce e in ambienti interni e si possono mangiare per diverse settimane.th

I sannacchiudere sono tipici dolci natalizi appartenenti alla tradizione culinaria della provincia di Taranto.

L’etimologia deriva da “s’hanno a chiudere”, cioè “si devono chiudere”, in quanto tradizione vuole che fossero così buoni da doverli tenere chiusi nella dispensa per evitare che i bambini li terminassero prima della festività del Natale.

Dolce povero fatto di piccole porzioni di pasta di uova, farina, zucchero, fiori di arancio, scorza di limone grattuggiata,vaniglia in polvere, fritte nell’olio e poi affogate nel miele e ricoperti di zuccheri colorati.

th (1)

Le pettole (pittule nel leccese), (pettuli nel Brindisino e nel Tarantino, pettule nel Potentino) sono pallottole di pasta lievitata molto morbida fritte nell’olio bollente, tipiche delle regioni Puglia e Basilicata.

Nell’area di Taranto (in cui la tradizione della pettola è ancora molto sentita) si preparano nel giorno in cui si festeggiaSanta Cecilia, il 22 novembre, e a seguire durante le festività natalizie. In molte altre località, la data di inizio della preparazione delle pettole è invece la festa dell’Immacolata Concezione, l’8 dicembre, infatti nel Salento tarantino e precisamente a Lizzano, c’è un proverbio che dice: Ti la Mmaculata la prima ffrizzulata, ti la Cannilora l’ultima firzola, cioè: Nel giorno dell’Immacolata, la prima preparazione di pettole, nel giorno della Candelora, l’ultima. In alcuni comuni del sud-est barese, come Rutigliano è consuetudine prepararle il giorno di Santa Caterina, il 23 novembre. Si usa ancora prepararle recitando preghiere.

Possono essere rustiche o dolci, semplici o ripiene, e spesso vengono usate in sostituzione del pane, oppure come antipasto. In tutte le varianti, si realizzano utilizzando farina, patata, lievito di birra, acqua e sale, ma ne esiste anche una versione più semplice che non prevede l’utilizzo della patata. La forma può essere quella della “pallottola” oppure di una ciambella, come è tradizione a Ferrandina,Bernalda,Salandra e a Pomarico (MT).

La ricetta tipica usata a Taranto è quella che le vede cosparse di zucchero, ma anche di sale. In altre zone della Regione è possibile degustarle ricoperte di vincotto o miele, ma volendo si possono riempire con piccoli pezzi di baccalà lessato o di alice salata, oppure con un broccoletto di cavolo cotto a metà.

th (2)

I ristoranti tradizionali della città offrono una cucina che combina i frutti di mare con i prodotti della terra, conditi con l’ottimo olio extravergine di oliva tarantino (Olio Terre Tarentine DOP). Piatti tipici come i cavatelli con le cozze, il risotto ai frutti di mare, il polpo ed il pesce alla griglia, sono accompagnati da ortaggi crudi o cucinati nei modi più vari: i pomodori, i peperoni, le melanzane, i carciofi ed i legumi sono particolarmente saporiti.

Da non dimenticare le orecchiette (a Taranto chiamate chiangarèdde) con le cime di rapa o al ragù, nonché le mozzarelle e le provole fresche, o gli involtini di vitello e i fegatini alla brace, accompagnati con i vini del territorio (Aleatico di Puglia DOC, Lizzano DOC, Martina Franca DOC, Primitivo di Manduria DOC).

Arance, mandarini, clementine (Clementina del Golfo di Taranto IGP), uva, fichi e angurie non mancano mai sulle tavole imbandite, così come i dolci di miele ed in pasta di mandorle, o le più tipiche Carteddàte, Sannacchiùdere e Pettole, preparate nell’occasione di particolari festività o ricorrenze.

La zeppola o zeppola di San Giuseppe è un tipico dolce dell’Italia meridionale, molto popolare nella zona vesuviana e, malgrado il nome, non trae le sue origini nel comune di San Giuseppe Vesuviano.

Vengono preparate generalmente nel periodo di San Giuseppe (19 marzo) tanto da essere un dolce tipico della festa del papà. Gli ingredienti principali sono la farina, lo zucchero le uova, il burro e l’olio d’oliva. Nella tradizione napoletanaesistono due varianti di zeppole di San Giuseppe: fritte e al forno. In entrambi i casi le zeppole hanno forma circolare con un foro centrale dal diametro di 2 cm circa e sono guarnite ricoprendole di crema pasticciera con sopra delle amarene sciroppate. Alcune pasticcerie provvedono anche alla farcitura interna della zeppola con tale crema, discostandosi dalla tradizione. Ultimamente si trovano zeppole ripiene di crema gianduia e panna. Infine questo dolce viene sottoposta ad una spolverata di zucchero a velo.

Anche nel Salento le zeppole vengono preparate per la festa di San Giuseppe e in alcuni paesi dove si preparano le tradizionali “Tavole di San Giuseppe” vengono utilizzate come ultima pietanza, per dolce. Nella tradizione salentina la guarnizione della pasta prevede una base di crema pasticciera ed un secondo strato, più piccolo, al di sopra del primo di crema al cacao mentre sono del tutto assenti le amarene sciroppate. Sebbene negli ultimi anni si sia affermato l’uso di friggere la pasta della zeppola anche usando olio di oliva, la vera zeppola salentina viene fritta nello strutto, detto sugnanel dialetto locale.

Tra le varianti preparate in casa vi sono zeppole intrecciate a forma di “elle” minuscola, fritte e passate ancora calde nello zucchero. Queste zeppole non hanno tipicamente la crema.

zeppola-al-forno

È un dolce pasquale tipicamente pugliese. Ha la forma di una ruota ( o se vogliamo di una ciambella se traduciamo letteralmente la parola scarcella). Questa viene ricoperta di glassa bianca su cui poi vengono adagiati dei piccoli ovetti in cioccolata a scopo decorativo o anche semplicemente delle perline color argento o multicolore. La forma rotonda del dolce in questione affonda le sue radici in un passato molto remoto! Si ritiene che la forma tonda abbia attinenza con la fortuna; inoltre la scarcella è un dolce che simboleggia la nascita di una nuova vita ( da cui poi l’usanza di decorarla con degli ovetti ). Diffusa altresì la tradizione della scarcella decorata con semplici uova sode (quindi non in cioccolata)o addirittura uova dipinte a mano dalle massaie stesse quasi a testimoniare una vena artistica di altri tempi oramai perduti! La preparazione e la cottura in forno delle scarcelle avviene durante la Settimana Santa o addirittura durante la settimana precedente quella in questione! È un dolce il cui profumo pervadeva e pervade le case e le strade durante la settimana di Pasqua soprattutto per via dell’uso dell’ammoniaca. Molto popolare inoltre è l’uso della scorza grattuggiata del limone al fine di donare alla scarcella un sapore più aromatizzato.

87

La clementina del golfo di Taranto è un incrocio tra il mandarino e l’arancio, caratterizzato dalla forma sferoidale, leggermente schiacciata ai poli, con una buccia liscia o leggermente rugosa, di colore arancio e con una lieve sfumatura verde.

La polpa, anch’essa di colore arancio e molto succosa, ha un sapore dolce ed aromatico e contiene al massimo tre semi. Oltre a possedere un elevato contenuto di vitamina C, è rinfrescante e diuretica, e può essere consumata al naturale o impiegata per preparare succhi, sciroppi, sorbetti, marmellate.

Il clima caldo, soleggiato e poco umido del territorio che si affaccia sul golfo di Taranto, influenza benevolmente la crescita e la maturazione del frutto, conferendogli caratteristiche qualitative eccellenti. L’irrigazione viene praticata quasi tutto dell’anno, e avviene a goccia o a zampillo, in modo diretto ma lontano dalla chioma, per evitare marciume nella zona del colletto della pianta. La raccolta viene effettuata rigorosamente a mano, onde evitare che i frutti si deteriorino.

La clementina del golfo di Taranto è coltivata esclusivamente nei comuni della Provincia di Taranto, nella zona della Terra delle Gravine Joniche il comune capofila è Palagiano, chiamata anche la “città delle clementine” ed è l’esponente maggiore, la quale ogni anno dedica una settimana di festa per la sagra del mandarino facendolo diventare il simbolo della cittadina. La città di Palagiano ha la fortuna di avere un terreno più fertile è più adatto al prodotto dando un sapore ed una qualità migliore rispetto agli altri comuni che appartengono al CAT (Consorzio Agrumicoltori Tarantini) intensificando anche una maggiore produzione ad esse va riconosciuto il marchio IGP

Gli altri comuni che dedicano la loro produzione alle clementine sono: Massafra, Ginosa, Castellaneta, Palagianello,Statte. Le clementine devono il loro nome ad un frate di nome Clemente, che scoprì questo frutto in AlgerIa. Le prime introduzioni di agrumi nel territorio sono da far risalire al XVIII secolo, ma solo a partire dal 1900, grazie al reperimento ed alla creazione di risorse irrigue adeguate, si assiste alla loro diffusione in coltura specializzata.

Un pò di storia dell’Hotel Europa

Un pò di storia

Era il giugno del 1888, faceva gia’ molto caldo (le stagioni erano ben definite dal punto di vista climatico), qualcuno cominciava a far bagni di mare: si andava allo stabilimento Cecinato, subito dopo il ponte di pietra, vicino al dazio; gli uomini indossavano costumi che lasciavano arditamente scoperte le gambe dal ginocchio in giu’ e quasi completamente le braccia, il tessuto era di solida lana a larghe fasce trasversali: le donne indossavano vestiti confezionati da sarte con una stoffa piuttosto pesante, naturalmente nera, formati da una specie di tuta stretta alle caviglie e da una casacca fermata in vita da una cintura e ai polsi da bottoni, la scollatura era appena accennata e permetteva il passaggio alla testa, era ornata da una trina chiara che diventava subito grigia per la scoloritura della stoffa. I capelli erano “a tuppo”, raccolti sotto una cuffia-berretto che arrivava sino alle orecchie.

Taranto viveva anni di grande attivita’ lavorativa e di febbrile espansione: si stava infatti costruendo il grande Arsenale della Marina militare per la cui realizzazione erano stati superati molti ostacoli sia di carattere legislativo che di opposizione tenace da parte dei parlamentari napoletani, sia ancora di carattere finanziario: erano infatti stati stanziati soltanto nove milioni e trecento mila lire “da spendersi in otto anni”.

A settembre del ‘883 erano stati avviati i lavori per la realizzazione del canale navigabile diretti dal capitano Giuseppe Messina.

Il primo ponte girevole venne solennemente inaugurato il 22 maggio 1887 con lo “storico incontro al centro dell’ardito ponte tra il sindaco  Vincenzo Sebastio e l’arcivescovo Pietro Alfonso Jorio.

Ma intanto al di la’ del “fosso” , prima ancora del canale del ponte, era cominciata l’espansione urbanistica di quello che poi sarebbe diventato il Borgo: il primo a rompere gli indugi fu l’avvocato Domenico Savino il quale gia’ nell’aprile 1869 aveva cominciato a far costruire quel gran bel palazzo ancora ben saldo che poi divento’ palazzo Ameglio.

Era dunque il giugno 1888, il 20 del mese usci’ la “Voce del Popolo”, il longevo settimanale tarantino di proprieta’ della famiglia Rizzo con questa notizia intitolata “Hotel d’Europe”.

E’ questo il titolo di un elegantissimo albergo, costruito recentemente al Borgo, in una posizione amenissima, presso la spiaggia di mar Piccolo.

Posizione che lo rende, senza esagerazione alcuna, uno dei migliori alberghi delle Province Napoletane. Ha stanze larghe , ariose e mobilitate con finissimo gusto ed eleganza, un servizio inappuntabile che non lascia nulla a desiderare. Proprietario dell’albergo e’ il signor Gabriele De Giacomo, una egregia e gentile persona che si e’ sobbarcata non pochi sacrifici per concorrere anch’egli al lustro e decoro della nostra citta’. E non esageriamo , poiché il signor De Giacomo , oltre all’Hotel Europe ha pure impiantato un grande stabilimento per bagni dolci, caldi e freddi, per bagni idroterapeutici per bagni sulfurei con acqua delle sorgenti di Taranto fuori porta Napoli, acquistata dai benemeriti signori fratelli Cacace fu Michele.

Quest’acqua sulfurea di Taranto , fino ad oggi sconosciuta da molti e quindi trascurata, e’ stata analizzata dall’esimio chimico cav. D’Emilio di Napoli e da quell’analisi e’ risultato che l’anzidetta acqua ha tutte le proprieta’ terapeutiche per essere, con favorevole successo, usata sia per bagni che per uso interno.

I camerini per bagnanti sono comodissimi, decenti ed aerefatti: sono annessi all’Hotel occupandone la parte piu’ amena, piu’ deliziosa e ridente. E cio’ non basta: a completare l’opera del singnor De Giacomo, sempre annesso all’Hotel Europe, ha fatto costruire un bellissimo Restaurant con birreria, caffe’, bigliardo. Havvi il piu’ confortabile di quanto si possa immaginare. Detto Restaurant da una parte corrisponde a un delizioso giardino, dove chiunque si puo’ divertire, dall’altra ad una localita’ deliziosissima da cui si puo’ vedere tutto il panorama di Taranto e dove si puo’ gustare un sorbetto, un gelato, uno spumone preparato con arte finissima del bravo Letizia. Ed ora crediamo che il forestiere, venendo a Taranto, trovera’ tutte le comodita’ della vita e quanto di meglio si possa immaginare.”

Ed i clienti cominciarono infatti ad animare i locali del nuovo albergo; il signor De Giacomo provvide subito anche a far arrivare un pianoforte nuovo di zecca direttamente dalla fabbrica. Arrivarono anche ospiti importanti.

Nei giorni 21 e 22 agosto 1889, Taranto ricevette la visita del Re di’Italia Umberto I che era accompagnato da Vittorio Emaunele, Principe di Napoli, dal Presidente del Consiglio Francesco Crispi e dal Ministro della Marina ammiraglio Benedetto Brin. Venne, il sovrano , per inaugurare la prima parte dell’arsenale “opera iniziatrice della nuova grandezza di Taranto” come faceva rilevare in un manifesto fatto affiggere sui muri della citta’, il sindaco facente funzioni avvocato Carlo Primicerj.

Arrivo’ via mare , a bordo del panfilo Savoia, salutato, al momento di entrare in rada, da ventuno colpi di cannone e scortato da navi da guerra come l’Italia e la Duilio mentre nel porto -annotava un cronista- c’erano “centinaia e centinaia di burchielli pavesati a festa”. per salutare lui, nel Re, non solo il simbolo dell’unificazione nazionale, ma anche “l’angelo consolatore di Busca, di Spezia, di Napoli, il cavalier cortese, il discendente valoroso, della stirpe dei forti Sabaudi”.

A bordo salgono le autorita’: il ministro Lacava giunto il giorno prima, i generali Monelli e Guidotti, il prefetto di Lecce, il funzionante sindaco Primicerj, i deputati conte D’Ayala Valva, Grassi e Pignatelli, il sottoprefetto Venturi, il tenente colonnello Giovanno Cugini, il direttore dei lavori dell’arsenale e poiche’ e’ ora di colazione, il sovrano invita tutti questi signori a sedere a tavola con lui. Tra tutti questi personaggi ne manca uno, importante: l’arcivescovo Jorio. La sua assenza non poteva passare inosservata e, infatti, non passo’, dal momento che i giornali la fecero rilevare. Si appuro’, in seguito, che si era trattato di un misterioso e mai chiarito disguido postale, giacche’ mentre dall’Arcivescovado si asseri’ che l’invito non era mai giunto a destinazione, dal Palazzo di Citta’ si rispose che esso era stato doverosamente inviato.

Per l’arrivo del re Umberto e per le cerimonie che si sarebbero svolte alla sua presenza, erano giunti, intanto, numerosi giornalisti inviati speciali: c’erano, tra gli altri, Peppino Turco direttore del “Capitan Fracassa” e autore di alcune canzoni napoletane tra cui Funiculi’ Funicula’, Roberto Bracco per conto del “Corriere di Napoli” e autore anche lui di canzoni napoletane, Arnaldo Mengarini inviato del “Fanfulla” di Roma e altri ancora. Tra cui Mario Costa il quale, evidentemente, aveva colto l’occasione per una visita alla sua citta’ natale.

Tutti presero alloggio all’Hotel Europe. La sera del 19 agosto –faceva un gran caldo e nessuno aveva voglia di andare a dormire- si attardarono tutti attorno ad una festosa tavola imbandita sulla quale il maitre fece arrivare piatti di ostriche stupende di Mar Piccolo, orate arrostite e triglie fritte, il tutto condito da ottimo vino bianco. “Dopo il banchetto “sontuoso e allegro –racconto’ dopo RobertoBracco- tutti i commensali imposero, a Mario Costa di improvvisare una canzone per la sua citta’. Io naturalmente senza poter discutere , ne’ pensare dovevo dargli dei versi”.

Peppino Turco suggeri’ il titolo “Taranti’ Tarantelle”. Sul cartoncino del menu’ Bracco comincio’ a scrivere : “ A Taranto nce stanne nu mare piccirillo e n’ato granne. Erano versi in dialetto napoletano. Costa sedette al pianoforte dell’albergo e la’ per la’ improvviso’ una musica spumeggiante, tarantellante, “entrainante” che immediatamente fu’ ripetuta da tante voci. La canzone era lanciata”.

’indomani , sempre in albergo, Roberto Bracco stese tutte le strofe, mentre Mario Costa limo’ la sua musica. “la prova generale –annoto’ un nostro cronista, Diego Gennarini- ebbe luogo la sera del 20 agosto nella gran sala dello stabilimento idroterapico dell’avvocato Pietro Pupino Carbonelli affollato dal fior fiore dell’intellettualita’ tarantina e da un foltissimo stuolo di eleganti e belle signore e signorine. Mario Costa ottenne un successo vivissimo, immediato , clamoroso” . Si convenne che l’indomani si sarebbe improvvisata una “serenata” in onore del Re e del Principe con “Taranti’ Tarantelle” e con altre canzoni… napoletane; fu improvvisata anche un’orchestrina fatta di violini, mandolini e alcuni piattini.

E così avvenne. Finite le cerimonie ufficiali, il Sovrano s’era ritirato sul suo panfilo sempre ormeggiato in Mar Piccolo e quando fu sera -un’altra meravigliosa e intrigante notte dell’estate tarantina col mare calmissimo e tante stelle visibili- decine, centinaia di barche si fecero sotto il Savoia e suonatori e cantanti –tra cui lo stesso Costa con Bracco, Turco e altri- si diedero ad eseguire il concerto.

Si comincio’ con “Oie Caruli’ “ , si ando’ avanti con “Scètate”, “Era de Maggio” e altre canzoni del Costa, una piu’ bella e orecchiabile dell’altra e quando i timbri di voce si erano ben riscaldati s’attacco’ “Taranti’ Tarantelle”. La gente impazziva, applaudiva con entusiasmo, fu un coro possente, allegro. Il Re con al fianco il Principe, richiamati da quello spettacolo, si affacciarono e si ebbero la loro porzione di applausi. Ma il piu’ applaudito fra tutti fu lui, il maestro Mario Costa che aveva offerto alla sua Taranto una canzone che sarebbe arrivata fresca, limpida gradita fino ai nostri giorni, nonostante i versi in napoletano. Qualche anno fa un nostro poeta dialettale, Domenico Candelli, ha trasposto quei versi nel vernacolo tarantino.

Ecco comunque quella famosa canzone, composta nell’Hotel d’Europe nel suo testo integrale:

A Taranto ce stanne – nu mare piccirillo – e n’ato granne. – La terra nfra li dduie – se piglia nu vacillo – e se ne fuje – Taranti’ tarnti’ tarantelle sti mare belle! – A Taranto nce stanne – duie uocchie tal’e quale – e granne granne: duie uocchie de fatella – uguale uguale uguale – na vucchella. – Taranti’ taranti’ tarantelle – chiust’uocchie belle, chist’uocchie belle! – Vucchelle, non scappare – c’addo’ stai tu, nun saie – tra mare e mare. – Statte , ca si tu prove – ‘e’ vase che nun saie – cchiu’ nun te muove. – Taranti’ taranti’ Tarantella – sta vocca bella! Sta vocca bella! – A Taranto nce stanne – nu mare picceriillo – e n’ato granne.

La poesia e’ bella , non c’è dubbio , anche se e’ difficile seguire il poeta tra la prima sensazione (un mare piccolo e uno grande) e la seconda ( i due mari paragonati a due occhi di fata uguali) ; “la vucchella” immaginiamo che sia il ponte girevole al centro dei due occhi. Taranto, con i suoi due mari e’ paragonata ad una bella fanciulla dalla boccuccia invitante: fermati boccuccia – esorta il poeta – perche’ se tu provi i baci che non conosci, piu’ non ti muovi.

Nel complesso si tratta di versi semplici, scaturiti da un animo fortemente innamorato, tutto preso dal fascino che promanava e promana la singolare posizione geografica di questa nostra citta’, regina di due mari. Ma indubbiamente la musica e’ migliore, direi anzi che essa risulta piu’ fresca , invitante, addirittura esaltante e infatti una tarantella che l’accompagni o la esegua da’ la possibilita’ di eseguire un buon balletto.

Ospiti forestieri continuarono ad arrivare all’Hotel d’Europe.

Tra gli altri , nell’estate del 1894, giunse proveniente dalla Campania un viaggiatore francese, Jean de Beaurgard, sacerdote, docente di retorica e di letteratura straniera e romanze all’istituto cattolico di Lione e a quello di Bordeaux, autore di molti libri e manuali scolastici. Un suo libro di viaggi si intitolo’ “Du Vesuve à l’Etna et sur le litoral de l’Adriatique” tradotto in italiano da Fulvia Fiorino. A Taranto il de Beauregard dedica alcune belle pagine ma ecco il passaggio che ci interessa in questa sede : “piu’ oltre , tra il canale e la campagna, Taranto moderna mostra, secondo una prospettiva rettilinea, le facciate dei suoi eleganti palazzi. E’ una citta’ in divenire che promette di diventare davvero bella in un prossimo futuro. Le strade sono larghe e ben tracciate, il giardino pubblico abilmente disegnato; gli alberi confortevoli quanto nelle piu’ fiorenti citta’. L’albergo Europa, in particolare, con le sue terrazze sul Mar Piccolo e i suoi vasti saloni, ha qualcosa di principesco: la veduta di Taranto che ho fornito e’ ripresa dalle sue terrazze; visto di la’ , il porto peschereccio si sviluppa per intero in una graziosa curva ed e’ estremamente pittoresco.

Ma ci vorranno ancora alcuni anni perché la citta’ nuova esplichi per intero le sue possibilita’; oltre al fatto che la gabbia non e’ attualmente del tutto finita, ci mancano ancora molti uccelli. Il che verra’ col tempo”.

PETTOLE

INGREDIENTI:

gr 400 di acqua;
1 lievito di birra (20 gr);
1 cucchiaio raso scarso di sale fino;
1 cucchiaino di zucchero;
gr 500 di farina “00”;
zucchero semolato per spolverizzare;
olio per friggere.

Preparazione:
1. mettere l’acqua leggermente tiepida in una coppa molto capiente;
2. sciogliervi dentro il lievito di birra, il sale e lo zucchero;
3. unire la farina;
4. con un cucchiaio amalgamare;
5. sbattere il composto per molto tempo, fin quando diventa liscio e lucido;
6. coprire la coppa e riporla in un luogo caldo;
7. lasciar lievitare per almeno due ore;
8. riscaldare abbondante olio per friggere fin quando diventa bollente;
9. con un cucchiaio prendere un po’ di impasto, più o meno ½ cucchiaio, e versarlo nell’olio aiutandosi con un altro cucchiaio o con un dito bagnato nell’acqua;
10. riempire la pentola della frittura;
11. man mano che le pettole si cuociono saliranno a galla e se non lo fanno da sole rigirarle dall’altro lato;
12. quando sono dorate e leggere, scolarle con un cucchiaio forato o altro attrezzo per frittura;
13. si mangiano bollenti, così come sono oppure si possono spolverizzare con zucchero semolato.

Note:
Quella delle pettole è una ricetta della tradizione di Taranto. Si preparano per Santa Cecilia (22 novembre) dando così inizio al periodo natalizio; si impastano la notte precedente o la mattina prestissimo.

PIZZA DI PATATE TARANTINA

Ingredienti per 4 persone

  • 200g di farina
  • 500g di patate farinose
  • 10g di lievito
  • 400g di pomodori
  • 1/2 bicchiere di olio d’oliva
  • 1 mozzarella
  • formaggio parmigiano grattugiato
  • origano
  • pepe
  • sale

Ricetta

Fare una pasta con la farina, le patate lessate e passate, sale e lievito sciolto in acqua calda. Se necessario aggiungere acqua calda.
Stendere la pasta in una teglia oleata e irrorarla d’olio. Coprirla con la mozzarella a fettine, il parmigiano e i pomodori tagliati e fettine.
Condire con origano, sale, pepe e olio e lasciar lievitare per mezz’ora in un luogo tiepido.
Infornare.

Cozze Tarantine, origini e ricette

tarantina

Cozza è il nome volgare che indica un mollusco bivalve: il mitilo. La cozza Vive nel mare filtrando le particelle organiche. E’ intensamente allevata in Italia. E’ saporita, povera di grassi e ricca di ferro. La cottura prolungata ne fa un alimento sicuro.

RICETTA SPAGHETTI ALLA TARANTINA

Ingredienti per 6 persone:

 – 800 gr. di spaghetti

 – 1,5 kg di cozze pulite

 – 1/2 bicchiere di olio d’oliva

 – 3 spicchi d’aglio

 – prezzemolo tritato

Preparazione:

In un tegame coperto su fuoco vivo, fate aprire lei cozze ben pulite.
Toglietele dal tegame, filtrate l’acqua dei molluschi e conservatela.
In un altro tegame, fate imbiondire l’olio d’oliva, gli spicchi d’aglio, unite le cozze, che avrete separato dal loro guscio, salate, pepate e allungate con 2 o 3 cucchiai del liquido messo da parte. Alzate il fuoco e fate bollire vivacemente per 2 minuti. Togliete dal fornello il tegame, aggiungete prezzemolo tritato e, con questa salsa, condite 800gr. di spaghetti, cotti molto al dente.

pepata1

PEPATA DI COZZE

Ingredienti e Dosi per 4 Persone:

– kg. 1 di cozze 

– 2-3 spicchi d’aglio 

– mezzo bicchiere di olio d’oliva 

– pepe 

– prezzemolo tritato

Preparazione:

Per procedere alla preparazione dell’impepata di cozze bisogna: pulire accuratamente i gusci dei molluschi finchè non si siano eliminate del tutto le alghe attaccate attorno ai gusci delle cozze, lavare più volte, in diversi contenitori con il cambio di acqua per alcune volte. Procedere alla pulizia delle cozze con una paglietta di ferro o uno spazzolino di plastica dura o di ferro. Preparare in una casseruola capiente, a bordo alto, qualche cucchiaio di olio extra ed un due tre spicchi d’aglio schiacciati. Farle aprire a fuoco abbastanza vivo, agitando ogni tanto la casseruola per permettere la fuorisuscita del brodetto. Verso la fine una aggiungere un’abbondante macinata di pepe nero e servi su fettone di pane casereccio tostato, magari anche del tipo cotto a legna. Se piace si può aggiungere del prezzemolo. Il brodetto può essere filtrato in un colino o in una retina tipo quelle da tè. Ecco realizzato il vostro sautè di cozze.

marinate

COZZE MARINATE

ngredienti e Dosi per 2 Persone:

  • 600 gr. di cozze

  • 1 limone

  • prezzemolo

Preparazione:

Lavate le cozze sotto l’acqua corrente e mettetele in un tegame coperte d’acqua per farle aprire. Quando si apriranno scolatele, togliete metà guscio e sistematele con l’altra metà in un piatto da portata. Cospargetele di prezzemolo tritato e guarnitele con fettine di limone.

cozzeripiene2

COZZE RIPIENE

 

Ingredienti e Dosi per 4 Persone:

– 1600 gr di cozze

– 700 gr di polpa di pomodoro passata

– 30 gr di pan grattato

– 30 gr di olio extravergine di oliva

– un cucchiaio di prezzemolo tritato

– un pizzico di origano

-s ale pepe

 

Preparazione:

Spazzolate le cozze con cura, lavatele sotto il getto d’acqua ed eliminate con un coltello anche la “barba”.

Fate aprire le cozze in una padella a fuoco vivo, eliminate eventualmente quelle che non si saranno aperte.

Conservate, di quelle apertesi, il mezzo guscio col mollusco che disporrete in una pirofila unta.

Frullate la polpa di pomodoro con il pangrattato, il prezzemolo, l’origano, l’olio e poco sale.

Farcite ogni guscio con un po’ di ripieno, infornate a 200° per 10 minuti.

Date una manciata di pepe nero e aggiustate su vostro gusto di sale prima di servire.

gratinate

COZZE GRATINATE

marinara-small

Ingredienti e Dosi per 4 Persone:

-1 kg di cozze
-50 grammi di parmigiano grattugiato
-1/2 bicchiere di vino bianco
-80 grammi di pan grattato
-1 mazzetto di prezzemolo
-1 spicchio d’aglio
-Olio extravergine d’oliva
-Sale e pepe

fettuccine

FETTUCCINE ALLE COZZE

Ingredienti per 4 Persone:

  • 400 g di fettuccine o tagliatelle

  • 800 g di cozze

  • 1 cucchiaio di olio di oliva

  • 2 acciughe diliscate e pestate

  • 60 g di burro o margarina vegetale

  • 1 ciuffo di prezzemolo

  • sale e pepe in grani

Preparazione:

1. Lavate il prezzemolo e tritatelo. Pulite bene le cozze e poi lavatele, passandole ripetutamente sotto l’acqua corrente.

2. Mettete sul fuoco in una capace pentola abbondante acqua salata e, quando prenderà il bollore, cuocetevi le fettuccine al dente.

3. Nel frattempo, mettete le cozze in un tegame con l’olio e lasciatele aprire su fuoco vivo; quindi, eliminando quelle rimaste chiuse, togliete i molluschi dal guscio di quelle aperte e metteteli in una terrina con qualche cucchiaio del loro liquido di cottura filtrato.

4. Mettete il burro in una casseruolina su fuoco basso e, quando sarà fuso, fatevi sciogliere le acciughe; versatele quindi sulle cozze, unitevi il prezzemolo e mescolate.

5. Quando saranno cotte, scolate le fettuccine, versatele nel piatto di portata, conditele con le cozze e una macinata di pepe e servitele.

tagliolini

TAGLIOLINI IN SALSA DI COZZE

Ingredienti per 6 persone:

 – 300 gr di semolino

 – 3 chiare d’uovo: 

 – 1 kg di pomodori carnosi

 – 1 chilo di cozze

 – olio

 – prezzemolo

 – sale

 – aglio

 – zafferano.

Preparazione:

Preparare i tagliolini impastando la semola con le chiare sbattute appena e pochissima acqua leggermente salata. Manipolare la pasta per circa mezz’ora, con energia, quindi raccoglierla a palla e metterla a riposare, avvolta in un telo, nella parte meno fredda del frigo. Tenderla in sfoglie e tagliarla poco prima di metterla a cuocere. L’esperta di matterello può fare velocemente il lavoro a mano ma si può usare senza danno la macchinetta, almeno per tendere le sfoglie e ridurle in tagliolini. Le sfoglie devono avere uno spessore di 2 – 3 millimetri e una lunghezza di una ventina di centimetri, in modo che i tagliolini risultino simili alle bavette: spessi e corti.

Pelare i pomodori, spezzettarli grossolanamente e farli cuocere a fuoco basso con l’olio, due spicchi d’aglio interi, un mazzetto di prezzemolo legato per i gambi, un pizzico di sale e uno di zafferano. Lavare le cozze e aprirle conservando i molluschi e la loro acqua in una scodella.

Quando la salsa, dopo aver sobbollito per un’oretta, è addensata, eliminarne prezzemolo e aglio e sostituirli con le cozze tenute da parte e con la loro acqua filtrata attraverso una garza. Attendere che il bollore si rialzi e calcolare altri cinque minuti di cottura. Condirvi subito i tagliolini, cotti in abbondante acqua salata ed estratti appena vengono a galla. Lasciarli stufare per qualche minuto, dare una definitiva rimescolata, spruzzarli in superficie di una cucchiaiata di piccole foglie di prezzemolo e servirli.

marinara-small

COZZE MARINATE

Ingredienti e Dosi per 2 Persone:

  • 600 gr. di cozze

  • 1 limone

  • prezzemolo

 

Preparazione:

Lavate le cozze sotto l’acqua corrente e mettetele in un tegame coperte d’acqua per farle aprire. Quando si apriranno scolatele, togliete metà guscio e sistematele con l’altra metà in un piatto da portata. Cospargetele di prezzemolo tritato e guarnitele con fettine di limone.

trionfo

TRIONFO DI COZZE

Ingredienti e Dosi per 6 Persone:

 – 1 kg di cozze ben pulite e lavate

 – 1 cucchiaio di olio

 – 1 cipolla tritata

 – 4 spicchi d’aglio tritati

 – 2 gambi di erba cipollina tritata 

   (solo la parte bianca)

 – 1,2 cucchiaini di peperoncino      rosso tritato

 – 1 cucchiaio di salsa di pesce

 – 1 tazza di vino bianco secco

 – 1 tazza di basilico tagliuzzato

Preparazione:

In una casseruola mettere l’olio con le verdure e cuocere a fuoco basso per 5 minuti, rimestando per non far attaccare. Aggiungere il vino bianco e la salsa di pesce, e cuocere ancora per qualche minuto.

Versare nella casseruola le cozze, alzare il fuoco, incoperchiare e cuocere finché i molluschi non saranno aperti, eliminando quelli che restassero chiusi.

Cospargere di basilico tritato e versare sul piatto di portata, all’interno di una corona di riso bollito al dente.

tarantina

SPAGHETTI ALLA TARANTINA

Ingredienti per 6 persone:

 – 800 gr. di spaghetti

 – 1,5 kg di cozze pulite

 – 1/2 bicchiere di olio d’oliva

 – 3 spicchi d’aglio

 – prezzemolo tritato

Preparazione:

In un tegame coperto su fuoco vivo, fate aprire lei cozze ben pulite.
Toglietele dal tegame, filtrate l’acqua dei molluschi e conservatela.
In un altro tegame, fate imbiondire l’olio d’oliva, gli spicchi d’aglio, unite le cozze, che avrete separato dal loro guscio, salate, pepate e allungate con 2 o 3 cucchiai del liquido messo da parte. Alzate il fuoco e fate bollire vivacemente per 2 minuti. Togliete dal fornello il tegame, aggiungete prezzemolo tritato e, con questa salsa, condite 800gr. di spaghetti, cotti molto al dente.

bruschetta1-small

ZUPPA DI COZZE CON BRUSCHETTA

Ingredienti e Dosi per 4 Persone:

 – 1 Kg. cozze
– 4 spicchi d’aglio
– 6 cucchiai olio extra di olive
– 4 cucchiai salsa di pomodoro
– 1/2 tazza vino bianco secco
– 1 cucchiaino origano

 –  1/2 tazza basilico fresco tritato

 – sale e pepe
– 2 fette di pane casareccio tostato 

   a  persona 

Preparazione:

In un tegame coperto su fuoco vivo, fate aprire lei cozze ben pulite.
Pulisci e raschia accuratemante le cozze. Butta via tutte quelle aperte o rotte. Versa mezzo dito d’acqua in un tegame e porta a ebollizione. Versa le cozze copri la pentola e lasciale a fuoco alto finchè non saranno aperte tutte. Butta tutte quelle che non si sono aperte. Togli le cozze dalla pentola e conservale in un recipiente caldo. Conserva il liquido della pentola e filtralo attraverso un passino, per evitare ogni eventuale granell di sabbia. Abbrustolisci il pane. In una grande padella riscalda l’olio di oliva e fai dorare gli spicchi d’aglio. Aggiungi la salsa di pomodoro, gira e aggiungi l’origano. Cuoci per 2 o 3 minuti. Versa il vino, il liquido delle cozze, e il pepe. Cuoci per altri 10 minuti girando di tanto in tanto. Aggiungi le cozze e cuoci ancora per qualche minuto. Strofina uno spicchio d’aglio sul pane abbrustolito e distribuiscilo nei piatti individuali. Versa il sugo  il pane. Aggiungi un pò di basilico tritato (facoltativamente) e alla fine metti le cozze.

Può essere preparato anche senza salsa di pomodoro.  

Proprietà nutrizionali delle cozze

Grazie alla migliorata fiducia nei loro confronti, le cozze sono attualmente tra le dieci specie di fresco più acquistante in Italia (dati ISMEA). Negli ultimi anni hanno conquistato molto terreno specialmente nel nord Italia, dove il loro consumo era molto limitato almeno in rapporto alle regioni del Sud. Tanto che le saporite cozze risultano oggi gradite e consumate sempre di più in tutto il territorio nazionale. Dal punto di vista nutrizionale, 100 grammi di parte edibile contengono 2 grammi di grassi, 3,4 gr. di carboidrati, Il,7 gr.di proteine, sali minerali (88 mg. di calcio, 236 mg. di fosforo e 5,8 mg. di ferro) e vitamina Bl (0,12 mg.) e B2 (0,16 mg.). Sintetizzando possiamo affermare che le cozze costituiscono una notevole fonte, di antiossidanti, di vitamine e di proteine nobili a basso contenuto di grassi e lipidi. Riconosciute sono inoltre le loro proprietà digestive e stimolanti soprattutto per la quantità di sali alcalini che contengono.

 PER 100 GR. DI COZZE:

energia:

84 calorie

colesterolo:

50 mg.

proteine:

11,7 g.

lipidi:

2,7 g.

glucidi:

3,4 g.

 

 OFFICINE TARANTINE

10258488_622425337850754_7734175075847602745_n

Sono un gruppo composto da giovani realtà già presenti sul territorio, che vista la mancanza di prospettive per il futuro, hanno deciso di unire le forze per dare alla città un posto dove i cittadini possano respirare cultura e collaborare per riappropriarsi del futuro, nell’ottica dell’eco-sostenibilità. I l progetto nasce per l’esigenza di creare spazi dove chiunque possa esprimere e realizzare le proprie idee. attraverso un’ opera di volontariato AUTOFINANZIATO, rimetteremo in sicurezza, rendendo finalmente agibili, i locali “cantieri cattolica” che sono inaccessibili e abbandonati da decenni.

L’idea è di creare piccoli laboratori e attraverso dei
corsi formare il cittadino con attività funzionali alla
creazione del proprio futuro. I laboratori pilota saranno:

– Laboratori arti visive/grafiche
– officina 3R (RiusaRiciclaRivaluta)
– mensa popolare
– sala prove
– serigrafia
– falegnameria
– ciclofficina
– mosaici
– ecòthè magazzini idee
– laboratorio di ricamo
-laboratorio di taglio e cucito
Questo non esclude la necessità di ricevere nuove proposte, al contrario le proposte dei cittadini saranno la linfa vitale di questo progetto. Daremo vita ad eventi socio-culturali di interesse cittadino affinché questo spazio diventi luogo di
aggregazione , creando così una rete di collaborazioni che rendano più semplice la realizzazione di progetti proposti.

e mail :officinetarantine@gmail

Officine tarantine e’ una delle belle realta tarantine, che però, come tutte le cose belle e buone, vengono ostacolate.

Questi ragazzi svolgono corsi totalmente gratuiti per aiutare altri ragazzi ad imparare cose nuove.

Sosteniamo officine tarantine!

POESIE TARANTINE

…E ‘mmienz’a mmare sté na via bèllele
giuvene c’onne ‘sciute
tutte onne perdute…
.E ‘mmienz’a mmare sté na chiandarizze
salutem’u ninne miece l’à passat’a stizze.
A ‘mmienz’ ‘a mmari è nnata ‘na sckalòra
li Turchi si la giòcunu a primièra.
…E ‘mmienz’a ‘mmare sté na via bèelle
à ‘sciute l’amore mie
ci à venciute?
‘U marenare mie sté mètte véle
jé maletiembe e no ‘nge po’ avenére.
U marenare mie sté mètte véle
da suse l’à ppassate l’Angele Gabriéle.

Traduzione:
In mezzo al mare c’è una via bella
I giovani che ci sono andati
Tutto hanno perso.
In mezzo al mare c’è una pianta riccia
Salutami il bimbo mio
Se gli è passata la stizza.
In mezzo al mare è nata una scarola
I Turchi se la giocano a carte.
In mezzo al mare c’è una bella via
Ci è andato l’amore mio
Chi avrà vinto?
Il marinaio mio sta mettendo vele
E’ cattivo il tempo e non può tornare
Il marinaio mio sta mettendo vele
Da sopra gli è passato l’Angelo Gabriele

“U’ Scarpare “ 

Quanda strada hagghie fatte appiede, 
me pareve ca’ nonge se arrivave maje, 

Le pijdde picinne piccine e le jamme mazzulline 
tutte le strade me parevene longhe, pure ci jere vicine. 

No’me cumannave nisciune de sce’ a na’ vanne oppure n’otre 
cu’ le cazune curte le cazijtte longhe... e u’ core forte forte. 

Uecchie apijrte e recchie tise pe’ capi’ u’ munne, 
pe’ rumane’ a’ galla…. 
cu’ a meravigghie … 
e nu’ sciueche ijeve de’ scappa’ arrete a’ na farfalla. 

Sule tu m’e’ putute ferma’ scarpa maledetta 
no’ puteve fa’ chiu’ nu passe picce’ jerene dulure, 
me sendeve accise, cu’ l’anema spaccata a ddoie, 
accome nu’ curciule achiuse ijndre a’ na’ gaggetta. 

Scive da mamma’ e ‘ngiu’ dicive cu’ tanda dulore au’ core 
e quedda madonna me dicje:… no’ te vudeca’ u’ sanghe figghije mie 
u’ canosche ije nu’ sande, ca pe’ te’ je’ nu salvatore. 

Andrudulo’ le scarpe indre a’ nu’ giurnale, 
assi’ da case pe’ sce’ fa’ a spesa… 
quanne turno’ me arreturno’ le scarpe nove nove. 
Aveve sciute da u’ sande … 
u sande salvatore mije … jeve … u’ scarpare. 


“ A’ Foce “ 

Osce ste’ nu’ sole ca’ spacche le petre 
je totte le femmene andiche honne arriterate le fedre 

Cu’ le veste azate sobbre alle scenucchie 
ijndre a stu’ mare de smeralde ne accuegghiene le flutte 

Strascenanne le pijdde docemende 
se fanne accarizza’ le jamme d’a’ currende 

Pe’ lore je bell’assaje pruva’ stu’ turmende 
provene a’ sensazzione ca’ a’ pelle s’addurmende 

Quanne fenisce a passiggiata nonne sendene chiu’ u’ pese 
picce’ questa je’ a mascija d’a’ foce du’ Galese 

“ Ù merachele “ 

Ijndre à notte tutte s’allumena 
cù nà vocche rosse de fueche 
ù merachele stè arrive 
ca à uardà pare nù sciueche. 

Doj cannune sparene fume 
nere nere accome le carvune, 

Sotta sotte ù fume jè vianche 
e tutte atturne pare n’encande. 

Eppure da lundane sijnde accome nù lamende 
cà paresse à essere de nù turmende 

Jè a vòce dè le femene ... dè le mamme 
cà chiangenne cerchene le maschele lore ... 
le figghije .... cà à case nonge honne turnate. 


E tutte quande indre à nù core lamenduse arrepetene: 
ne le avite luate dalle vrazze stì fijgghie ... 

l’avite luate dà terra ... e dà ù mare 
pè anghièrne à case de dùlore .... 

cè nè cangiave à nuje 
ce ne avessenme tenute nù maschele 
puverijdde ... cuntadine ... o pescatore. 
Il calzolaio 

Quanta strada ho fatto a piedi 
mi sembrava non si arrivasse mai 

I piedi piccolini e le gambe magroline 
tutto mi sembrava lontano anche se era vicino 

Non mi comandava nessuno nell’andare da una parte oppure un’altra 
con i pantaloni corti i calzettoni ed il cuore forte forte 

Occhi aperti ed orecchie tese per capire il mondo, 
per restare a galla 
con la meraviglia 
ed era un gioco per me rincorrere una farfalla 

Solo tu mi hai potuto fermare scarpa maledetta 
non potevo camminare piu’ perche’ erano dolori 
mi sentivo ferito, con l’anima spaccata a due 
come un uccellino chiuso in una gabbietta 

Andai da mia madre e glielo dissi con tanto dolore al cuore 
e quella madonna mi disse: non avvelenarti il sangue figlio mio 
lo conosco io un santo che per te e’ un salvatore. 

Arrotolo’ le scarpe dentro ad un giornale 
usci’ di casa per fare la spesa 
quando torno’ mi restitui’ le scarpe come nuove 
era andata dal santo 
il santo salvatore mio era il calzolaio. 


" La foce " 

Oggi c’e’ un sole che spacca le pietre 
e tutte le donne antiche hanno riposto le federe (gli indumenti pesanti) 

Con le vesti al di sopra delle ginocchia 
in questo mare di smeraldo godono dei flutti 

Trascinando i piedi dolcemente 
si fanno accarezzare le gambe dalla corrente 

Per loro e’ bellissimo provare questo tormento (dell’acqua gelida) 
provano la sensazione che la pelle si addormenti 

Quando finiscono di passeggiare non ne sentono piu’ il peso (delle gambe indolenzite) 
perche’ questa e’ la magia della foce del Galeso 
Il miracolo 
Nota: 
Il riferimento e' l'Italsider che nelle esplosioni di fuoco notturne
da' l'impressione come di un miracolo, 
il suo rumore nella notte sembra un lamento inesorabile. 

Nella notte tutto si illumina 
con una bocca di un rosso fuoco 
il miracolo sta' arrivando 
e guardarlo sembra una giostra. 

Due cannoni sparano fumo 
nero nero come il carbone, 

Sotto il fumo invece e' bianco 
e tutto l'insieme sembra un incantesimo. 

Eppure da lontano senti come un lamento (il rumore nella notte) 
che sembra essere come di un tormento 

E' la voce delle donne ... delle mamme 
che piangendo cercano i loro uomini... 
i loro figli ... che non sono piu' tornati a casa (perche' morti sul lavoro) 

E tutte insieme in un lamentoso coro ripetono: 
ce li avete tolti dalle braccia questi figli ... 

Li avete tolti dal lavoro della terra e del mare 
per riempire le nostre case di dolore. 

Cosa sarebbe cambiato per noi 
se ci fossimo tenute un uomo 
poveretto ... contadino .. o pescatore. 

a livella in tarantino

A levèlle

di Antonio de Curtis

Ogn’anno, il due novembre, c’è l’usanza
per i defunti scére ô Cemetere.
Ognune l’à dda ffare sta creanza;
ognune à dda tenére ‘stu penziére.

Ogn’anno, puntualmente, in questo giorno,
di questa triste e mesta recurrénze,
anch’io ci vado, e con dei fiori adorno
il loculo marmoreo de zia Vicènze.

‘St’anne m’ha ‘ccappate ‘n’avvendure…
dopo aver compiuto il triste omaggio,
Madonne! Quanne pènze, e ccè paure!,
ma pô pigghiéve ‘n’ogne di coraggio.

‘U fatte è cquiste e statemi a sentire:
s’avvecenave l’ore d’a chiusure:
î, tome-tome, stavo per uscire
buttando un occhio a ‘nguarche sebbulture.

” Qui dorme in pace il nobile marchese
Signore di Rovigo e di Belluno
Ardimentoso eroe di mille imprese
Morto l’11 Maggio del 31 “.

‘U stèmme cu’ ‘a curone sus’a ttutte…
..sotte, ‘na croce cu’ lle lampadine;
mazze de rose cu’ ‘na liste a llutte:
cannéle cannelotte e sséje lumine.

Pròpie attaccate a’ tombe d’u Signore
‘nge stave ‘n’otra tombe assáje chiú strètte
abbandunate, senza manco un fiore;
pe’ ssègne, sulamènde ‘na crucètte.

E ssus’a croce appéne se leggéve:
” Esposito Gennaro – Netturbino ”
uardànnele, cè ppéne facéve
‘stu muèrte senza manco un lumino!

Questa è la vita! ‘ngap’a mmé penzave…
Sta chi ha tanto e chi proprio niente!
‘Stu povere madonne s’aspettave
ca pure a ll’ote munne éve pezzènde?

Mentre fantasticavo ‘stu penziére,
già s’avé fatte quase menzanotte,
î rumanive achiuse preggiuniére,
‘mpaurite… ‘nnand’a chidde cannelotte.

Ma, ‘ndramènde, cè vvede chiù llundane?
Dô ombre avvecenarse a’ vanna méje…
Penzeve: ma ‘stu fatte pare strane…
Stoch’a sonne o jé fantasìja méje?

Ma cè ffantasìje! év’u Marchese:
c’u tubbe, ‘a caramelle e cc’u pastrane;
quidd’otre apprisse a jidde un brutto arnese:
tutte fetènde e ccu’ ‘na scope ‘n mane.

E cquidde certamende è ddon Gennare
‘u muèrte puveridde… ‘u scupatore.
Indr’a ‘stu fatte î no’ vvede chiare:
so’ mmuèrte e sse retìren’a quest’ore?

Stamme lundane quase ‘nguarche palme
quann’u Marchese se fermô de botte,
se vote e, tome-tome… calme-calme,
dicíje a don Gennare: ” Giovanotte!

Da Voi vorrei sapere, vile carogna,
con quale ardire e come avete osato
di farvi seppellir, per mia vergogna,
accanto a me che sono un blasonato!

La casta è casta e va, sì rispettata,
ma Voi perdeste il senso e la misura,
la Vostra salma andava, sì, inumata:
ma seppellita nella spazzatura!

Ancora oltre sopportar non posso
la Vostra vicinanza puzzolente,
fa d’uopo, quindi, che cerchiate un fosso
tra i vostri pari, tra la vostra gente “.

” Signor Marchese, non è colpa mia,
î no’ v’avisse fatte máje ‘stu tuèrte;
mia moglie è stata a far sta fesseria,
î cè pputéve fá’ c’avé ggià mmuèrte?

C’î ére vive già v’accundendave
pigghiave ‘a cascetedde e lle quatt’osse
e mmô, sedutastande ve lassave
e mme ne scéve indr’a ‘n’otra fosse “.

” E cosa aspetti, oh turpe malcreato,
che l’ira mia raggiunga l’eccedenza?
Se io non fossi stato titolato
Avrei già dato piglio alla violenza! ”

” Famme vedé… pìgghiele ‘sta viulenza…
‘A veretà, Marchè, m’hagghie seccate
e uáje so’ ce perde ‘sta pacenze,
me scorde ca so’ mmuèrte e sso’ mmazzate!

Ma cè tte cride d’èssere… ‘nu ddije?
Qua indre, ‘u vuè capì, ca sime eguale?
…Muèrte sî ttu e mmuèrte so’ ppur’íje;
ognune è ccum’hà nnate, è ttale e cquale “.

” Lurido porco!… Come ti permetti
paragonarti a me ch’ebbi natali
illustri, nobilissimi e perfetti,
da fare invidia a Principi Reali?

” Tu qua’ Natale… Pasche e Bbufaníje!
T’u vuè cu sckaffe ‘ngape… indr’a cervelle
Ca stê malate assáje de fandasíje?
‘A morte ‘u sê cè jé?… è ‘na levèlle.

‘Nu rré’, ‘nu magistrate, ‘nu grand’ôme
trasenne ‘stu cangidde ha fatte ‘u punte
c’ha pperse tutte, ‘a vite e ppur’u nome;
tu no’ tt’hê fatte angore, acquá, ‘stu cunde?

Perciò, stamm’a ssendé… no’ fa’ ‘u restive:
suppuèrteme vecine – cè tte ‘mborte?
‘Sta pagliacciate ‘a face ci jé vvive:
‘nû sime sèrie… appartenime a’ morte!… ”

traduzione in dialetto tarantino di Domenico Semeraro

ROMEO E GIULIETTA IN DIALETTO TARANTINO

Ruméje
Jèdde sté’ ppàrle.
Oh, dí’ ’nguàrche ccóse angóre, jàngele e sblennóre!
Piccé cussí’ glurióse ’stà nòtte ’ngáp’a mmé’ sì’ ttúne
a ccúm’a ’nu massaggére ’ngíele cu le scíjdde
ca ’ddà ssúse terlambésce viangóre
a l’uècchie abbabbuíte de murtále
c’arretepéde càdene p’ù ’ndrucáre
quànne cavàrcanne véje
a nnúvele ggòmbije e ppíggre
e ’mbíjette a ll’àrie cu ’a véle pìgghie ’a víje .
Giulijètte
Oh, Ruméje, Ruméje! – Piccé ssí’ tú’ Ruméje?!
Renníje attànete, e ’u nóme túve rrefiúte.
O, ce no’ vué’, cu ssíja … Sciúre súle ca me vué’ bbène,
e ije no’ hàgghie dda essere cchiú’ ’na Capuléte.
Ruméje (assuláte)
Hàgghia sendé’ angóre o a qquìste hàgghia respònnere?
Giulijètte
Jé ssúle ’u nóme túje ca éte ’u nimíche míje.
Túne sí’ ttú’ stèsse, púre ca no’ ìre ’nu Mundècchie.
Cce jé ’nu Mundècchie? Jé níende. No’ jé no’ mane no’ péde
no’ vràzze no’ fàcce e mmànghe n’ôtra pàrte
ca de ’nnu crestiáne è’ ’a sóje . Oh, sì’ ’nguàrche ôtre nóme!
Cce sté’ ind’a ’nu nóme? Quìdde ca núje chiamáme róse
cu ogne ccé’ ssíja paróle,’u dóče,’u stèsse ù spànne.
Accussíje Ruméje, ce no’ se chiamáve Ruméje,
avéve a mandené’ quèdda perfezzióna cára ca téne
sènze quìdde tìtele. Ruméje, làssele a ’u nóme túje;
e a ccànge d’u nóme túve, ca no’ jé pàrta de téje,
a mméje, a mméje pìgghiete, tòtta quànda.
Ruméje
A pparóle te pìgghie.
Chiàmeme súle amóre,
e ccussí’ n’ôta vóte m’hàgghie vattesciáte.
E dda mo’ e pp’ogne ggiúrne, ije no’ so’ cchiúje Rruméje. Giulijètte
Cce crestiáne sì’ tú’, accufanáte d’ô scuròrie,
c’avìene accussíje a’ securdúne ind’a le pinzíere míje?!
Ruméje
Cu ’nnu nóme
no ’nge t’ù sàcce díčere ci sond’ije.
’U nóme mije, delètta sànda, púre pe’ mméje é’ bbruttefàtte,
piccè jé nimíche a ttéje.
Ci à vedéve scrítte, à strazzáve ’stà paróle.
Giulijètte
Cíende paróle
ca d’a lènga tója honne státe dìtte
le rècchie mije no ’nge l’honne angóre vevúte,
e ppúre fa’ ca ù canòsche a ccúme lóre sònene.
No ’nge sì’ ttú’ Ruméje, e ’nnu Mundècchie?
Ruméje
Nisciúne de le dóje, uagnèdda bbèdde,
ce tútte e ddóje no ’nge l’héje azzètte.
Giulijètte
A ccome hè fàtte a vvenè aqqua’, dìmmele, e ppiccè?!
Le múre d’u sciardíne so’ alte e ’nduppecúse
cu l’ammàrche,
e ’u luéche mòrte vvóle cu ddíče, c’ij’ pènz’a cci sì’ ttúne,
cci ogne ssíja parènde mije
te vé’ jàcchie aqquáne.
Ruméje
Jé de l’amóre cu le scìdde lègge
ca ’stè múre hagghi’ammarcáte.
Piccè fenéte de pètre no’ ppòtene
tené’ Amóre lundáne,
e qquìdde ca l’amóre po’ fa’
pròbbie quìdde Amóre aóse fáre.
Peddènne le paríende túje
Máje e ppò máje me pòtene fermá’.
Giulijètte
Cce te vèdene chíjdde t’accídene. Ruméje
Pòver’a mméje, addáne …
ind’a ll’uècchie túve sté’ ’u perìcle …
cchiù ca jind’a vìende de le spáte lóre!
Tú’ uàrdeme, ma dóče-dóče,
ca cussìne sònde ’a ppróve d’u èngete1
lóre.

Proverbi tarantini

  • ‘A bravura de mèste Uccio, ca diéde ‘nu sckaffe ô ciucce
  • Acchie u fesse e inghìe u sacche. (trova il fesso e riempi il sacco)
  • ‘A fatìe ca se chiame cucuzze, a mme me féte e a tte te puzze. (La fatica si chiama zucchina, a me puzza e a te pure = La fatica ha un nome, non mi va di lavorare e neanche a te.)
  • ‘A jaddine face l’ove e a’ jadde l’uscke ‘u cule
“La gallina ha fatto l’uovo e al gallo brucia il culo”
  • ‘A Madonne sape a cci porte le recchíne!
La Madonna sa chi porta gli orecchini
  • A mmëzzadije, ci sté a ccáse d’ôtre cu pigghie vije
“A mezzogiorno chi si trova in casa d’altri dovrebbe tornare alla propria”
  • Amice e ccumbáre se pàrlene chiare
Amici e compari parlano francamente, tra loro
  • Astipe ‘a zampogna pe’ qquanne abbesògne
  • Avisse fatte ‘nu puèrche quanne hé nate! Alméne sté mangiamme sasizze!
“avessi avuto un maiale almeno ora staremmo mangiando salsicce” (si riferisce ad un figlio nullafacente)
  • Chidde se recordane le vigne de ‘mminze a’ chiazze
  • Ci nasce tunne nò mmore quadráte
Chi nasce rotondo, non muore quadrato’, come dire che le persone non cambiano.
  • Ci sparte ave ‘a mègghia parte
Chi fa le divisioni, ottiene la parte migliore
  • Ci téne lènghe, vé ‘nzardègne!
“chi tiene lingua va in sardegna” (chiedendo le cose si riesce ad arrivare anche in Sardegna)
  • Ci tutte l’acjidde canuscèssere ‘u gràne!
“Se tutti gli uccelli conoscessero il grano…”
  • Da niende-niende a ttande-tande
  • “E va bene”, disse Donna Lena, quanne viddìe ‘a figghie, ‘a sèrve e a iatta préne!
  • Fatìe e ffatìe, e a’ sére páne e ccepòdde (Fatica e fatica, a cena solo pane e cipolla = tanto lavoro per ottenere poco.)
  • Fa’ tu e ffa’ chiòvere
“fai tu e fai piovere” (se insisti tanto fai tu e levati davanti agli occhi!)
  • Furne vècchie addevènde furne onoráte
(le persone anziane diventano persone “venerate”)
  • Ha chiovúte ‘a mèrde e nen ha ‘nzeváte a ttutte! (Ha piovuto ininterrottamente, eppure alcuni sono rimasti salvi! = la sfortuna non sempre colpisce)
  • Ha lassáte Criste pe’ scé a lle cozze
Ha lasciato Cristo per andare alle cozze
  • Ié mègghie ci t’onòre ca ci te sazie
  • L’anèddere so’ cadute, ma le dìcete so’ rumaste.
  • Le corne de le signure so de vammàce, chidde de le puveriedde so’ de noce
“Le corna (le colpe) delle signore sono di ovatta, quelle delle poverette sono di legno di noce”
  • Mègghie 100 zite ca ‘nu male marite (Meglio cento fidanzati che un marito geloso = meglio restare nella propria condizione di nubile)
  • Mègghie ‘na catáre ‘nguèdde ca ‘n’onze ‘ngule
  • Mazze e ppanèlle fanne le figghie bèlle (Un po’ di botte plasmano dei figli educati.)
  • ‘Na vote ié fèste a Ppalasciáne
” Una volta è festa a Palagiano” (o meglio: non è sempre festa a Palagiano)
  • N’è fritte de vurpe!
  • Nò sputà’ ‘ngiéle ca ‘mbacce t’arríve
Non sputare in cielo, perché poi ti arriverà in faccia
  • Pe’ ccanòscere ‘nu crstiáne t’ha mangià’ sette sacche ‘e sále
“Per conoscere una persona devi mangiare sette sacchi di sale” (Non è mai possibile conoscere pienamente una persona)
  • Quanne Criste sté ‘ngroce, sule tanne ièsse ‘a voce.
  • Quann’u marite arriv’a quarandine, lasse ‘a mugghiére e sse ne vé a’ candine, quanne a mugghiére arriv’a quarand’anne, lasse ‘u marite e sse pigghie a Ggiuànne.
“Quando l’uomo ha quarant’anni lascia la moglie e va ad ubriacarsi; quando la moglie ha quarant’anni lascia il marito e se ne va con Giovanni”
  • Scenne venenne, melune cugghiénne. (Andando in un viaggio e ritornando, si raccolgono meloni = si fa un nuovo bagaglio di esperienze).
  • Squagghiáte ‘a néve appàrene le strunze! (Scioltasi la neve compaiono gli stolidi.)
  • Sté frisce ‘u pèsce e ssté tremènde ‘a iatte
” Friggi il pesce e tieni d’occhio la gatta”
  • T’agghie chiamate a ccoppe e te n’isse a bbastúne?
“Ti ho chiamato a coppe e sei uscito a bastoni?”
  • T’agghie a crèscere e t’agghie a perdere (Prima ti devo crescere e poi ti devo “perdere” = metafora per un genitore che cresce il figlio e poi si vede non adeguamente appagato per il lavoro fatto, oltre che il figlio andrà via.)
  • T’agghie a purtà a lle firre vicchie! Vedime … m’u donne ‘nu cupèrchie? (Ti devo portare tra i rottami! Vediamo… me lo danno un coperchio? = Spesso dai rottami o dall’immondizia si trova sempre qualcosa di utile.)
  • ‘U cáne asckuáte áve paure dell’acqua frèdde
  • ‘U ciucce s’ha carescià e u ciuccie s’ha futte (L’asino deve portare [il carro] e a lui toccano tutte le fatiche.)
  • ‘U príse cchiù ‘u ggire e cchiù féte. (Più gira il vaso [dove una volta si facevano i bisogni] e più è maleodorante = più si persiste in una situazione, più questa si aggrava.)
  • Viste ceppóne ca páre baróne

(Vesti un poveraccio come si deve e anche lui sembrerà un uomo dell’alta nobiltà)

  • Zumbe ‘u cetrúle e sspicce ‘ngule a ll’ortoláne
  • Quanne è Scerròcche, scénne Peppe e nghìane Rocche; quanne è Tramuntàne, Peppe scénne e Rocche nghìane. (Ognuno si fa i fatti suoi).
Offerte sempre nuove e convenienti su AMAZON. Clicca qui