NITTI, Francesco. – Storico, nato a Taranto il 24 febbraio 1851, morto a Roma il 31 gennaio 1905.
Nel 1876, prima del noto libro di P. Villari, pubblicò a Napoli il primo volume (del secondo, abbozzato nel ms., vennero stampate soltanto 240 pagine, non messe in commercio) del Machiavelli nella vita e nella dottrina studiato con l’aiuto di documenti e carteggi inediti: lavoro profondo, ricco di pagine bellissime. Dalle indagini sul Machiavelli il N. fu condotto a studiare la politica di Leone X, sulla quale pubblicò un volume (Leone X e la sua politica, Firenze 1892), nel quale giunge al risultato: “che il filo conduttore attraverso il labirinto della politica di Leone X, si deve, più che alle preoccupazioni degl’interessi personali e di famiglia, alla inquietudine di pericoli di ogni genere, che ai principi del sec. XVI minacciavano la Chiesa di Roma”. Tesi originale, che trovò oppositori in G. De Leva, in H. Baumgarten e in V. Cian, ai quali il N. rispose nell’introduzione alla sua memoria:Documenti ed osservazio1n riguardanti la politica di Leone X (Arch. della Soc.rom. d. st. pat., XVI, 1893). Notevolissima altresì una recensione del secondo vol. dell’opera di L. v. Pastor (Arch., cit., XV, 1892), nella quale il N., criticando lo storico tedesco, delineò magistralmente le figure politiche di Pio II, Paolo II e Sisto IV; e una nota presentata al congresso storico internazionale di Roma del 1903, pubbl. negli Atti di esso e in La critica, II, 258-61, e trattante la questione: fino a qual punto nel ritrarre un periodo storico, si possano mettere in rilievo gl’inizî di movimenti che non divennero coscienti e importanti se non in periodi successivi, senza turbare la verità storica con l’introdurvi l’immagine anticipata di una realtà posteriore.
PANE, Roberto
Storico dell’architettura, nato a Taranto il 23 novembre 1897, morto a Napoli il 29 luglio 1987. Si applicò sin da giovanissimo al disegno e all’incisione (nel 1912 frequentò a Napoli lo studio dello scultore V. Gemito), attività che avrebbe proseguito e accompagnato con un’ampia documentazione fotografica di architetture e complessi ambientali, non solo italiani. Nel 1919 s’iscrisse al neo Istituto superiore di architettura di Roma, dove fu tra i primi laureati di quella scuola nel 1924. Professore ordinario di Storia dell’architettura dal 1942, fu chiamato dalla facoltà di Architettura di Napoli, dove svolse una lunga attività d’insegnamento, rivolta anche ai problemi della conservazione e del restauro. Nel 1949 fu chiamato come esperto di restauro architettonico presso l’UNESCO e nello stesso tempo fece parte della commissione tecnica dell’Istituto centrale del restauro. Fu anche membro del Consiglio superiore del ministero dei Lavori pubblici. Fondò e diresse dal 1961 la terza serie della rivista Napoli Nobilissima, già diretta da Croce, dove numerosissimi sono i suoi interventi, spesso polemici.
Seguendo l’estetica di Croce, P. introdusse nella storia dell’architettura il metodo storico-critico, abbandonando le posizioni di G. Giovannoni, che gli era stato maestro a Roma, sin dalla pubblicazione di Architettura del Rinascimento in Napoli(1937) e di Architettura dell’età barocca in Napoli (1939). P. si pose pertanto come figura centrale, nell’ambito degli studi italiani sull’architettura, di una concezione neo-idealista che avrebbe più tardi aggiornato avvicinandosi al sociologismo della scuola di Francoforte e ai portati della psicologia junghiana, tenendo anche conto delle tematiche interdisciplinari delle scienze umane. Alle biografie dedicate aPalladio (1948 e 1961), Bernini architetto (1953), Ferdinando Fuga (1956) eAntonio Gaudì (1964 e 1982), si affiancano da un lato efficacissime letture delle architetture ”senza autore” in Capri (1954) e ne I mausolei romani in Campania(1957, in collaborazione con A. de Franciscis), e dall’altro il grande quadro d’insieme de Il Rinascimento nell’Italia meridionale (i-ii, 1975-77), dove l’indagine si estende a tutta la cultura artistica del tempo e alle fonti letterarie. Altra componente fondamentale dei suoi studi si rivolge a favore della conservazione e del restauro dell’architettura, comprese quella ”minore” e rurale, come dimostra uno dei suoi primi studi sull’Architettura rurale campana (1936), e come ebbe modo di sostenere con la successiva introduzione del concetto di ”letteratura architettonica” sulla scorta della distinzione tra poesia e letteratura teorizzata da Croce. Ciò gli permise di definire e rivendicare i valori dell’edilizia dei centri antichi e di esigerne la conservazione insieme ai monumenti, estendendo tali principi all’ambiente naturale. A tale definizione P. sarebbe rimasto fedele nel tempo, mentre avrebbe sviluppato anche in chiave psicologica i principi del ”restauro critico”, da lui per primo definiti negli anni della ricostruzione post-bellica. Le sue proposte in tal senso sono contenute in numerosissimi scritti, tra i quali ricordiamo Architettura e arti figurative (1948), Città antiche edilizia nuova (1959) e Attualità e dialettica del restauro (1987). Alcune di esse trovarono accoglimento nella Charte de Venise(1964) del restauro.
ANDRONICO, Lucio Livio (L. Livius Andronīcus). – Da Taranto condotto schiavo a Roma nel 272 entrò, come litterator, nella casa di un Livio da cui fu affrancato. Il prenome T (Titus), dato da alcune fonti, è dovuto a scambio con il prenome dello storico patavino. Che il patrono sia stato un Livio Salinatore risulta da S. Girolamo sotto l’anno 1830 da Abramo, cioè 187 a. C. (p. 137 Helm); ma ad identificarlo con il vincitore di Sena Gallica, oltre alla difficoltà del prenome L e non M – difficoltà non insormontabile, poiché un liberto poteva talora assumere un prenome diverso da quello del patrono – si oppone la cronologia. M. Livio Salinatore, console la prima volta nel 219 e la seconda nel 207, difficilmente avrebbe potuto essere il padrone dello schiavo giunto a Roma, sia pure in giovane età, nel 272. Le fonti antiche (Accio?) hanno forse confuso M. Livio Salinatore, console nel 207 (anno in cui si cantò il partenio di A.) con il patrono del poeta. Per i modesti bisogni della sua scuola, A. volse nell'”orrido” saturnio gli episodî più interessanti dell’Odissea: opera rozza, ma importantissima come primo tentativo di schiudere ai Romani la bellezza dei capolavori greci. Nel 240 (cfr. Cic., Brut., 18, 72), A. rappresentò rifacimenti d’una tragedia e di una commedia greca (cfr. Cassiod., Chron., p. 128 Mommsen), adattando alla lingua latina i metri ellenici. Accio riferiva al 197 questa prima rappresentazione, con evidente errore combattuto validamente da Cicerone (loc.cit.). La struttura del dramma latino, costituito da diverbia e cantica, presenta divergenze sensibilissime in confronto con la tecnica greca, e non è da escludere l’influenza etrusca. Dall’Etruria venivano gl’istrioni (cfr. Vollmer, Römische Metrik, nell’Einleitung in die Altertumswissenschaft di Gercke e Norden, 3ª ed., I, 8, p. 2). L’aneddoto che Livio, nel recitare un suo dramma, abbia perso la voce e si sia fatto sostituire nel canto da un giovanetto riducendosi alla mimica, è un mito etiologico per spiegare un uso che era generalmente seguito nel teatro latino (cfr. Liv., VII, 2, 8). Delle tragedie si hanno nove titoli: Achilles, Aiax Mastigophorus, Equos Troianus, Aegisthus, Hermiona, Andromeda, Danae, Ino, Tereus; delle commedie tre: Gladiolus, Ludius, Verpus (?). Nel 207, dopo spaventosi prodigi, un coro di ventisette fanciulle cantò, per ordine dei pontefici, un partenio in onore di Giunone Regina, composto dal nostro A. (cfr. Liv., XXVII, 37, 7). Gli eventi da quel giorno volsero propizî, e i Romani, per riconoscenza verso il poeta i cui versi avevano placato le divinità corrucciate, istituirono il “collegio degli scrittori e degli istrioni” nel tempio di Minerva sull’Aventino (cfr. Fest., p. 446, 29 Lindsay). Che Livio nei ludi tarentini del 249 abbia composto un carme in onore di Proserpina è arguta, ma non dimostrabile ipotesi del Cichorius (Römische Studien, Lipsia 1922, p. 1. segg.). Secondo il Cichorius stesso (ibid., p. 7), la morte di A. cadrebbe tra il 207 e il 200. Infatti nel 200 fu cantato solennemente un carme espiatorio di P. Licinio Tegula. Ma l’onore di comporre il carme, dice il Cichorius, sarebbe certo toccato a Livio A., se fosse stato ancora in vita: argomento che è ben lungi dall’essere perentorio.
BARONI, Eugenio. – Scultore, nato a Taranto da genitori lombardi il 27 marzo 1888; morto il 25 giugno 1935 a Genova dove era cresciuto all’arte e aveva vissuto. Avviato agli studî di ingegneria, li lasciò per la scultura, seguendo dapprima l’insegnamento dello Scansi che veniva dalla scuola del Vela e del Monteverde. Divenne poi amico e ammiratore del Bistolfi. Prese parte come ufficiale mitragliere alla guerra mondiale dove fu ferito e molte volte decorato. Fu membro del Salon d’Automne di Parigi. Suo primo monumento è quello all’esploratore Giacomo Bove in Acqui; ma solo quello commemorativo dei Mille a Quarto (1911) gli diede larga rinomanza. Riluttando al verismo, nel quale era stato educato, egli tenderà sempre più verso una sorta di espressionismo di intenti drammatici ed eroici, attraverso composizioni non di rado stravaganti o macchinose, e con i mezzi d’un riassunto plastico alquanto rude e schematico, e, alternamente (in mezzo a tracce veristiche), a sfondo psicologico e decorativo. Il bozzetto per il Monumento ossario al fante – monumento non più eseguito – fu premiato con altri cinque rimasti all’ultima gara del concorso, e si trova oggi nel museo del Castello del Buon Consiglio a Trento.
Altre sue opere d’impegno, il Monumento a Chavez, affidatogli dal governo peruviano, e il Monumento al duca d’Aosta in Torino. Scolpì alcune delle statue ornamentali del Foro Mussolini, L’Alpe, La vetta, La vela, La caccia, ecc.; s0no sue la Statua del Camalo del porto di Genova, e la tomba dei Doria (1915) nel sepolcreto di S. Fruttuoso. Noto anche come medaglista.
LACLOS, Pierre-Ambroise-François Choderlos de. – Scrittore francese, nato ad Amiens il 18 ottobre 1741, morto a Taranto il 5 settembre 1803. Di famiglia recentemente nobilitata, si diede alla carriera militare e divenne un eccellente ufficiale d’artiglieria; ma il successo scandalistico d’un suo romanzo, Les liaisons dangereuses (1782), lo mise in cattiva luce presso i superiori. Ammogliatosi nel 1786, nel 1788 chiese d’essere esonerato dal servizio attivo e divenne segretario di Filippo d’Orléans, alla cui tenebrosa politica contro il ramo primogenito dei Borboni collaborò efficacemente. Membro del club dei giacobini, difese la monarchia costituzionale nel Journal des Amis de la Constitution; ma i tempi gli consigliarono di passare alla causa repubblicana, e con Brissot egli preparò quella petizione a favore della repubblica che condusse alla cruenta repressione della dimostrazione giacobina allo Champ-de-Mars (17 luglio 1791). Nell’ottobre del 1792 ottenne di rientrare nell’esercito col grado di generale di brigata di fanteria. Coinvolto nella rovina di Filippo d’Orléans, fu due volte imprigionato. Nel 1799 gli fu restituito il grado di generale e nel 1800 Napoleone gli concesse di rientrare nell’artiglieria. Questa reintegrazione permise a L. di partecipare alle campagne del Reno e d’Italia.
Come scrittore militare e politico, come saggista e come autore di poesie d’occasione sarebbe oggi dimenticato se non avesse scritto Les liaisons dangereuses, romanzo epistolare che pretende essere un quadro di costumi della nobiltà e dell’alta borghesia francese alla vigilia della Rivoluzione. Le fila dell’azione si raccolgono intorno a due personaggi principali: il visconte di Valmont, che con la sua perfetta tecnica di seduttore vince le lunghe resistenze di un’anima pura e ardente di pietà (madame de Tourvel), e deprava una ragazza ingenua appena uscita di collegio (Cécile de Volanges); e la marchesa di Merteuil che, per spirito di vendetta e per la voluttà di calpestare la virtù altrui, si fa l’instancabile istigatrice di Valmont nelle due opere di seduzione condotte parallelamente, e poi, compiuto il duplice misfatto, gli nega il prezzo pattuito, la dedizione di sé. La triste vicenda si chiude con la esemplare punizione dei due colpevoli; ma è una conclusione posticcia, o almeno non artisticamente condotta ed elaborata. Se per alcuni aspetti Les liaisons dangereusesrientrano nella letteratura libertina del Settecento francese, per altri invece si ricollegano alla grande tradizione psicologica del secolo precedente, e più d’un critico, a cominciare da Baudelaire, ha potuto nominare, e non invano, Racine, ma L. è un Racine spregiudicato, al di là o al di qua dalla morale cristiana, e in questo appartiene di pieno diritto al suo secolo. Les liaisons dangereuses non sono peraltro un breviario di machiavellismo erotico, anche se la lucida ebbrezza del seduttore vi esalti sé stessa, ma una potente analisi di passioni crudeli entro il quadro d’un giuoco serrato, la cui posta, anche se non tutti i personaggi se ne rendano conto, è la vita. Questo libro ebbe notevole efficacia su alcuni scrittori dell’Ottocento: basti ricordare Stendhal, che ne umanizzò e romantizzò il machiavellismo, e Baudelaire, che ne lumeggiò l’aspetto, com’egli diceva, satanico.
Opere: Les liaisons dangereuses, Parigi 1782. Altre venti edizioni si susseguono fino al 1796; dieci nel sec. XIX, dal 1811 al 1894; diciassette nel nostro secolo, di cui una a Spoleto nel 1926, conforme all’edizione originale; due a Parigi nel 1932 (quella critica di M. Allem e quella con prefaz. di J. Giraudoux). De l’éducation des femmes, Parigi 1903; Lettres inédites, Parigi 1904; Essai sur l’éducation des femmes, nellaRevue bleue, 23 maggio 1908.
MASSARI, Giuseppe. – Uomo politico e scrittore, nato a Taranto l’11 agosto 1821, morto a Roma il 13 marzo 1884. Terminati gli studî letterarî e filosofici nel seminario di Avellino, fu mandato, appena quattordicenne, a Napoli ove si dedicò a studî di medicina, che poi trascurò per quelli delle lettere. Fino d’allora, frequentando la casa dell’abate Monticelli, si sentì infiammato a sensi di libertà, anzi sembra che s’iscrivesse alla setta della Giovine Italia, fondata dal calabrese Benedetto Musolino, che aveva il nome e in parte i principî dell’associazione mazziniana. Il 10 settembre 1838 il M. s’imbarcò da Napoli per Marsiglia, per imposizione del padre. Il M. da Marsiglia, si recò subito a Parigi, dove, non ancora diciottenne, seppe in breve familiarizzarsi con gli esuli italiani che l’avevano preceduto, frequentando specialmente la casa di Guglielmo Pepe. Conobbe G. Berchet, gli Arconati, con i quali, specialmente con la marchesa Costanza, ebbe lunga corrispondenza epistolare, T. Mamiani, G. Libri, M. Amari, F. Confalonieri, ecc. Fu pure protetto dalla principessa C. Belgioioso. Relazione dapprima epistolare, poi personale, strinse con il Gioberti, esule a Bruxelles, a cui scrisse fin dal novembre del 1838, testimoniando l’ammirazione per lui con due articoli inviati nel 1841 alProgresso di Napoli intorno all’Introduzione allo studio della filosofia del filosofo torinese. Il 23 dicembre 1843 il M. lasciò Parigi e venne in Italia, sperando di poter prendere dimora in Toscana; ma dopo breve soggiorno a Torino, dove non fu disturbato, recatosi a Milano, fu dalla polizia austriaca riaccompagnato alla frontiera e costretto a tornare in Francia. Là collaborò (1845) alla Gazzetta Italiana della Belgioioso, e visse fino al 1846, quando, accettato l’invito dell’editore G. Pomba, andò a Torino a dirigervi il Mondo Illustrato. Disgustato del modo come si svolgevano le vicende politiche nel Piemonte, alla fine del 1847 passò in Toscana, e collaborò alla Patria di V. Salvagnoli, quindi, nell’aprile del 1848, a Milano, dove rivide il Gioberti e gli fu compagno nel trionfale viaggio a Roma, in Toscana, nell’Emilia, a Genova. Nel frattempo era stato eletto deputato di Bari (15 aprile) al parlamento napoletano; e nonostante fosse stato assente durante i torbidi del 15 maggio, fu condannato più tardi (1853) a morte in contumacia, come uno dei capi del moto popolare. Andò a Napoli e fu presente il 30 giugno all’inaugurazione del parlamento, facendo parte dell’opposizione al ministero di F. P. Bozzelli, e più tardi, specialmente nella seduta del 3 agosto, ebbe fiere parole per la diserzione del governo borbonico durante la guerra dell’indipendenza. Nell’ottobre fu di nuovo a Torino per partecipare al congresso per la federazione italiana bandito dal Gioberti; poi, riconvocato il parlamento napoletano, tornò a Napoli (febbraio 1849), ma ne ripartì per sfuggire al pericolo di essere arrestato il 26 aprile. A Torino aiutò il Gioberti nella compilazione del Saggiatore, quindi fu collaboratore della Gazzetta Ufficiale, di cui, nel 1856, assunse la direzione; e scrisse pure articoli e corrispondenze per il Cimento, la Rivista Contemporanm, e l’Indépendance Belge. Stese allora l’opuscolo I casi di Napoli dal principio del 1848 al novembre del 1849(Torino 1849), che furono come di proemio alle celebri lettere del Gladstone, da lui tradotte (Il sig. Gladstone e il governo napoletano, Torino 1851). Caldissimo difensore della politica di Carlo Alberto, e più ancora, di quella del Gioberti e più tardi di quella del conte di Cavour, che gli affidò delicate missioni segrete; in continua relazione con diplomatici e uomini politici italiani e stranieri, il M. ebbe parte, dopo il 1859, negli eventi che precedettero le annessioni dell’Emilia e della Toscana. Il 10 maggio 1860 fu eletto deputato al parlamento subalpino per il collegio di Borgo San Donnino, e alla camera sedette, a eccezione della XIII, dalla VII alla XV legislatura, militando sempre nelle file del partito moderato.
Della sua grande devozione per il Gioberti sono prova le Operette politiche, leOpere postume, infine i Ricordi biografici e il Carteggio del filosofo torinese, che vennero a luce per opera sua tra il 1860 e il 1862, e il Carteggio tenuto con lui dal 1838 al 1852, raccolto da G. Balsamo Crivelli (Torino 1921). Scrisse pure: Ricordi biografici del conte di Cavour, Torino 1872; La vita e il regno di Vittorio Emanuele II, Milano 1878; Vita del generale, Alfonso La Marmora, Firenze 1880. Del suoDiario 1858–Óo sitll’azone politica di Cavour, assai infelicemente pubblicato da G. Beltrani (Bologna 1931), si desidera una nuova edizione condotta sull’autografo; e così pure delle Lettere alla marchesa Arconati Visconti.
PAISIELLO, Giovanni. – Musicista, nato a Taranto nel 1740, morto a Napoli nel 1816. “Figliolo” nel Conservatorio di S. Onofrio a Napoli, fu discepolo per un anno di F. Durante (morto nel 1785), poi di C. Cotumacci e di G. Abos. Uscito nel ’63 dal Conservatorio, già godendo buon nome, fu chiamato a Bologna da don Giuseppe Carafa, principe di Colubrano, impresario del Marsigli-Rossi. La sua prima opera, 12 maggio ’64, Il ciarlone, piacque. Deluso dell’insuccesso dei Francesi brillanti, 24 giugno ’64, lasciò Bologna. Il Carafa lo raccomandò alla corte di Modena, la quale fece rappresentare I Francesi, quattordici giorni dopo la caduta a Bologna, e li applaudì. L’impresario del teatro Rangoni scritturò P., che rimase a Modena otto mesi, componendovi Madama l’Umorista, il Demetrio e qualche pezzo per varie occasioni. Parma e Venezia gli richiesero alcune opere. Ritornato a Napoli, ottenne nel ’67 un grande successo con l’Idolo cinese. Colà attese a nuove opere (fra cui ilSocrate immaginario) e a rifacimenti fino al ’76, allorché accolse il lusinghiero invito della corte russa. A Pietroburgo compose, fra l’altro, Il barbiere di Siviglia (1782), concerti, sonate, capricci. Graditissimo a Caterina II, incaricato di molti uffici, provò la rudezza di alcuni funzionarî, e chiese il congedo dopo otto anni di servizio. Ritornato a Napoli, si fermò a Vienna, dove, per invito di Giuseppe II, compose il Re Teodoro, su libretto del Casti. Maestro di cappella e compositore della corte partenopea, compose La bella Molinara, 1788, e Nina, la pazza per amore, 1789, che ottenne un grande e duraturo successo. Dopo il 1790 coltivò specialmente l’opera seria, su libretti di R. de’ Calzabigi e Pepoli. Scoppiata la rivoluzione del 1799, gli si fece colpa di aver abbandonato la corte e simpatizzato per la repubblica. Riottenuta la grazia dal sovrano, accettò l’invito di Napoleone, nel 1802; a Parigi compose Proserpina, tiepidamente accolta. Richiamato a Napoli, riprese servizio a corte, ottenendo anche altri uffici. Non seguì il Borbone in Sicilia, e, al ritorno della corte, nel 1815, fu punito con la perdita di quasi tutte le cariche.
Al pari di altri contemporanei sentì convenzionalmente la tragedia, e neppure partecipò alle competizioni per i nuovi ideali melodrammatici. E però il suo contributo al teatro serio è secondario. Nel genere comico, invece, cominciò col brillare in commedie di mediocre gusto, ne toccò accortamente tutte le tendenze, pervenne a un’espressione che prima di lui non era mai stata altrettanto elevata, poetica, bellamente definita. E nell’opera comica ebbe agio di sperimentare le più diverse forme dei pezzi tradizionali, di progredire con i suoi tempi o d’innovare. Non si scorge pertanto una decisa scelta di alcuni mezzi e l’eliminazione di altri, sicché una tale rassegna non può essere condotta cronologicamente.
Le sinfonie in tre movimenti spesseggiano nelle opere giovanili, quelle in uno, invece, nelle posteriori. Nelle prime l’allegro iniziale è sobriamente sonatistico; il tema è povero, manca sovente il secondo. Non vi è svolgimento. Talvolta il terzo tempo si riannoda al primo. In altri casi la sinfonia è collegata con la prima scena (Idolo cinese, Credulo deluso). Nelle ultime opere la sinfonia appare notevolmente estesa, vivace nelle linee, gustosa nello strumentale (Nina). E la funzione orchestrale, sia nelle sinfonie, sia nel corso delle opere, è affidata non solo agli archi, spesso divisi e liberamente alternati alle trombe e ai corni, ma anche ai legni, fra i quali P. predilesse il clarinetto, spesso congiunto col fagotto.
Alla sinfonia segue, come usava, l’introduzione, per lo più in un solo movimento, rondò o canzone, cui partecipano tre o più personaggi, talvolta anche il coro (è il primo Insieme). Fra i pezzi solistici l’aria appare in tutti gli usati schemi, a due, a tre e quattro parti; prediletta la forma del rondò, brillantemente variato, e quella della canzone, spesso incantevole nel gusto elegantemente popolaresco. Frequente l’aria bipartita (Andante-allegro o Allegro-andante). Altri pezzi complessi: l’insieme e il finale. L’insieme paisielliano è talvolta omofonico, talaltra a imitazione; polifonia elementare e di ottima scuola. Ma l’interesse drammatico ne è sovente escluso. I personaggi, siano stati o no delineati, vengono accomunati senza alcuna considerazione della loro condizione. Il motivo principale è talvolta consono alla situazione scenica. Non mancano saggi squisiti d’una viva intuizione dell’insieme, allorché la scelta dei motivi e la disposizione delle voci avvivano il contrasto delle parti serie e delle comiche, delle persone liete e delle tristi, sì che ciascun personaggio sembra recare un accento particolare. E abbiamo così ricordato che la tradizionale distinzione delle parti serie (personaggi aristocratici, stile da melodramma) e delle comiche è presente in molte opere paisielliane. Pezzi anche più complessi, i finali appaiono o come successione di otto, dieci episodî scenici (arie, canzoni, recitativi accompagnati), collegati più dalla costante tonalità che dalla necessità dello svolgimento drammatico, o come una compatta composizione unitaria, anche in forma di rondò, nella quale gli episodî, anziché restare indipendenti, vengono improntati da uno stile solo, sì che la loro contiguità è implicitamente svolgimento e indica il travaglio non solo tecnico ma anche drammatico del compositore. Così il Paisiello seguiva, senza però avanzarlo, il Piccinni.
In quanto alle facoltà espressive, agli accenti caratteristici, Paisiello ebbe ricca la vena dell’ironia e quella del patetico. E l’una era capace di compiaciuta corrosività popolaresca, mirante specialmente allo spasso, e anche di arguzia sottilmente aristocratica; l’altra di interpretazioni squisite e toccanti, e sempre nobili, mirante alla commozione. Si può insistere su tali caratteri antitetici del popolaresco e dell’aristocratico, sia perché la commedia rifletteva il distacco delle classi sociali, e la consuetudine teatrale classificava comiche anche le persone tristi, se di nascita plebea, sia perché l’accento napoletano e meridionale dell’ironia è particolarmente caricaturale, agile, fantasioso, immaginoso, e punge, scotta, frusta, contento dell’improvvisazione che colga nel segno e precisi il rilievo dell’osservazione. Paisiello riuscì eccellentemente in tutti i casi, dall’imitazione quasi realistica dell’oggetto comico, col mezzo di strumenti popolareschi, di ritmi e di assonanze popolaresche, e dalla rappresentazione allegorica nella parodia, col rifacimento di motti musicali divenuti celebri, di effetti ritmici e coloristici d’un presunto esotismo, alla liricità del patetico, dalla serena tenerezza all’affanno. Ma il popolaresco, in quanto stile, non è poi limitato alle rappresentazioni popolaresche e gaie; anche le più flebili e nobili melodie sono paesane. Si potrebbe dirle dialettali, o pensate in dialetto e tradotte in italiano. Per ciò P. fu realmente uno stilista, rimasto incontaminato, si può aggiungere, da contatti stranieri e da studiose ricerche d’altri stili. E come tale, e come fecondo inventore di espressioni e di formule incisive, fu più volte esemplato da Mozart, come H. Abert ha documentato. Infine le sue molte facoltà e il dominio dei mezzi determinavano, laddove il libretto lo consentiva, la nitida caratterizzazione e quindi la vita drammatica. Nel Socrate immaginario (ironia, parodia, buffoneria attorno a don Tammaro, che s’illude d’esser filosofo della più alta levatura e viene beffato dai familiari esasperati, tenerezza e compatimento per le donne in casa), nella Bella molinara (dove il carattere rusticano è squisitamente ingentilito e la psicologia appare già attivamente perspicace), nella Nina (idillio, elegia, che nella delicata, poetica serenità di alcuni primordiali accenti reca il contrasto con i dolori, le angoscie, onde la psicologia della protagonista è ricca), la caratterizzazione sentimentale di parecchi personaggi appare incisiva. Tale caratterizzazione è il segno di un dinamismo interiore. Gli elementi psicologici, nel senso romantico, benché realizzati nella espressione più che nel congegno della compoosizione, nell’aria più che negli insieme, sono dunque già percepibili nelle più poetiche pagine di P.
P. coltivò, come i suoi contemporanei, e abbondantemente anche, la musica per chiesa e da camera. Per questa compose sonate e altri pezzi né geniali nell’invenzione, né nuovi nella forma. Per quella usò lo stile a cappella e quello concertante. Le maniere palestriniane, note ai maestri napoletani forti nel contrappunto, ma ormai prive del loro intimo ideale drammatico, venivano da essi in parte continuate scolasticamente, in parte ritemprate nella nuova sensibilità e con i nuovi mezzi tecnici. Ne risultarono composizioni ibride, alternanti antichità e modernità, ora nel corso dell’opera, ora, anche, in seno ai singoli pezzi. P. riuscì a una certa compenetrazione delle due maniere. Sembra che il testo lo abbia talvolta preoccupato, inducendolo a espressioni drammatiche, affidate non solo alle melodie, ma anche all’armonia, all’orchestra. Quando il rifacimento dell’antico non frenava la sua personale vena, la vigoria della rappresentazione riusciva notevole. Ciò si riscontra nella Missa pro defunctis, in do maggiore, per 8 voci e orchestra, nel confronto con la Messa per doppio coro in fa maggiore. Ammise gli elementi tecnici del “bel canto” e spesso li tramutò di decorativi in espressivi.
TARENTINO, Cardinal. – Così detto dal nome del suo arcivescovato di Taranto, tenuto dal 1421 al 1444. Era Giovanni Berardi, discendente dai conti dei Marsi, signori di Tagliacozzo dove il Berardi nacque, forse, nel 1380. Gli fu attribuito anche il cognome dei De Pontibus, successori dei Berardi e perfino quello degli Orsini. Fu ritenuto napoletano e chiamato Giovanni Tagliacozzo e Giovanni di Tagliacozzo. Fu al concilio di Basilea dal 1432 al 1437. Per aver convalidato il trasferimento del concilio, voluto dalla minoranza, fu imprigionato; ma, riuscito a fuggire, fece confermare dal papa il trasferimento a Ferrara, mentre la maggioranza rimasta a Basilea, deponeva Eugenio nel 1439 ed eleggeva l’antipapa Felice V. Creato cardinale da Eugenio IV (18 dicembre 1439), il 26 marzo del 1440, reduce dalla Germania, si recò a Firenze, nuova sede del concilio e dove si trovava il pontefice, e fu nominato legato per trattare la pace fra Renato d’Angiò e Alfonso d’Aragona. Ritornò a Firenze da Napoli il 25 dicembre 1441. Rientrato a Roma col papa il 28 settembre 1443, fu nominato camerario del Sacro Collegio; il 7 marzo 1444, fu promosso cardinale vescovo e trasferito da Taranto a Palestrina. Fu penitenziere maggiore. Morì in Roma il 21 gennaio 1449 e fu sepolto in S. Agostino.
DELBALZO, Iacopo. – Nipote di Luigi di Taranto, che fu il secondo marito di Giovanna I, riconosciuto come “il primo signore del Regno”. Ereditò, per parte del nonno Filippo, genero dell’imperatrice Caterina di Courtenay (morta nel 1345), e degli zii, premortigli insieme con la madre, i titoli di principe d’Acaia, despota di Romania, signore d’Albania e imperatore di Costantinopoli.
Nel 1373, colta occasione dalla ribellione del padre, guerreggiò contro Giovanna nella Penisola Balcanica, sotto le mura di Taranto e nella Calabria. Ma il successore di Giovanna, Carlo III, finì col pacificarsi con lui dandogli in moglie la cugina Agnese di Durazzo, vedova di Can Grande della Scala. E, restituitagli Taranto, gli concesse anche l’isola di Corfù (settembre 1382). Ma Iacopo morì il 21 settembre 1384, nominando erede il cugino in terzo grado Luigi d’Angiò, duca di Calabria, adottato da Giovanna I e allora in guerra con Carlo di Durazzo.
DONNOLO, Shabbĕtay. – Fu uno dei primi, se non il primo, tra gli ebrei che scrissero di argomenti scientifici in Europa. Nacque a Oria nel 913 o poco dopo; catturato dai Saraceni nel 925, fu riscattato dodicenne in Taranto. Dapprima visse di lavoro manuale, studiando medicina, astronomia e astrologia; poi esercitò la medicina in Calabria, e fu chiamato a curare Euprassio, luogotenente bizantino in Calabria. Fu in relazione con S. Nilo il giovane, nativo di Rossano in Calabria. Viaggiò molto per approfondirsi nelle scienze a cui si era dedicato. Nel 982 era ancora in vita. Scrisse in ebraico: 1. un commento al Sēfer Yĕṣīrāh (Libro della Creazione) col titolo Ḥakmünī (I Chr., XI, 11; XXVII, 32) o Taḥkĕmünī (II Sam., XXIII, 8), ossia Il Sapiente; 2. un’opera farmacologica, di cui ci è pervenuto solo un frammento o un insieme di frammenti; 3. un commento alla Bāraytā astronomica di Shĕmū’ēl, perduto. Altri libri gli sono attribuiti falsamente, o si debbono identificare col commento al Sēfer Yĕṣīrāh o con parti di esso.
CALDERINI, Aristide. – Papirologo ed epigrafista, nato a Taranto il 18 ottobre 1883, allievo di Attilio De Marchi nella R. Accademia scientifico-letteraria di Milano ove si laureò nel 1906; dal 1924 professore di antichità classiche nell’Università cattolica di Milano. Ha creato presso la sua università un’attiva scuola di studî papirologici e ha dato impulso alle ricerche archeologiche su Aquileia. Ha fondato e dirige le riviste Aegyptus (Milano, 1920 sgg.) ed Epigraphica (Milano, 1939 sgg.).
Tra le opere del C., in svariati campi dell’antichità classica, si segnalano le seguenti: La manomissione e la condizione dei liberti in Grecia, Milano 1908; La composizione della famiglia secondo le schede del censimento nell’Egitto greco-romano, Milano 1923; Θησαυροί. Ricerche di topografia e di storia della pubblica amministrazione nell’Egitto greco-romano, Milano 1924; Aquileia romana, Milano 1930; e I Severi. La crisi dell’Impero nel III secolo, Roma 1949 (VII vol. della Storia di Roma dell’Istituto di studi romani). Buon avviamento a singole discipline sono: Papyri. Guida allo studio della papirologia antica greca e romana, 2ª ed., Milano 1944; Le fonti per la storia antica greca e romana, 2ª ed., Milano 1951.
DUQUE DEESTRADA, Diego. – Scrittore spagnolo, nato forse a Toledo verso il 1593, morto a Taranto il 13 febbraio 1649. Arruolatosi a Napoli nel 1614, correva le terre d’Italia, e dopo una vita irrequieta entrava, nel 1639, nell’ordine di S. Giovanni di Dio.
Nel convento di Cagliari completava le sue memorie: Comentarios de el desengañado de sí mismo. L’opera, che attraverso la narrazione autobiografica mirava a dimostrare l’eccellenza della vita monastica su quella mondana, si tramuta nella vivace immaginazione dello scrittore in una narrazione romanzesca. Ma se la realtà è mistificata e i dati di fatto sono spesso invnentati, queste memorie tuttavia rimangono un documento caratteristico della società spagnola e italiana del sec. XVlI, e portano un’originale impronta stilistica. Nulla ci è giunto dell’attività poetica e teatrale di cui si fa vanto l’autore, eccetto un opuscoletto di Octavas rimas a la victoria… conseguida por el Marques de Santa Cruz (Messina 1624). Per iComentarios, v. l’ediz. a cura di P. de Gayangos, in Memorial histórico español, vol. XII, Madrid 1860, e quella di M. Serrano y Sanz, Autobiografías y memorias, inNueva Bibl. de Aut. Esp., II, Madrid 1905.
CASSANO, Cataldo. – Medico, nato a Taranto il 1° giugno 1902; dal 1937 prof. di patologia medica nell’univ. di Pisa, dove dal 1949 passò alla cattedra di clinica medica generale e terapia medica; dal 1956 è prof. di patologia speciale medica e metodologia clinica nell’univ. di Roma. È presidente della Società italiana di endocrinologia.
La sua attività scientifica riguarda molteplici argomenti: ematologia (studî sugli itteri emolitici), patologia renale (ricerche sulle sindromi nefrosiche), epatologia (indagini sui postumi della epatite da virus), ecc.; ma particolare risonanza hanno avuto i suoi studî nel campo delle malattie metaboliche (magrezza, obesità, diabete) ed endocrine (tireopatie, sindromi ipofisarie, ecc.), dove ha fornito, con la sua scuola, contributi originali. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Il problema fisiopatogenetico delle ipertireosi (con L. Baschieri), in Recenti progressi in medicina, XXIII (1957), n. 6, pp. 537-570; Danni postumi e sequele evolutive della virus–epatite, in La riforma medica, 1956, fasc. n. 6; A study on 48 cases of simple goitre with a high renal clearance for iodide (in collaboraz.) comunicazione al IV congresso mondiale sul gozzo, Londra 1960.
FRANCESCO Di Geronimo, Santo. – Nato il 17 dicembre 1642 a Grottaglie (Taranto), morto a Napoli l’11 maggio 1716. Sacerdote e prefetto nel Collegio dei nobili a Napoli, entrò novizio fra i gesuiti il 1° luglio 1670. Dopo un anno fu mandato a Lecce compagno del missionario Agnello Bruno, e ivi fece le sue prime prove oratorie, finché nel 1674, richiamato a Napoli, terminò gli studî di teologia, per passare l’anno seguente al Gesù Nuovo. Nel 1678 gli venne affidata dai superiori l’intera cura delle missioni nel regno di Napoli, e in tale carica rimase fino alla morte. Pio VII lo beatificò nel 1806; Gregorio XVI lo canonizzò il 26 maggio 1839. La sua festa si celebra l’11 maggio.
Restano di lui alcune Brevi notizie sulle cose principali occorsegli nelle missioni, pubblicate da G. Boero, S. Francesco di Girolamo e le sue missioni, dentro e fuori di Napoli, Firenze 1882, pp. 67-181, un centinaio di lettere e una voluminosa raccolta di abbozzi per prediche conservati negli archivî della Compagnia.
LEONIDA di Alessandria. – Poeta epigrammatico, la cui produzione fu per molto tempo confusa con quella dell’omonimo poeta di Taranto. A lui sono da attribuire una quarantina di epigrammi, i quali si contraddistinguono per un curioso artificio tecnico (di cui L. è considerato inventore o principale rappresentante) consistente in questo: che essi sono in generale, isopsefici, ossia risultano di due distici che hanno il medesimo numero di sillabe. Dagli epigrammi – conservati nell’Antologia Palatina – si deduce che L. fu in origine astrologo e visse in Roma ai tempi di Nerone e di Vespasiano. Celebrò Agrippina e Poppea; giustificò il matricidio di Nerone espresse il suo giubilo per la “salvezza” dell’imperatore.
CLEONIMO (Κλεώνυμος, Cleonãmus). – Principe spartano della casa degli Agiadi, figlio di Cleomene II, fu escluso per il suo carattere violento dalla successione al trono in favore di Areo I (309-8 a. C.); quando Taranto, minacciata dai Lucani e dai Romani, chiese aiuto agli Spartani, questi ben volontieri concessero loro, per liberarsene, C. come duce. Sbarcato a Taranto (309) con 5000 mercenarî laconi, organizzò un esercito di più di 20.000 fanti e 2000 cavalli, e Lucani e Romani vennero allora a patti con Taranto. Egli entrò quindi in Metaponto, forse chiamato in aiuto contro i Lucani, e la trattò duramente. Meditava intanto una spedizione in Sicilia, ma poi improvvisamente occupò Corcira. I Tarentini e le altre città italiote, minacciate da quella occupazione, si staccarono da lui; egli sbarcò allora in Italia, ma non gli riuscì di assoggettarle e tornò a Corcira. Si spinse poi a pirateggiare nell’Adriatico settentrionale, e sbarcò alla foce della Brenta; ma i Padovani sconfissero le sue truppe e danneggiarono la sua flotta avventuratasi nella laguna. Costretto infine a sgomberare anche Corcira, tornò a Sparta, e gli furono affidati dei comandi in varie spedizioni; ma poi (275) per ragioni politiche e private lasciò la città e militò nell’esercito di Pirro, che lo mandò a invadere il Peloponneso promettendogli il trono di Sparta. L’impresa fallì. Dopo la morte di Pirro (272), non abbiamo più notizie di lui; forse morì in esilio.
COSTA, Pasquale Mario. – Musicista, nato a Taranto il 24 luglio 1858, morto a Montecarlo il 27 settembre 1933. Studiò al conservatorio di Napoli, con P. Serrao, con lo zio Carlo Costa e con altri.
È uno dei maggiori rappresentanti della caratteristica canzone napoletana, fiorita nell’ultimo quarto del sec. XIX (Oje Carulì, Men a me, Nannì, Serenatella, ‘A Retirata, ecc.). Scrisse anche liriche da camera, tra cui la nota Serenata medievale. Dotato di bella voce di tenore, fu l’interprete di sé stesso, accendendo veri entusiasmi, specialmente a Londra, dove seguì le orme di F. P. Tosti. Grande popolarità ebbe la sua pantomina Histoire d’un Pierrot (Parigi 1893). Compose inoltre alcune opere ed operette, tra cui Il Capitan Fracassa (Torino 1909) eScugnizza (ivi 1922).
CANDIDA, Luigi. – Geografo, nato a Taranto l’8 marzo 1907. Laureato in scienze diplomatiche e consolari a Ca’ Foscari (Venezia), dal gennaio 1934 al dicembre 1951 è stato assistente alla cattedra di geografia economica, dal dicembre 1951 straordinario della stessa cattedra, dal dicembre 1954 ne è ordinario; è stato rettore (1972-74) dell’università di Venezia. Allievo di L. Ricci e suo successore, ha portato molti contributi, d’impostazione prevalentemente descrittiva, alla geografia economica.
Scritti principali: I Colli Euganei (1950); Il Porto di Venezia (1950); Saline adriatiche (1951); La casa rurale nella pianura e nella collina veneta (1959);Memoria illustrativa della carta dell’utilizzazione del suolo del Veneto (1972).
FAGO, Nicola. – Musicista, nato a Taranto il 19 gennaio 1676, morto a Napoli nel 1745. Lo troviamo nel 1704 al conservatorio di S. Onofrio a Napoli, nel 1709 maestro di cappella al Tesoro di S. Gennaro, posto ch’egli tenne fino al 1731, mentre già dal 1711 era passato da S. Onofrio all’altro conservatorio napoletano della Pietà dei Turchini, ove rimaneva fino al 1740. Questa lunga carriera d’insegnante gli valse l’onore di avere allievi come L. Leo, N. Jommelli e altri insigni musicisti. Valente compositore egli stesso, il F. fu celebre specialmente per la sua produzione religiosa:Magnificat, Te Deum, Stabat, per voci e strumenti, un Oratorio (Faraone sommerso), ecc., ma notevole importanza ebbero, nel loro tempo, anche le sue opere teatrali e le cantate.
GUGLIELMOI re di Sicilia. – Nato nel 1120, quarto figlio di Ruggiero II, per le morti successive dei fratelli maggiori divenne prima principe di Taranto e di Bari, poi anche principe di Capua e duca di Napoli, qual’era allorché sposò Margherita di Navarra, e in ultimo duca di Puglia e principe ereditario. Associato al trono paterno l’8 aprile 1151, morto tre anni dopo Ruggiero II, G. fu incoronato re il 4 aprile 1154. Ereditava un regno apparentemente in piena prosperità, ma minacciato fuori dalle pendenze coi due imperi e dentro dall’intolleranza dei baroni e delle città verso il forte accentramento stabilito dal fondatore della monarchia. Né di questo G. possedeva l’attività e l’applicazione agli affari, indolente eom’era di natura e dedito ai godimenti tanto sensuali quanto intellettuali. A torto è passato alla storia col nome di G. il Malo: in verità egli continuò la politica del genitore.
Datosi a cercare alleanze per isolare il Barbarossa, con cui cospiravano i suoi nemici interni, fece sì che i Tedeschi non potessero metter piede nel mezzogiorno d’Italia. Preparava una spedizione contro il dominio pontificio e faceva assediare Benevento, quando scoppiò la ribellione nel regno; i Greci, in rapporto con Adriano IV, coi ribelli e con Genova, ne occupavano la costa adriatica e il papa, percorsa la Campania,s‘istallava a Benevento e anche Sfax insorgeva (1155-56). G., entrato di persona in campagna, domò i ribelli, inflisse ai Greci una grande sconfitta a Brindisi, ridusse il papa a firmare il trattato di Benevento, ottenendone l’investitura, si accordò con Genova. In Africa però la rivolta di Sfax, dilagando fra le altre popolazioni musulmane, prese tali proporzioni da produrre in fine il crollo del dominio siciliano colà (1160). Ma G. se ne compensò, domando nel regno una nuova ribellione, soccorsa da Bisanzio, inviando contro Bisanzio una flotta, che indusse alla pace Manuele Comneno (1158), alleandosi col papa contro il Barbarossa e (se può credersì a un cronista del tempo) ricevendone l’offerta della corona d’Italia. Certo è invece che l’elezione di Alessandro III fu dovuta al re di Sicilia. Grave perdita per lui fu quella del ministro Maione, ucciso da una congiura (10 novembre 1160), che imprigionò anche il re, poi liberato di fronte alla pubblica indignazione. Seguì un’altra insurrezione generale, onde nel 1161 parve in tutto abbattuta la regia autorità. Ma anche questa volta G. trionfò dei nemici interni e poté provvedere ai bisogni di Alessandro III, che coi suoi aiuti poté mettersi in salvo in Francia, ritornare in Italia e ristabilirsi a Roma. Ma questo fu l’ultimo successo di G., che, dopo aver dotato il regno di nuove savie leggi, di sontuosi edifici e di altre opere d’arte, spirò il 7 maggio 1166.
PACUVIO (M. Pacuvius). – Scrittore e pittore latino. Figlio di una sorella di Ennio, nacque a Brindisi l’anno 220 a. C. Fu portato dallo zio a Roma, dove esercitò la pittura e scrisse tragedie. Fu amico e ospite di C. Lelio e quindi, secondo ogni probabilità, appartenne al circolo di Scipione Emiliano. Ancora a ottant’anni fece rappresentare una sua tragedia, ma poco dopo si ritirò a Taranto, dove morì quasi nonagenario. Di P. ci restano dodici titoli di tragedie e più di trecento frammenti, che in tutto formano poco più di quattrocento versi.
Delle tragedie di P. quattro derivano da Sofocle (Chryses, Hermiona Niptra,Teucer), una da Eschilo (Armorum iudicium), una da Euripide (Antiopa): però prevale l’influenza di Euripide, perché le altre sei tragedie sono sviluppi o variazioni di temi euripidei. Difatti il Medus è uno svolgimento ulteriore del mito di Medea, come l’Atalanta di quello di Meleagro, l’Iliona è uno sviluppo laterale dell’Hecuba, laPeriboea e il Dulorestes trattano argomenti euripidei con l’aggiunta di nuovi motivi e di nuovi personaggi, il Pentheus apporta notevoli modificazioni alle Bacchae. Noi non sappiamo se P. stesso elaborò coi suoi mezzi la trama di queste sei tragedie o se seguì modelli post-euripidei. E neanche possiamo paragonare le tragedie tolte da Eschilo, da Sofocle e da Euripide coi loro esemplari, perché questi ci mancano. Però è da credere che P. trattasse con molta libertà i suoi modelli.
P. compose anche una praetexta, Paulus, che celebrava la vittoria riportata a Pidna sul re Perseo da L. Emilio Paolo l’anno 168. Ce ne restano quattro versi. Porfirione e Diomede attestano che scrisse anche satire, cioè poesie miste nello stile di Ennio, ma non ne rimane neanche un frammento.
P. fu molto lodato dagli antichi. Le sue tragedie producevano grande effetto sia per il numero dei personaggi e la complicazione dell’intreccio, sia per la gravità dei pensieri, per la forza dell’espressione e per il contrasto potente dei sentimenti. Esse durarono sulle scene, finché a Roma le tragedie furono rappresentate. Ma fu cattivo scrittore di lingua latina; si nota anche in lui una certa frequenza di allitterazioni, di figure retoriche, di grecismi.
I frammenti di P. si trovano nella raccolta del Ribbeck (Tragicorum romanorum fragnenta, Lipsia 1897, pp. 86 e 325).
Dell’opera pittorica di P. è ricordato soltanto il dipinto che si trovava nel tempio di Ercole nel Foro Boario, d’altronde assai lodato e avvicinato alla pittura del suo predecessore Fabio Pittore. Il tempio di Ercole fu fondato e restaurato con grande splendore da Emilio Paolo, il vincitore di Pidna, ed è probabile che questi stesso ne abbia commesso a P. la decorazione pittorica. Purtroppo non sappiamo nulla né sul soggetto né sullo stile dell’artista.
Bibl.: O. Ribbeck, Die römische Tragödie im Zeitalter der Republik, Lipsia 1875, p. 216; A. Goette, De L. Accio et M. P. veteribus Romanorum poetis tragicis, Rheine 1892.
FLAMININO, Tito Quinzio (T. Quinctius T. f. L. n. Flamininus). – Di gente patrizia, nacque il 229 a. C. Fece le sue prime armi nella guerra annibalica, ed era tribuno dei soldati sotto il console Marcello, quando questi cadde nel 208. Poi fu inviato a Taranto con autorità di propretore nel 205-4. Fu questore, non sappiamo quando, poi senza rivestire né l’edilità, né la pretura, all’età di circa trent’anni, nel 199, si presentò come candidato alle elezioni consolari nel 198, e riuscì eletto nonostante qualche opposizione dei tribuni della plebe. Assunto il consolato, partì immediatamente per la Grecia, dove prese il comando dell’esercito romano che fronteggiava Filippo V di Macedonia ai passi del fiume Aoo nell’odierna Albania. Accordata al nemico una breve tregua, ne profittò per riordinare l’esercito. Respinte le offerte di pace di Filippo, che, riconosciuta ormai la superiorità dei Romani, era pronto a far concessioni larghissime, lo attaccò e lo sbaragliò quasi senza perdite. Di questa vittoria, di alcune piccole azioni guerresche in Focide, di un’azione dimostrativa che fece con l’aiuto del fratello, il propretore Lucio Flaminino, il quale comandava la flotta contro Corinto, profittò per trarre abilmente a sé quasi tutti gli antichi alleati di Filippo, segnatamente l’Epiro, la lega acaica, e la Beozia; sicché unitisi questi agli alleati che Roma già aveva in Grecia, particolarmente cioè gli Etoli, F. era alla testa di una lega che abbracciava, salvo la Tessaglia, quasi tutta la Grecia, quando nel 197 invase la Tessaglia per dare a Filippo il colpo decisivo. La battaglia avvenne nel giugno di quell’anno a Cinoscefale (v.) e fu per i Romani vittoria pienissima dovuta alla loro superiorità tattica e alla geniale manovra ideata da un tribuno militare. Giunto il console a Larissa, Filippo aprì immediatamente trattative con lui, e ottenne la pace rinunziando alla sua flotta da guerra e a tutti i suoi possessi fuori della Macedonia. F. aveva tratto a sé i Greci promettendo loro l’autonomia e mantenne ora la promessa. Alle feste istmie del 196 in nome del senato proclamò solennemente la libertà di tutti i Greci tra gli applausi frenetici di quanti assistevano alle feste. Nel 195 poi, raccolto un sinedrio dei suoi alleati greci per giudicare intorno alla controversia tra gli Achei e Nabide di Sparta, sebbene anche Nabide si fosse dichiarato suo alleato e gli avesse mandato soccorsi in Tessaglia, diede giudizio favorevole agli Achei. Sicché si venne alla guerra contro Nabide. Fu anche questa guerra vittoriosa, sebbene non si venisse a battaglie decisive. Nabide perdette Argo che egli occupava, e dovette cedere agli Achei le città marittime della Laconia. Sarebbe stato possibile a F. prendere Sparta, o costringere Nabide alla resa, ma egli non volle un soverchio incremento dei suoi nuovi alleati Achei, così come non aveva voluto un soverchio incremento della lega etolica. E l’anno seguente 194, egli evacuò completamente la Grecia, comprese le piazzeforti di Demetriade, Calcide e Corinto, che i Romani presidiavano dopo averle ricevute da Filippo per effetto della pace. E trionfò solennemente in Roma recando immenso bottino. Egli lasciava la Grecia libera ma travagliata da discordie e in gran parte insofferente del nuovo ordine di cose. Quando gli Etoli cominciarono apertamente a turbare la pace, e a preparare accordi con Antioco III di Siria, F., inviato nel 192 come legato in Grecia, pur disponendo di pochissime forze, con la sua abilità diplomatica riuscì a frustrare in gran parte le mene degli Etoli e degli altri avversarî di Roma. Certo per non irritare Filippo, tenne un contegno ambiguo coi Demetriesi che temevano di ricadere nelle sue mani, e questo provocò la ribellione di Demetriade e la sua unione all’Etolia; ma assicurò anche ai Romani durante la guerra siriaca la preziosa amicizia di Filippo. F. seppe anche assicurarsi l’amicizia di Atene la cui fedeltà aveva per un momento vacillato. E dopo il successo di Acilio Glabrione alle Termopili continuò a lavorare nella Grecia centrale e nel Peloponneso con grande abilità a vantaggio di Roma. Nell’Eubea ottenne che il console risparmiasse Calcide, la quale era passata ad Antioco, ciò che giovò molto a riconciliare gli animi dei Greci con Roma; poi, fattosi mediatore tra i Romani che assediavano Naupatto e gli Etoli, fece concludere tra i belligeranti una tregua di sei mesi la quale diede agio ai Romani di portare le armi in Asia senza più preoccuparsi per il momento delle cose di Grecia. Nel Peloponneso dove gli Achei erano riusciti ad annettere Sparta alla lega, cercò, sorti alcuni torbidi a Sparta, di farvela tornare con la sua mediazione; ma fu prevenuto da Filopemene, che pacificò Sparta con gli Achei all’infuori della mediazione romana. Gli riuscì però di farsi mediatore tra la lega e Messene e questo fu germe di gravi dissensi futuri. Riunito tutto il Peloponneso, gli Achei cercarono di avere Zacinto, ma qui F. si oppose apertamente e giustificò la sua opposizione dicendo che gli Achei chiusi nel Peloponneso vi sarebbero stati sicuri come la testuggine nel suo guscio. F. fu poi censore insieme con M. Claudio Marcello nel 189. Tale censura non ebbe grande rilievo, ed è notevole soltanto per la relativa larghezza con cui i censori promossero l’acquisto dei pieni dirittì di cittadinanza per parte di taluni di quei municipî che n’erano privi. La seguente censura, quella che tennero Catone e Valerio Flacco (184) colpì gravemente F. con la destituzione del fratello Lucio dal Senato per indegnità. Nel 183 F. era di nuovo in Oriente come legato. Di passaggio nel Peloponneso cercò di carpire agli Achei qualche concessione a favore degli autonomisti di Messene capitanati da Dinocrate, che vantava appunto la sua amicizia con lui. Non ottenne nulla, ma il favore da lui dimostrato agli autonomisti fomentò la ribellione che scoppiò poco dopo, e provocò la guerra in cui Filopemene perdette la vita. F., recatosi poi da Prusia di Bitinia ottenne che quel re si risolvesse a consegnare ai Romani Annibale che s’era rifugiato presso di lui e l’aveva aiutato col suo genio durante la guerra con Eumene. Annibale per non cadere in mano dei nemici si uccise. Questo è l’ultimo fatto a noi ricordato di F. Egli morì ancora in fresca età nel 174, nel quale anno sappiamo da Livio che T. Quinzio Flaminino, quasi certamente un suo figlio, celebrò lussuosi giuochi funebri in onore del padre.
F. fu uno di quegli ufficiali formatisi alla dura scuola della guerra annibalica, ai quali Roma deve le sue meravigliose vittorie dei primi decennî del sec. II. Valente generale, egli fu poi espertissimo politico e diplomatico. Giovò assai al suo successo il suo non simulato filellenismo. Egli certamente credeva in perfetta buona fede di fare gl’interessi dei Greci non meno che quelli di Roma, assicurando la piena autonomia delle città e leghe greche di fronte alla Macedonia, e non è dubbio che la Grecia dopo il 196 ebbe una somma di autonomie e di libertà quale forse non aveva mai goduto lungo tutta la sua storia; né può farglisi colpa se egli non previde che il ricostituire in Grecia un pulviscolo di stati autonomi e l’eliminare ogni tentativo o speranza d’unità nazionale sotto qualsiasi forma, non poteva non moltiplicare le discordie e dando motivo o pretesto a continui interventi romani per eliminarle, preparare la servitù. Come in politica estera, egli patrocinò l’imperialismo stesso vagheggiato da Scipione Africano che voleva il predominio ma non cercava sfruttamento o dominio diretto, così in politica interna egli avversò l’indirizzo favorevole alla plebe rurale e sfavorevole alla nobiltà che era rappresentato da Catone. Tuttavia egli si tenne sempre in disparte dalle cricche nobiliari che si radunavano attorno agli Scipioni, sebbene dovesse avvicinarvelo anche il suo filellenismo.
CERVOVOLANTE (fr. cerf-volant; sp. cometa; ted. Drache; ingl. kite). – Cenni storici. – Il cervo volante o aquilone come giocattolo, ossia nella sua più semplice forma di leggiera armatura ricoperta di tela o di carta, affidata al vento e trattenuta mediante una funicella, può vantare origini lontanissime.
Una tradizione assai nota ne attribuisce l’invenzione ad Archita da Taranto (430-348 a. C.). Che, del resto, l’antichità classica abbia conosciuto il cervo volante, può apparire provato giudicando da una figura su un vaso conservato nel Museo nazionale di Napoli (n. 3151; cfr. Archäolog. Zeitung, 1867). Vi si vede una fanciulla che trattiene mediante una funicella un cervo volante triangolare.
Molto probabile sembra l’origine orientale del cervo volante, origine che potrebbe anche essere confortata dalle denominazioni richiamanti il dragone, simbolo fondamentale della mitologia cinese, che il cervo volante ha assunto in qualche lingua europea. È noto del resto che tuttora i Cinesi, i Giapponesi, i Coreani, gli Annamiti, hanno una grande passione per il cervo volante, cui ricollegano buon numero di superstizioni e credenze. I Coreani, p. es., nei primi giorni dell’anno attaccano a un cervo volante un rotolino di carta col nome e la data di nascita dei figli, e, dopo averlo lanciato, tagliano la cordicella lasciando che il cervo volante si disperda nella campagna: immaginano che esso porti con sé le disgrazie dell’anno che incomincia.
Qualunque ne possa essere l’origine, è probabile che il giuoco del cervo volante sia stato conosciuto nell’età di mezzo: non se ne ha però notizia fino al sec. XV, della qual epoca è un manoscritto, citato dal Feldhaus (Die Technik der Vorzeit, Lipsia e Berlino 1914), dove è spiegato wie du einen Drachen artificialiter machen und regieren sollst. Ne dà particolari G. B. Porta, nella sua Magia naturalis (Napoli 1589, p. 382), forse per notizie avutene dal padre M. Ruggeri tornato allora dalla Cina. Altre notizie si hanno ancora del cervo volante nei secoli seguenti, ma bisogna giungere alla metà del sec. XVIII per cominciare a trovare il cervo volante considerato con qualche interesse. Nel 1749 si compie la prima rudimentale ascensione meteorologica; nel 1752 il Franklin adopera il cervo volante per le sue esperienze sull’elettricità atmosferica, seguito ben presto da altri sperimentatori come il Romas in Francia, il padre Beccaria in Italia e molti altri. Esperienze con cervi volanti adoperati a varî usi si ebbero qua e là nel principio del sec. XIX (ascensioni di Dansett a Londra [1804], esperienze di Colladon in Svizzera [1827], ecc.), ma progressi sensibili nella costruzione, nello studio e nel “utilizzazione dei cervi volanti non si ebbero che in tempi relativamente recenti, da quando cioè Hargrave costruì il primo cervo volante cellulare (1898), ottenendo una stabilità di equilibrio di gran lunga più grande di quella di qualsiasi altro cervo volante monoplano. Dalle cellule Hargrave si può dire che son derivati tutti i migliori tipi di moderni cervi volanti.
Descrizione, costruzione e classificazione dei cervi volanti. – In un cervo volante si distinguono: la carcassa od ossatura, la velatura, l’imbrigliatura e il cavo di ritenuta.
La carcassa è costituita per lo più da bacchette di legno ed è irrigidita da tiranti metallici o da funicelle; su essa è tesa la velatura di carta o, più spesso, di tela.
Il cavo di ritenuta si fissa alla carcassa mediante due o più briglie di varia lunghezza. L’insieme di tali briglie, i cui estremi si riuniscono in un occhiello entro il quale, per mezzo di una spagnoletta, si infila il cavo principale, prende il nome di imbrigliatura. Non solo si raggiunge in tal modo l’equilibrio del cervo volante, ma si distribuisce convenientemente sull’ossatura lo sforzo di trazione del cavo. L’operazione d’imbrigliatura è la più delicata nel montaggio d’un cervo volante, poiché da essa dipende gran parte dell’equilibrio dell’apparecchio: essa determina l’angolo sotto il quale questo prende il vento (supposto orizzontale). Per utilizzare un medesimo cervo volante per intensità di vento anche assai diverse, le briglie inferiori sono sostituite da elastici che, tendendosi sotto l’azione del vento, permettono al cervo volante di cambiare automaticamente l’angolo d’attacco.
La robustezza del cavo è proporzionata alle dimensioni del cervo volante. Il cavo può essere svolto da un 0pp0rtuno verricello.
I cervi volanti sono:
a) monoplani, quando la carcassa ricoperta dalla velatura costituisce una sola superficie piana (piano sostentatore) variamente foggiata. Qualche volta per migliorare l’equilibrio trasversale si fissano al piano sostentatore uno o più piani direttori perpendicolari al primo.
b) diedri, quando la carcassa è costituita da due piani che s’incontrano ad angolo diedro molto aperto lungo una spina dorsale.
I cervi volanti monoplani o diedri hanno bisogno in generale, per migliorare il proprio equilibrio, dell’aggiunta della coda, costituita da un tratto più o meno lungo di cordicella, lungo la quale sono intercalati a uguali intervalli lembi di stoffa o di carta, o coni di tela con la base di vimine incurvato volta verso il vento.
c) multipli o cellulari a più superficie orizzontali sovrapposte, connesse ad altre verticali o in vario modo inclinate.
d) misti, la carcassa dei quali è formata da cellule accoppiate in vario modo a superficie laterali (alettoni) che hanno sempre lo scopo di meglio assicurare la stabilità.
I cervi volanti sono poi rigidi quando hanno carcassa indeformabile su cui la velatura è tesa perfettamente, o deformabili, quando parte della carcassa può piegarsi sotto l’azione del vento, ovvero la velatura, non del tutto tesa, può gonfiarsi al vento facendo tasca.
Tipi di cervi volanti. – Fra i cervi volanti monoplani sono da annovgrarsi i tipi più comuni di cervi volanti giocattoli, di cui alcune fogge, come per es. il tipo a pera, sono tradizionali.
Notevole è il cervo volante Eddy (fig. 2), sperimentato lungamente in America e impiegato in osservazioni meteorologiche, per fotografie dall’alto ed anche per ascensioni. La carcassa è costituita da una spina dorsale (m. 1,80), incrociata da una verga di uguale lunghezza a circa 1/4 da una estremità; la verga è mantenuta incurvata all’indietro da un filo metallico. La velatura è costituita da tela leggiera a forma di losanga: essa è molto tesa nella parte superiore, mentre nella parte inferiore è lasciata molleggiante in guisa da far tasca sotto l’azione del vento.
Il progenitore dei cervi volanti di tipo multiplo è il cellulare Hargrave (fig. 3). La carcassa è formata da due sbarre di legno profilato, lunghe m. 2,40, costituenti la spina dorsale: esse sono tenute parallele ad una distanza di m. 0,75 l’una dall’altra mediante traverse incrociate di metri 1,50. Verghe lunghe m. 2,70 incrociano le sbarre e sostengono la velatura orizzontale, mentre altre verghe, parallele alle sbarre e incastrate alle estremità delle traverse, sopportano la velatura verticale. La velatura forma quindi ai due terzi anteriore e posteriore delle sbarre due parallelepipedi di m. 2,70 × 0,80 × 0,75 (cellule).
Il cellulare Potter è una modificaziohe dell’Hargrave, differendo da questo per particolari costruttivi e per il fatto che le cellule sono cubiche e che le briglie sono attaccate ad uno spigolo delle cellule e non su una faccia: esso quindi vola – come si dice – sull’angolo, e non sul piano come il cellulare Hargrave.
Il cervo volante Lecornu (fig. 4) è un multicellulare; la carcassa è costituita da quattro sbarre di legno di m. 3 che s’incrociano a due a due ad angolo retto: le due croci sono mantenute in piani paralleli distanti di m. 0,70. L’armatura di questo tipo sostiene un parallelepipedo di tela di il cui interno è suddiviso mediante striscie di tela parallele alle faccie e incrociantisi ad angolo retto in 16 cellule non rigide e sensibilmente cubiche.
Ricordiamo ancora il tipo russo, formato da due cellule semicilindriche, usato specialmente per osservazioni meteorologiche.
Al tipo misto appartengono il cervo volante Conyne, formato da due cellule triangolari non rigide munite di due alettoni triangolari laterali; il cervo volanteMadiot, costituito da un cellulare Hargrave (di cui però è completamente diverso il procedimento costruttivo), munito di due alettoni triangolari; il cervo volante Cody–Saconney (fig. 5), formato anch’esso da un cellulare Hargrave di cui però ciascuno dei piani orizzontali si prolunga da una parte e dall’altra in alette triangolari, inclinate in alto per i piani superiori e in basso per quelli inferiori; le alette che prolungano il piano superiore della cellula anteriore sono molto più ampie delle altre. Questi tipi di cervi volanti sono specialmente usati per ascensioni.
Equilibrio d’un cervo volante. – Schematizzando (fig. 6) il cervo volante mediante una sola superficie piana (la cui traccia sia AB) si possono rapidamente trovare le condizioni di equilibrio. Il cervo volante è sottoposto alla azione di tre forze: P, peso applicato nel centro di gravità dell’apparecchio; T, trazione della fune applicata in un punto F congiunto al cervo volante mediante le briglie; N, spinta del vento sul cervo volante applicata nel centro di pressione C.
Il centro di pressione non coincide se non in casi particolari col centro di figura O, ma è spostato in avanti rispetto a questo d’una quantità che è funzione dell’angolo α che il cervo volante forma col vento, e che numerosi sperimentatori hanno cercato di determinare, compendiando poi i loro studî in formule approssimate. Perché l’equilibrio possa sussistere è necessario che le tre forze cui è sottoposto il cervo volante concorrano in un punto e che la risultante sia nulla; inoltre la somma dei momenti di esse rispetto a un qualunque centro di riduzione deve essere del pari nulla. Indichiamo con
il rapporto fra la componente normale della spinta per l’inclinazione α e quella per il piano esposto normalmente al vento (per N90 e per un piano sottile si adotta l’espressione KSV2 in cui V è la velocità del vento, S la superficie del piano e K un coefficiente numerico da determinarsi sperimentalmente); con ϕ (α) la distanza del centro di pressione dal centro di figura (misurata assumendo come unità di misura la distanza del centro di figura dal bordo di attacco); con la distanza del centro di gravità dal centro di figura; con (a, b) le coordinate del punto F di attacco del cavo alle briglie rispetto a due assi ortogonali con l’origine nel centro di figura e di cui l’asse x coincide con la traccia del cervo volante. Diciamo ancora T la grandezza della tensione del cavo e β l’angolo che questa, a una distanza convenientemente piccola da F, forma con l’orizzonte. Essendo α l’inclinazione d’equilibrio del cervo volante si ha facilmente
avendo introdotto la quantità
dipendente da
definita come densità del cervo volante.
La condizione d’equilibrio relativa ai momenti (assumendo come centro di riduzione dei momenti il centro di figura) è:
Da questa, assumendo per f(α) e ϕ (α) espressioni approssimate ricavate dalle esperienze (p. es. le formule di Soreau-Duchemin):
si possono dedurre le seguenti leggi sperimentali per l’equilibrio di un cervo volante (cfr. Th. Bois, Les cerfs–volants et leurs applications militaires, in Revue du Génie, 1905): l’inclinazione d’equilibrio d’un cervo volante non dipende direttamente dal suo peso né dalla sua superficie, ma solo dalla sua densità e dalla posizione relativa del centro di gravità, del centro di figura e del punto d’attacco; essa inoltre non dipende dalla velocità del vento, ma dal rapporto fra la componente normale della pressione del vento per unità di superficie e la densità.
Dicesi rendimento di un cervo volante il rapporto fra la componente verticale della pressione del vento diminuita del peso dell’apparecchio e la componente orizzontale (v. aerodinamica). Il rendimento è dunque uguale al rapporto fra le componenti verticale e orizzontale della trazione del cavo, cioè a tg β, essendo β l’angolo che la direzione del cavo in un punto convenientemente prossimo all’estremità delle briglie forma con l’orizzonte. Il rendimento è massimo quando tale angolo è massimo, il che si ha (adoperando ancora le formule di Soreau-Duchemin) quando
In tal caso le estremità delle briglie (punto d’applicazione della trazione) debbono ricongiungersi in un qualunque punto della retta di equazione:
che dà la direzione del cavo di ritenuta in un punto abbastanza prossimo al cervo volante, nell’ipotesi che questo abbia l’inclinazione α corrispondente al massimo rendimento.
Se tale direzione risulta orizzontale, cioè se è ω = √2, il cervo volante sarà in equilibrio per una data velocità di vento al livello del suolo: ma esso si trova nello stesso tempo nelle condizioni di massimo rendimento, cioè nelle condizioni di raggiungere la massima possibile altezza, dunque il Gervo volante non potrà alzarsi nell’aria; esso potrebbe soltanto essere lanciato verso il suolo da una posizione più in alto che non il cervo volante stesso; p. es. dalla navicella d’un dirigibile. Il valore della densità che si ricava dalla ω = √2 si dice densità limite del cervo volante, come il corrispondente valore di α (circa 35° 15′ 37”) si dice angolo limite assoluto. Dalla stessa relazione può ricavarsi il valore del vento limite, cioè la minima velocità di vento per la quale un cervo volante di conosciuta densità possa sollevarsi.
Se immaginiamo che il vento non agisca sul cavo di ritenuta, supposto omogeneo, questo si disporrà, come è noto, secondo una catenaria. Dicendo T la tensione del cavo in vicinanza del suolo, p il peso per unità di lunghezza, l’altezza h cui giunge un cervo volante per una lunghezza l del cavo è
L’azione del vento sulla corda modifica la configurazione di equilibrio: secondo il Saconney il cavo tende ad assumere la forma di un arco di cerchio.
Per una data velocità di vento un cervo volante di assegnata densità non può superare una determinata altezza (altezza limite): questa è raggiunta quando l’angolo β che il cavo fa col suolo è nullo.
Principali applicazioni del cervo volante.
Le applicazioni del cervo volante sfruttano in gran parte la possibilità di servirsi del cavo come guida di postiglioni, apparecchi che, sotto l’azione del vento, possono scorrere lungo il cavo di ritenuta del cervo volante e – se automatici – possono poi tornare indietro.
Un postiglione automatico si compone di una leggiera armatura che può in un modo qualunque scorrere sulla corda: essa porta una vela mantenuta tesa normalmente alla corda stessa e quindi al vento, mediante un cavetto la cui estremità porta un anello; questo è trattenuto da un uncino che automaticamente, p. es. per urto contro un ostacolo preventivamente fissato sul cavo di ritenuta, può aprirsi.
La vela rimane in tal modo liberata, e il postiglione, non più trattenuto dal vento, può ridiscendere per proprio peso lungo il cavo. La prima idea di utilizzare i cervi volanti per osservazioni meteorologiche sembra dovuta ad A. Wilson e Th. Melville, che nel 1749 innalzarono a Glasgow termometri a massima e a minima; il loro uso sistematico per i sondaggi dell’alta atmosfera ebbe inizio nel 1896, anno in cui A. L. Rotch, dell’osservatorio di Blue-Hill, e quasi contemporaneamente Teisserenc de Bort, dell’osservatorio di Trappes, ben presto imitati dagli osservatorî di Lindenberg e di Amburgo in Germania e dall’osservatorio Constantin in Russia, riuscì a far portare da un cervo volante un anemo-termografo Fergusson e un baro-termo-idrografo specialmente costruito. Da allora la tecnica di tali ascensioni si è andata perfezionando, talché ora, in molti osservatorî, l’uso del cervo volante per le osservazioni a grande altezza è giornaliero. In Italia esperienze in questo senso furono eseguite da Pericle Gamba nell’osservatorio geofisico di Pavia e in quello di Vigna di Valle, dell’aeronautica.
Nei sondaggi dell’alta atmosfera si congiungono al cavo (ordinariamente filo d’acciaio), a intervalli regolari, cervi volanti ausiliarî, i quali contribuiscono a sopportare il peso del cavo svolto e permettono al primo cervo volante o – come si dice – al pilota che porta gli apparecchi registratori, di sollevarsi anche oltre i 6000 m. (Lindenberg nel 1906, con 17.000 m. di cavo). Tali notevoli altezze sono state raggiunte anche mercé l’uso (metodo usato per la prima volta a Trappes) di tronchi di cavo di diametro decrescente dal basso in alto e di cervi volanti di densità crescente dall’alto in basso.
Ascensioni con cervi volanti. – Un cervo volante o un insieme di cervi volanti che riescano a portare in alto una navicella con una o più persone, può costítuire un osservatorio aereo analogo a quello ottenuto col pallone frenato, con il vantaggio di una migliore stabilità e sicurezza.
Le prime esperienze in questo senso risalgono al 1854, anno in cui il dottor Laval riuscì a far sollevare un fanciullo da un cervo volante. Dopo di lui il Maillot fece sollevar un peso di 70 kg. da un cervo volante di 72 mq. di superficie. Il capitano Baden-Powell dell’esercito inglese ebbe per primo l’idea, nel 1896, di riunire su un solo cavo parecchi cervi volanti (treno di cervi volanti). Dopo di lui le esperienze si moltiplicarono e l’inglese Cody,. i francesi Madiot e Saconney, il russo Schreiber, dotarono gli eserciti delle rispettive nazioni di treni di cervi volanti sempre più perfezionati.
Un treno di cervi volanti si può formare: o lanciando separatamente diversi apparecchi con cavi di ritenuta di diversa lunghezza e riunendo gli estremi di questi a un unico cavo; o lanciando separatamente diversi cervi volanti con cavi di ritenuta uguali, i cui estremi siano poi fissati in diversi punti di un cavo principale portato da un pilota; o infine lanciando prima di tutto un cervo volante pilota, e fissando sul cavo di ritenuta di questo una serie di cervi volanti costituenti il treno propriamente detto. Il cavo di ritenuta principale può attraversare gli elementi del treno (sistema russo), oppure può essere attaccato alla cellula anteriore di ciascun elemento (sistema francese e inglese). Ciascuno di questi sistemi presenta vantaggi e svantaggi: il terzo metodo indicato ha, è vero, l’inconveniente che l’equilibrio di tutto il treno è fondato su quello del cervo volante pilota, ma in contrapposto offre garanzie di sicurezza, maneggiabilità e rendimento che l’hanno fatto preferire a tutti gli altri.
Lanciato che sia il treno, la navicella può essere sospesa a un punto fisso del cavo principale (sistema russo); oppure sospesa a un cavo secondario manovrato da un verricello sussidiario e che passa per una carrucola fissa sul cavo principale; o, infine, sospesa a un carrello che può scorrere sul cavo principale, e trascinata lungo questo da uno (sistema inglese) o più cervi volanti (sistema francese) riuniti in treno (rimorchiante) e scorrenti lungo il cavo principale. Nei sistemi più perfezionati (Saconney, Madiot) l’osservatore può modificare dalla navicella l’inclinazione dei cervi volanti del treno rimorchiante e può di conseguenza rallentare o accelerare o addirittura fermare l’ascensione della navicella.
Il cervo volante può ancora essere impiegato, oltreché per eseguire fotografie dall’alto, anche come mezzo per gettare un cavo fra la costa e una nave naufragata; numerosi sperimentatori hanno ideato speciali tipi di postiglioni particolarmente adatti a tale uso (Woodbridge Davis, 1892; Dessy, 1906; Wenz, 1908; com. te Brossard De Corbigny il cui materiale è stato adottato dalla marina francese, ecc.). Può altresì servire per rimorchiare imbarcazioni, oppure come mezzo di pubblicità, sia per innalzare cartelloni reclamistici, sia per lasciar cadere dall’alto fogli volanti.
SIBARI (Σύβαρις, Sybăris). – Colonia greca della Magna Grecia, situata sulla costa del golfo di Taranto, presso il confine settentrionale della Calabria (antico Bruzio), nella piccola piana racchiusa tra il corso del fiume Crati, identificabile sicuramente con l’antico Crathis, e quello del Coscile, in cui generalmente si riconosce l’anticoSybaris: in tal caso, è da supporre, per varie ragioni, che i due fiumi (Crati e Coscile), che oggi si riuniscono in uno solo, circa sei chilometri prima della foce, arrivassero fino al mare divisi.
Recentemente però è stata avanzata, con buoni argomenti, l’ipotesi (Kahrstedt) che il nome di Sybaris fosse portato in antico dall’odierno torrente di S. Mauro; sicché l’antica città dovrebbe ricercarsi nella zona compresa fra il corso di questo e quello del Crati, là dove sorse anche e ha lasciato non insignificanti resti di sé la successiva colonia di Turî (v.). L’ipotesi del Kahrstedt non sembra però avere piena conferma dagli scavi più recenti.
La tradizione ne ascriveva concorde la fondazione a coloni provenienti dall’Acaia, ai quali si erano uniti gruppi di altri coloni di Trezene. Ne sarebbe stato ecista un tale Is di Elice. Nei pochi indizî e nelle scarse notizie che possediamo sulla vita più antica della città, la critica moderna non trova obiezioni gravi ad accogliere sostanzialmente il racconto della tradizione. Come data di fondazione, viene tramandata quella del 720 a. C. (Pseudo Scimno) o del 708 a. C. (Tucidide): è più probabile che essa debba farsi risalire più addietro, verso la metà del sec. VIII.
La presenza di cittadini di Trezene fra gli Achei che vennero a stanziarsi in questa colonia, può forse spiegarci le ragioni per cui fu scelto, per la nuova città, un luogo adatto, oltre che all’attività agricola, anche ai traffici di ogni specie. Da una parte, infatti, la valle del Crati offriva condizioni invidiabili allo sviluppo dell’agricoltura e della pastorizia: né mancavano (nel luogo dell’odierna S. Marco Argentano) miniere d’argento. D’altra parte però la foce del Crati si raccomandava, per la sua posizione, a gente dedita ai commerci, trovandosi essa all’un capo di uno dei più brevi tragitti per i quali si poteva comunicare tra l’Ionio e il Tirreno. Infatti ben presto i Sibariti si spinsero dalla loro città nell’interno, lungo l’istmo di terra che li separava dal Tirreno, e piantarono sulle sponde di questo mare, verso la metà del sec. VII, i due stabilimenti di Lao e di Scidro. Probabilmente intorno allo stesso tempo quasi tutti i Trezenî di Sibari lasciavano la città, raggiungevano un altro stabilimento già fondato da alcuni dei loro pionieri presso la foce del Silaro (odierno Sele), e ivi fondavano la città di Posidonia.
Il periodo che corse dalla metà del sec. VII agli ultimi decennî del VI, vide l’apogeo della potenza e della ricchezza di Sibari: essa divenne allora la maggiore città dell’Occidente; gli antichi le attribuivano (con cifre indubbiamente esagerate) un perimetro di 50 stadî (pari a più di 9 chilometri) ed oltre 300.000 abitanti. E di pari passo con la floridezza economica progredì la potenza politica dei Sibariti. Dopo aver distrutto, in alleanza con Metaponto e con Crotone, la fiorente città di Siri, i Sibariti goderono per parecchi anni l’indiscussa egemonia su tutta la Magna Grecia. Cominciò allora però anche la decadenza: l’eccessiva potenza e ricchezza guastarono i costumi dei cittadini (ma è da ritenersi del pari esagerata la pittura che ci lasciarono gli antichi, del fasto e della raffinatezza della vita sibaritica) e destarono l’invidia di altre città, e specialmente della potente Crotone, dove si assisteva allora, sotto l’influsso esercitato dal filosofo Pitagora, a una mirabile rinascita di tutte le virtù civili e di tutte le energie spirituali e morali di quel popolo.
Poco prima del 510 a. C., stabilitasi in Sibari la tirannide di Teli, i partigiani dell’abbattuto governo aristocratico si rifugiarono a Crotone, che rifiutò di riconsegnarli al tiranno. Ne seguì battaglia, che si combatté sul fiume Traente (od. Trionto) e si risolse in una splendida vittoria dei Crotoniati; i quali, dopo poche settimane di assedio, costrinsero Sibari alla resa. La città fu distrutta, ma, come pare, non totalmente: i cittadini si rifugiarono in Lao e in Scidro, ma una piccola parte di essi rimase probabilmente ad abitare in qualche quartiere superstite dell’abbattuta città (v. anche turî). La catastrofe di Sibari ebbe una grande ripercussione in tutto il mondo antico: i Milesî, che mantenevano con Sibari un traffico intensissimo, misero il lutto in segno di compianto per la sorte della infelice città.
TARA (gr. Τάρας). – Fiume che sbocca nel Golfo di Taranto, in vicinanza della città, a ovest dell’apertura del Mar Piccolo; con lo stesso nome i Tarentini designarono anche la divinità fluviale stessa, alla quale però altre leggende ascrivevano diversa origine.
Una leggenda diceva Taras procreato da Posidone e da Satiria, figlia di Minosse; avendo fatto naufragio, era stato da un delfino trasportato alle coste d’Italia e aveva dato il suo nome al luogo in cui poi sorse la città omonima; un’altra leggenda faceva di lui addirittura l’ecista di Taranto. In realtà Taras non fu altro che l’eroe eponimo della città e del piccolo fiume che ne bagna il territorio: la sua rinomanza crebbe per essere egli stato identificato, già dagli antichi, con il cavaliere sul delfino disegnato sulle monete arcaiche tarentine; a torto, perché un’antica tradizione e un gruppo statuario del sec. V attribuivano il delfino all’ecista di Taranto, Falanto. Certamente prima della metà del sec. IV era stato trasferito, nell’opinione dei Tarentini, il nome del dio fluviale alla figura di Falanto, rappresentata sulle monete.
SALADINO da Ascoli (de Asculo; de Esculo). – Medico, vissuto intorno alla metà del sec. XV alla corte del principe di Taranto Giovanni Antonio del Balzo Orsino, fu autore di un Compendium aromatariorum (Bologna 1488; ed. dello stesso anno anche a Ferrara). Fu questo il primo libro di materia medica dedicato ai farmacisti, considerato per secoli come il testo classico dell’arte farmaceutica. Il libro consta di otto capitoli, dei quali il primo particolarmente importante perché contiene un programma degli studî necessarî al farmacista e un elenco dei libri più raccomandati.
TARANTELLA. – Danza popolare dell’Italia meridionale, per tradizione divenuta caratteristica del popolo napoletano. Secondo l’etimologia parrebbe originaria di Taranto, o forse deriva il suo nome dalla tarantola, il cui morso, secondo una credenza popolare, produce una specie di furore bacchico che eccita alla danza. La tarantella era conosciuta fino dal sec. XIV. Affine al saltarello, con il quale in talune regioni si confonde, essa è di carattere vivacissimo in movimento di 3/8 o di 6/8. Come tutte le arie di danza in generale, anche la tarantella si canta con parole appropriate, mentre l’esecuzione strumentale è affidata a strumenti popolareschi, quali il mandolino, la chitarra, la fisarmonica, ecc. Il ritmo è marcato dai colpi di tamburello (piccolo tamburo a mano a una sola membrana, provvisto di sonagli metallici) suonato dagli stessi danzatori.
Le melodie originali di tarantella sono quasi tutte di modo minore e talvolta nei punti cadenzali presentano l’alterazione discendente del secondo grado, che è caratteristica di molti canti popolari napoletani:
Innumerevoli sono le imitazioni che i musicisti di ogni paese hanno fatto di questo genere di danza, stilizzandolo in forme artistiche per orchestra o per strumenti solisti e talvolta anche per canto. Così, ad es., quelle di F. Liszt, F. Chopin, M. A. Balakirev, G. Bazzini, J. Raff, D. Popper, B. Godard, F. Mendelssohn, G. Martucci, M. Castelnuovo-Tedesco, A. Casella, ecc.
ORSINIDELBALZO. – Famiglia nobile, il cui capostipite è Raimondo o Raimondello Orsini, secondogenito di Niccolò Orsini conte di Nola e d’una donna di casa Sabran, nato nella seconda metà del sec. XIV. Per eredità del conte di Soleto, Raimondo del Balzo, fratello dell’ava Sveva del Balzo, ne doveva ereditare i beni; ma, contravvenendo a ciò, Niccolò Orsini fece succedere in quei feudi il primogenito Roberto, onde Raimondo, sdegnato, abbandonò la patria per recarsi a combattere gl’infedeli. Ritornato dopo qualche tempo nel regno, occupò a viva forza, non solo la contea di Soleto, ma anche altre terre del padre. Per memoria verso l’antenato, antepose al suo cognome l’altro dei Del Balzo, e con lui ebbe così inizio questo ramo della famiglia. A vincerne l’urto, il padre si rivolse (maggio 1382) a re Carlo III di Durazzo, ma questi, impegnato nelle lotte con Luigi I d’Angiò, non solo non punì Raimondo, ma lo volle al suo fianco per combattere l’Angioino.
Ribellatosi poco dopo a Carlo III, Raimondo passò al servizio di Luigi I d’Angiò, sposò (1384), sotto gli auspici di lui, Maria d’Enghien, contessa di Lecce, che gli portò in dote questa contea e altre terre in Puglia, e, morto Luigi I (20 settembre 1384), fu tra i più accaniti sostenitori dei diritti del figlio di lui, Luigi II. Minacciato papa Urbano VI in Nocera dalle armi di Carlo III, Raimondo accorse all’appello di lui (marzo 1385) e riuscì a farlo riparare in Genova. Quando poi gli parve che la parte angioina fosse per soccombere, tentò varie volte di riavvicinarsi ai Durazzeschi, e, per essi, al nuovo re Ladislao, e quando quest’ultimo mosse contro Luigi II (1398), passò a lui, combatté sotto le bandiere dei Durazzeschi e, investito del principato di Taranto al quale egli aspirava per i diritti che gli venivano dai Del Balzo, antichi signori di quel feudo, lo conquistò, entrando in Taranto il 18 giugno 1399. Quivi promosse le arti, la giurisprudenza e le lettere, e visse in buona armonia con la corte, fino al 1405, quando, spinto a ciò dal pontefice Innocenzo VII, si ribellò a Ladislao che mosse a sottometterlo. Nel frattempo Raimondo morì (17 febbraio 1406) e fu sepolto a Galatina, nella chiesa di Santa Caterina, da lui resa adorna di molte opere d’arte. Lasciò quattro figli: Caterina, Maria, Giovannantonio e Gabriele, e di essi gli successe nel principato Giovannantonio quando, morto Ladislao che aveva sposato la vedova Maria d’Anghien e s’era insignorito in tal modo del principato di Taranto, e successagli la sorella Giovanna II, questa rimise la cognata e i figli di lei in possesso dei loro feudi. La primogenita Maria aveva sposato il figlio del duca d’Atri; Caterina, Tristano di Chiaromonte; Giovannantonio sposò (1417) Anna Colonna nipote di papa Martino V; Gabriele, Giovanna Caracciolo.
Non avendo potuto affermare il suo dominio a corte, nel 1433 Giovannantonio si ruppe con Giovanna II e mosse contro Luigi III d’Angiò, assunto a suo erede dall’incostante regina. Prese quindi le parti di Alfonso d’Aragona, e insieme combatterono a Ponza, dove entrambi caddero prigionieri e furono condotti a Milano presso Filippo Maria Visconti (1435). La prigionia e la comunione dei propositi strinsero il principe di Taranto e l’Aragonese. Il quale divenuto Alfonso I re di Napoli, concesse al Del Balzo la città di Bari con licenza d’esportare ciò che gli piacesse, lo nominò gran connestabile del regno con l’appannaggio di 100 mila ducati, destinati alle paghe delle lance che gli fu consentito di tenere a sua disposizione.
Qualche ombra tra l’Aragonese e Giovannantonio non mancò; ma il matrimonio tra la nipote di lui, Isabella di Chiaromonte, col duca di Calabria, Ferdinando, parve cementasse con altri vincoli la casa regnante col più potente ceppo feudale indigeno. Invece Ferdinando d’Aragona, successo al padre nel 1458, non lo imitò nell’arrendevolezza verso il baronaggio: egli già meditava di debellarlo. Tali propositi e le fatali conseguenze intuì presto il Del Balzo, che, abbandonata la corte, si trasferì a Taranto, vi si fortificò e si pose a capo dei baroni insorti contro il sovrano. E poiché si aveva bisogno d’un personaggio, dietro cui i baroni mascherassero i loro piani affatto particolaristici e spesso criminosi, fu lui, dopo il rifiuto del re d’Aragona, a invitare alla conquista del regno Giovanni, figlio del defunto Renato d’Angiò. Ma, battuto a Troia, dovette domandare la pace, mentre l’Angioino prendeva la via del ritorno in Francia.
Secondo alcuni, un vero trattato sarebbe stato conchiuso tra l’Aragonese e il Del Balzo, al quale sarebbero stati riconosciuti e riconfermati, in tutta la loro estensione, possessi, uffici ed emolumenti, che egli godeva nel regno. Comunque, rientrò a Taranto, e quivi, qualche anno dopo, nel 1465, morì, a 70 anni, non senza sospetto di veleno, fattogli propinare da Ferdinando d’Aragona. Il quale si recò subito a Taranto e, lungi dal rispettare le disposizioni testamentarie del Del Balzo e quelle della vedova, Anna, incamerò il principato nel demanio regio e s’impadronì di tutte le ricchezze, fatte ascendere a più d’un milione di ducati.
LISIPPO (Λύσιππος, Lysippus). – Scultore greco, nato a Sicione, fiorito all’età di Alessandro Magno. Egli, per età, è il terzo della gloriosa triade di scultori del sec. IV a. C., costituita da Scopa di Paro, da Prassitele ateniese e da lui. Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 51) colloca l’apogeo dell’attività di Lisippo nella olimpiade 113ª e, cioè negli anni 328-324 a. C.; ma lo scultore dovette essere attivo sino alla fine del sec. IV, poiché un’iscrizione, poi perduta, di Roma attesta che L. eseguì una statua di Seleuco Nicatore, il quale assunse il titolo regio nel 306-05. È perciò probabile che, essendo L. pervenuto sino all’età senile, come appare dall’Antologia Greca (IV, 16, 35), egli fosse nato all’incirca nell’anno 370 a. C.
L. formò la sua personalità artistica a Sicione, dove, come nella non lontana Argo, era fin dai tempi dell’arcaismo viva la tradizione della scultura atletica e rimaneva tuttora valido l’influsso del maggiore rappresentante di questa scultura, Policleto. In realtà, da un passo del Brutus (86,296) di Cicerone, apparirebbe che L. considerava come suo modello la statua del Doriforo di Policleto; invece da un passo di Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 61), risalente allo scrittore Duride di Samo, parrebbe che L. non appartenesse a nessuna scuola, sicché è da ritenere che egli, pur tenendo in grande considerazione gl’insegnamenti di Policleto, concretati nel suo capolavoro, cioè nel Doriforo, seguisse essenzialmente la sua indole osservatrice della natura. Ed invero in questo medesimo passo è detto che, mentre L. da giovane si esercitava nella lavorazione del bronzo, fu ammonito dal suo concittadino, il celebre pittore Eupompo, di seguire non già un determinato artista, ma la natura. Nei suoi primi tempi di attività artistica non poté tuttavia L. sottrarsi all’influsso non solo di Policleto, ma anche di Scopa, il quale, più anziano di L. di trenta o quarant’anni, operò sin al 350 a. C. coltivando anche la scultura atletica e palesandosi come il caposcuola di un indirizzo di arte passionale.
Nel 1894 si scoprì nel santuario di Delfi un complesso di statue marmoree consacrate da una famiglia tessalica originaria di Farsalo, negli anni tra il 338 e il 334 a. C.; tra i personaggi rappresentati è un certo Agias effigiato come nudo atleta. Si volle vedere in questa statua una copia di una statua bronzea già esistente a Farsalo, opera, come si desume da una iscrizione ora perduta, di Lisippo. L’Agias delfico presenta caratteri policletei e scopadei insieme, ben diversi da quelli che noi possiamo constatare nelle opere verosimilmente lisippee. Ma sembra ormai assodato che l’Agias delfico sia stato eseguito in età anteriore all’Agias di Farsalo di L., e perciò si ha ora ogni ragione di allontanare, come inutile ingombro, questa statua delfica nella ricerca della personalità artistica di L.
Oltre all’Agias di Farsalo, ora perduto e non identificabile, L. eseguì altre statue atletiche; dalle fonti scritte abbiamo notizia di altri cinque atleti: di Polidamante (olimpionico nel 408 a. C.), di Troilo (olimpionico nel 372 a. C.), di Chilone (vincitore più volte in varî santuarî), di Callicrate, di Senarche. Forse all’inizio della carriera di L. si deve ascrivere la statua di Troilo innalzata verso il 350 a. C., mentre all’età di Cheronea (338-37) discenderebbe l’esecuzione del Polidamante.
Ma di L. ci è pervenuta in copia marmorea una statua atletica, che serve come punto di partenza per lo studio dell’attività del grande scultore: l’apoxyómenos o atleta che si deterge con la strigile il sudore e la polvere dopo gli esercizî ginnastici. L’originale, di bronzo, stava ai tempi di Plinio nelle Terme di Agrippa; racconta Plinio che l’imperatore Tiberio aveva trasportato questo bronzo nel suo palazzo sul Palatino, ma aveva dovuto rimetterlo al suo posto, date le proteste clamorose dei Romani. La copia marmorea proviene dal Trastevere, ed ora è nel Braccio Nuovo dei Musei Vaticani: in essa è riconoscibile l’impronta di un artista non solo originale, ma di genio, il suggello dell’arte di L., dato il confronto che possiamo istituire con opere anteriori o contemporanee, dato quanto possiamo sapere su L. dalla tradizione letteraria.
L’apoxyómenos è snello, svelto, nervoso. Invero lo slancio agile della figura è accentuato dalla piccolezza della testa, e in questo impiccolimento del capo L. si ricollega all’antica scuola argiva della prima metà del secolo V. Poi, pur essendo l’apoxyómenos rappresentato fermo, esso dà un senso di agitazione, quasi tutta la figura sia percorsa da un fremito nervoso, poiché si prova l’impressione che egli cambi di continuo dall’appoggio della gamba destra a quello della sinistra e così via. Vi si osserva una piena libertà di movimento, sia in avanti sia lateralmente; esso possiede la terza dimensione. Nel volto nobilissimo, proprio di un atleta in cui alla vigoria e sanità del corpo si uniscono la luce dell’intelletto e la moralità della coscienza, pare di avvertire il riflesso dell’agitata vita ellenica dei tempi di Alessandro Magno: gli occhi, non molto aperti, sono allungati, e dànno un’impressione di leggiera stanchezza, la bocca è un po’ dischiusa con gli angoli distesi; nella piega orizzontale della fronte e anche nella corta, ricciuta chioma, in intricato disordine e madida di sudore, pare rispecchiarsi l’inquietudine nervosa dello spirito.
Attorno all’apoxyomenos, che è sì discosto dalle patetiche figure di Scopa, dalle gentili e molli figure di Prassitele, possono aggrupparsi altre sculture. Per rimanere nel campo della scultura atletica si possono menzionare i due bronzi di Ercolano nel Museo di Napoli che rappresentano lottatori: sono figure slanciate e con atteggiamento saturo di vibrazioni. Vi sono poi statue di numi: precedono numi atletici, cioè Ermete ed Ares. Ermete ci appare in due belle creazioni lisippee: in quella offertaci dal bronzo da Ercolano del Museo di Napoli (v. XIV, tav. XXX), ove il dio, adolescente, riposa su un masso, ma nel riposo ha tutta la figura tesa per scattare in piedi al comando di Zeus; anche qui nel riposo è agitazione, è nervosismo, specie nelle gambe che toccano appena il terreno. Poi l’Ermete che si allaccia il sandalo: il dio, appoggiando il piede destro su una sporgenza rocciosa, curva il torso, ma solleva il capo per ascoltare il comando di Zeus; delle copie di tale tipo sono notevoli quella dell’ora dispersa collezione Lansdowne (v. XIV, tav. XXX) e quella del Louvre.
Un Ares lisippeo si può riconoscere nella statua dell’Ares Ludovisi, ora nel Museo nazionale romano (v. IV, p. 160); nella bella figura del nume rappresentato seduto, con il ginocchio sinistro alzato, stretto da entrambe le mani, è vigoria vigile, quasi aggressiva, corrispondente al carattere del personaggio rappresentato.
Pausania (IX, 27, 3) ci fa parola di una statua di bronzo di L. rappresentante Eros ed esistente nel santuario del dio a Tespie in Beozia, vicino alla statua, pure di Eros, di Prassitele.
Sembra che si possa riconoscere questa statua lisippea nel tipo offertoci da alcune copie marmoree, tra cui la più nota è quella di Tivoli al Museo Capitolino, ma tra cui è degna di menzione anche la copia di Cirene (v. X, tav. CXVIII). Il dio fanciullo è rappresentato nell’atto d’infilare la corda nell’arco; pure in questo caso l’azione non esige grande movimento, ma vi è la solita impressione d’irrequietezza nervosa, e si avverte quasi il battito delle ali impazienti di recare a volo il bellissimo fanciullo, il quale sembra il fratello minore dell’apoxyómenos.
L. trattò anche le figure di Apollo e di Dioniso, come ci informano Pausania (IX, 30,1) e Luciano (Giove tragico, 12); ma l’identificazione è incerta. Meglio siamo informati sul Poseidone di bronzo che stava a Corinto (Luciano, Giove tragico, 9) e che è riprodotto su monete di Demetrio Poliorcete (303 a. C.).
Un’eco di esso da riconoscere in una grandiosa statua marmorea di Nettuno proveniente da Porto, ora nel Museo Laterano. È in essa il motivo del piede sollevato su un rialzo del terreno, motivo comune allo Ermete che si allaccia il sandalo, e che già Scopa aveva usato per il suo Apollo Sminteo. Ma nella statua di Porto non è fedelmente seguito lo stile di L., perché le forme sono piatte. Piuttosto l’impronta lisippea è in una testa marmorea da Porcigliano nel Museo Chiaramonti al Vaticano: l’immagine di Poseidone ha le disordinate ciocche della chioma e della barba piene di umida salsedine, con le ciglia corrugate nello sforzo visivo.
Sappiamo da Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 63) che di L. era in Rodi una quadriga del Sole, di bronzo, guastata poi da una doratura che volle farvi Nerone. Abbiamo inoltre notizia di quattro statue di Zeus: una a Taranto era alta, come dice Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 40), ben 40 cubiti, una seconda era a Megara, una terza ad Argo, una quarta nella città natale di L., a Sicione.
Oltre ai numi L. trattò un’allegoria, quella del Kairós o Genio dell’occasione, opera forse giovanile di lui, esistente a Sicione.
Riprese L. in quest’opera un argomento trattato da Policleto, ma con audacia di concezione del tutto nuova. Come si può desumere da un epigramma dell’Antologia Greca (II, 49, 13) e dalla descrizione di Callistrato sofista (Descrizioni, 6) il Kairóslisippeo era sotto l’aspetto d’un adolescente alipede, diritto sulla punta dei piedi al disopra di una sfera, con un rasoio nella mano destra: la chioma era ricondotta sulla fronte e la nuca era nuda di capelli. La statua fu trasportata, come si desume da un passo di Cedreno (Comp. Histor., 322 C), a Costantinopoli e perciò se ne hanno ricordi affievoliti e lontani in monumenti tardi, come in un rilievo copto del museo del Cairo e nel rilievo marmoreo del duomo di Torcello. Non solo Dioniso fu riprodotto da L., ma anche i demoni del suo corteo, cioè i Satiri; da Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 64) abbiamo notizia di un Satiro lisippeo in Atene e un’opera lisippea possiamo riconoscere nel gruppo, che conosciamo attraverso varie copie, di cui la più nota è quella del braccio nuovo del Vaticano, e che rappresenta un barbuto Sileno pieno di paterna benevolenza, il quale regge tra le mani Dioniso bambino: bellissimo nesso tra una figura adulta e una infantile.
Prediletta dovette essere per L. la figura di Eracle. Di quattro statue lisippe dell’eroe abbiamo notizia dalle fonti letterarie, cioè di un Eracle inerme, di un Eracle di Sicione, di un Eracle colossale a Taranto, di un Eracle minuscolo che fu di Alessandro Magno.
Dell’Eracle dell’agorà di Sicione forse è da riconoscere il ricordo in una serie di repliche marmoree, in bronzetti, in monete: l’eroe è rappresentato ignudo, appoggiato alla clava posta sotto l’ascella sinistra con sopra la pelle leonina. L’idea più vicina all’originale ci è data da un bel bronzetto di provenienza umbra, ora al Louvre, mentre un rifacimento barocco è nell’Ercole Farnese (v. XIV, tav. XII) firmato da Glicone. È un Eracle patetico che si riposa dopo una delle sue imprese, ed è in questo stanco riposo l’espressione del contrasto tra la forza invitta, superiore a mostri e a belve, e l’accorato senso di dolore, da cui l’eroe è stato alla sua volta vinto. Nelle due figure bronzee dell’Eracle di Taranto e di quello di Alessandro Magno scorgiamo una prova della grande versatilità e potenza artistica di L., il quale sapeva trattare magnificamente lo stesso soggetto e nel colossale e nel minuscolo. L’Eracle di Taranto era di proporzioni colossali; trasportato a Roma da Fabio Massimo, passò in seguito a Costantinopoli, dove fu distrutto nel 1204 dai crociati latini per battere moneta; un ricordo di questa statua è in una cassetta eburnea bizantina di Xánthä. Un tardo scrittore bizantino, Niceta (De Alexio Isaaci Ang., III, p. 687), ci dice che nell’Eracle di Taranto era espresso un senso di sconforto e di stanchezza; invece nel bronzetto, alto meno di un piede, che L. eseguì per Alessandro Magno, risplendeva la serenità.
Il bronzetto era il portafortuna del conquistatore macedone, che lo tenne sempre con sé nell’impresa d’Asia e d’Africa; questo piccolo Eracle era chiamatoepitrapézios, perché di solito adornava la mensa del re; subì poi varie vicende; fu in possesso di Annibale, poi di Silla e fu cantato da Marziale (IX, 44 seg.) e da Stazio (Silvae, IV, 6, v. 32 segg.). Il ricordo del minuscolo capolavoro ci è conservato in riproduzioni più o meno fedeli, di marmo e di bronzo, tra cui una statuetta da Babilonia, il luogo ove morì Alessandro Magno, al British Museum, e, più notevole per accuratezza di forme, un torso acefalo da Gabii nel Louvre.
Ma L. rappresentò l’eroe anche nelle sue dodici fatiche, in un ciclo di gruppi per Alizia, città dell’Acarnania. Gli echi di questi gruppi sono forse da percepire in rilievi di sarcofagi romani; inoltre è probabile che il gruppo bronzeo di Eracle imberbe e un cervo del Museo nazionale di Palermo risalga al prototipo lisippeo, e che ad un Eracle del ciclo di Alizia si possa ricondurre la bella statua, piena di fisica tensione, degli Orti mecenaziani, ora nel Palazzo dei Conservatori a Roma.
Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 63) ci dice che L. cominciò a essere il ritrattista di Alessandro sin da quando questi era fanciullo. Il che significa che L. fu lo scultore della corte macedone sin dai tempi di Filippo, il padre di Alessandro (359-336 a. C.). Ma il regno di Alessandro segna l’apogeo dell’arte lisippea. È noto che il bellissimo re macedone non volle essere effigiato se non da Apelle in pittura, da Pirgotele nell’intaglio, da L. nel bronzo.
Presso gli antichi scrittori troviamo cenno di tre immagini lisippee di Alessandro Magno. Plutarco (De Alexandri Magni, ecc., II, 2) fa menzione d’un ritratto del Macedone in cui questi era in piedi, poggiato all’asta, col volto un po’ alzato. Di questa immagine sono rimasti ricordi modesti in statuette bronzee; ma lo schema rimase, perché fu applicato sia a diadochi, come nella bella statua bronzea del Museo nazionale romano (v. VII, tavola CCVII), sia a imperatori romani, come nell’Augusto del rilievo di San Vitale in Ravenna.
Velleio Patercolo (I, 11, 3), Arriano (Anab., I, 16, 7), Plutarco (op. cit., 16), Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 64), Giustino (XI, 6, 13) ci dànno notizia d’un gruppo bronzeo lisippeo in cui era Alessandro Magno a cavallo fra una torma di cavalieri nella battaglia del Granico; forse un’eco della figura del re risuona nella bella statuetta bronzea di Ercolano del Museo di Napoli (v. IX, tav. CLXV). Infine da Plinio (loc. cit.) e da Plutarco (op. cit., 40) sappiamo che in un dono votivo del macedone Cratero in Delfi, eseguito da L. insieme con Leocare, era rappresentato l’episodio di caccia in cui Cratero aiutò Alessandro assalito da un leone; un ricordo di questo gruppo è in un rilievo da Messene nel Louvre.
Il carattere lisippeo si riconosce in due ritratti di Alessandro Magno: in un’erma da villa Adriana nel Louvre e in una testa da Pergamo nel Museo di Istambul: dal volto piuttosto magro ben appaiono l’agitazione dello spirito di Alessandro, con quelle caratteristiche di virile e di leonino, osservate da Plutarco, che dànno un’impressione di energia e di nobiltà.
L’attività ritrattistica di L. non si restrinse ad Alessandro; abbiamo notizia di altri ritratti, sia di defunti, quali Esopo, i sette sapienti, Socrate e la poetessa Prassilla, sia di contemporanei, quali Efestione, Pite di Abdera, Seleuco Nicatore. Di quest’ultimo si ha copia in un busto bronzeo di Ercolano del Museo di Napoli, pieno di vigore e di espressione.
Sappiamo anche che L. eseguì una statua di flautista ubriaca, tema codesto che sembra preannunziare quanto poi esprimerà l’arte del più maturo realismo. Per il genere animalistico si ha notizia di un leone caduto, di un cavallo sfrenato, di una quadriga. Tutto ciò dimostra la grande versatililà dell’arte di L., il quale tuttavia rappresentò assai più di frequente la figura maschile che la femminile. Oltre a Prassilla e alla flautista ebbra, di L. sappiamo che eseguì le statue delle Muse per il tempio di Tiche a Megara (Pausania, I, 43,6). Ma il tipo femminile di L. non ci è noto con tutta sicurezza: dobbiamo forse riconoscerlo nella statua marmorea detta laGrande Ercolanense dell’Albertinum di Dresda (v. VIII, p. 868) figura ammantata piena di decoro, di nobiltà, di eleganza?
Artista multiforme fu L.; di questo si ha una prova anche in un passo di Ateneo (Deipnosoph., XI, p. 784) che ci riferisce che quando Cassandro, padrone della Macedonia, trasformò nel 315 a. C. l’antica Potideia in Cassandreia, diede a Lisippo l’incarico di foggiare un nuovo tipo di recipiente per l’esportazione del vino di Mende; il celebre artista non rifiutò l’incarico modesto.
Egli fu sempre un artista celebrato, ma certo il periodo felice della sua età dovette essere troncato dalla morte di Alessandro Magno. Già vecchio continuava a lavorare; così invero comincia un epigramma dell’Antologia Greca (IV, 16, 35): “Orsù, lavora, o vecchio L., scultore sicionio”. Fu artista longevo e attivissimo; Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 37) riferisce che per ogni opera che compiva egli deponeva in uno scrigno una moneta d’oro, e che alla sua morte si contarono in questo scrigno ben 1500 monete, vale a dire il ricordo di 1500 sculture: patrimonio grandissimo d’arte in gran parte disperso e distrutto. Attiva e frequentata fu la sua scuola, e i suoi scolari trasmisero nei tempi ellenistici le formule del maestro, conservando, anzi accentuando, i caratteri di audacia degli schemi a forme contorte e incrociate, di espressione vivacissima dell’animo, di studio attento della natura, sì da inaugurare, precisamente nel ritratto, una corrente veristica. Un esempio di quest’arte lisippea nell’età ellenistica si può addurre nell’intricato nesso dei due lottatori in marmo trovato presso il Laterano, ora negli Uffizî a Firenze. Degli scolari diretti di L. conosciamo dalle fonti letterarie i seguenti: i tre figli, Boeda, a cui è da attribuire con ogni probabilità il bel bronzo del Museo di Berlino che rappresenta un ragazzo atleta in preghiera, Daippo, Euticrate; poi Fanide, Eutichide, Carete. Si aggiunga infine che alla scuola lisippea pare appartenga un marmo insigne, cioè la Fanciulla d’Anzio del Museo Nazionale Romano. (V. tavv. LV e LVI).
PIRRO. – Re di Epiro, appartenente alla famiglia reale degli Eacidi. Nacque nel 319 o 318 a. C. da Eacida, figlio di Aribba, che allora regnava in Epiro. Eacida, che nella lotta tra Olimpiade e Cassandro per il predominio in Macedonia aveva preso parte per Olimpiade, dopo che Cassandro ebbe il sopravvento, fu dagli Epiroti deposto e fuggì in Etolia (317-6). Il figlio P. bambino fu salvato con una fuga romanzesca nell’Illiria. Eacida perì in un tentativo di ricuperare il regno, il quale invece fu occupato dal fratello maggiore di lui Alceta, che era stato diseredato dal padre Aribba. Alceta regnò d’intesa evidentemente con Cassandro e però quando Demetrio figlio di Antigono, detto poi Poliorcete, intervenne in Grecia contro l’egemonia macedonica (307-306), gli Epiroti si ribellarono contro Alceta mettendolo a morte, e P. in età di 11 o 12 anni con l’aiuto del re illirico Glaucia gli fu sostituito nel regno. Ma le fortune del giovanetto P. durarono quanto quelle di Demetrio. Quando questi dovette abbandonare la Grecia per aiutare il padre nella lotta decisiva contro i governatori coalizzati, anche P. fu cacciato dal regno e prese poi parte a fianco di Demetrio, segnalandovisi, alla decisiva battaglia d’Ipso (301) in cui Antigono fu sconfitto e ucciso. Rimase fedele a Demetrio dopo la sconfitta e fu da questo mandato a governare i suoi possessi greci e poi, quando Demetrio fece pace con Tolomeo di Lago, inviato in ostaggio in Egitto. Quivi egli si acquistò la benevolenza del re e la protezione della regina Berenice, sposò la figlia di lei di primo letto, Antigone, e poi fu mandato con aiuti egiziani in Epiro, dove regnava Neottolemo, d’intesa col re di Macedonia Cassandro. La morte di Cassandro (aprile 297) fu probabilmente l’occasione del ritorno di P. in Epiro, dove egli sulle prime divise il regno con Neottolemo, poi, ucciso a tradimento il collega in un banchetto, regnò da solo (probabilmente 297). Le discordie tra i due figli di Cassandro, Alessandro e Antipatro, che dopo la morte del primogenito Filippo si erano divisi il regno di Macedonia, diede occasione a un intervento di P. a favore del più giovane, Alessandro, minacciato dal fratello. P. si fece pagare il suo intervento con la cessione della Paravea e della Tinfea, dell’Amfilochia, di Ambracia e dell’Acarnania, che annesse al suo regno, e poi costrinse Antipatro a lasciare ad Alessandro il resto della parte che gli era stata assegnata. Ma poco dopo (294) Demetrio Poliorcete, che era tornato in Grecia e si era impadronito di Atene, intervenne in Macedonia e, ucciso Alessandro e scacciato Antipatro, s’impadronì del regno. Da questo momento le relazioni tra P. e Demetrio si cominciarono a turbare, e quando, auspici gli Etoli, si formò in Grecia una lega contro Demetrio, P. vi partecipò. Demetrio invase l’Etolia (289) e, lasciandovi con un forte reparto di truppe il suo generale Pantauco, mosse contro l’Epiro. Ma P., invasa l’Etolia, riportò su Pantauco una grande e decisiva vittoria in cui fece prigionieri 5000 Macedoni. Questa vittoria non solo liberò gli Etoli dal pericolo, ma indusse Demetrio a ritirarsi dall’Epiro, ripiegando in Macedonia. Qui una grave malattia da cui fu colpito diede a P., animato dal successo in Etolia, l’occasione di penetrare nel cuore del paese fino presso Edessa, ma si dovette poi ritirare quando Demetrio, risanato, mosse contro di lui; e si venne infine tra i due re a una pace sulla base dell’uti possidetis. Demetrio ne profittò per fare grandi preparativi militari per la conquista dell’Asia. Il pericolo indusse Lisimaco e Tolomeo a stringersi in lega contro di lui e a questa lega accedette subito P., rompendo la pace conclusa con Demetrio. Demetrio, mal visto dai suoi sudditi, fu abbandonato dall’esercito che aveva condotto contro P., il quale si divise con Lisimaco il regno di Macedonia (288), dopo di che, cercando Demetrio di riordinare le sue forze in Grecia e stando sul punto di assediare Atene che si era ribellata, P. comparve alle sue spalle e lo costrinse a lasciare l’assedio, onde fu poi accolto in Atene e festeggiato. Fece anche pace con Demetrio, ma la violò non appena Demetrio, passato in Asia, ebbe la peggio anche colà.
Circa questo tempo, il dominio di P. in Grecia raggiunse la massima estensione. Egli possedeva l’Epiro, i distretti montuosi confinanti a oriente, la Tinfea e la Paravea, inoltre tutta la Macedonia propriamente detta fino al fiume Assio, la massima parte della Tessaglia esclusa Demetriade e, delle regioni greche a sud dell’Epiro, Ambracia di cui fece la sua capitale, l’Amfilochia e l’Acarnania, con Leucade, a nord un tratto dell’Illiria meridionale comprendente Apollonia, se non forse anche Durazzo, e alcune isole dell’Adriatico e dello Ionio, tra cui principale Corcira, che aveva acquistata prima come dote di Lanassa, la figlia di Agatocle e poi, dopo che Lanassa divorziando da lui l’aveva consegnata al suo nuovo marito Demetrio Poliorcete, ricuperata con le armi in un momento non bene precisabile tra la partenza di Demetrio dalla Grecia e la guerra con Roma. Pareva un dominio assai vasto, ma non era una formazione organica attorno a un saldo nucleo centrale, sì un semplice conglomerato di territorî tenuti insieme non da un legame d’interessi o d’idealità comuni, ma dal valore guerriero del principe che li aveva conquistati; sicché questo conglomerato cominciò a sgretolarsi nella parte sua più importante e nello stesso tempo più vulnerabile alla prima occasione. Il disastro, con cui la spedizione di Demetrio in Asia terminò, permise a Lisimaco, che aveva rassodata la sua potenza in Tracia e in Asia, di rompere l’accordo fatto con P. Accolto favorevolmente dai Macedoni come vecchio ufficiale di Alessandro, Lisimaco riunì tutta la Macedonia e ricacciò P. nell’Epiro togliendogli anche la Tessaglia. Alla guerra che scoppiò poi tra Lisimaco e Seleuco, P. non partecipò, attendendone l’esito e sentendosi troppo inferiore a entrambi i contendenti. E anche dopo che Seleuco, vincitore di Lisimaco a Corupedio 1282), passò in Europa per raccoglierne l’eredità e fu assassinato da Tolomeo Cerauno, il figlio esule di Tolomeo di Lago che aveva accolto benevolmente presso di sé, e questi, tratto a sé l’esercito, s’apprestò a regnare sulla Macedonia, P. non fu tra quelli che gliela contesero, sebbene in quel momento potesse avere non lievi speranze di riconquistarla.
Ma maggiori speranze gli offriva l’Italia, dove i Tarentini in guerra con Roma lo chiamavano: quivi egli sperava, evidentemente con l’appoggio dei Greci d’ Italia e con quello degl’Italici avversi ai Romani, Sanniti, Lucani, e Bruzî, di costituirsi, vincendo Roma, un vasto principato. Non è qui il luogo di narrare le vicende di questa guerra (per la quale v. roma: Storia). In essa le forze dei contendenti, da una parte Roma coi suoi alleati latini e italici, dall’altra P. col suo stato epirotico, Taranto e altre città greche d’Italia e gli avversarî italici di Roma, a un dipresso si bilanciavano, e gli Epiroti avevano il vantaggio dell’ordinamento tattico più perfezionato che allora si conoscesse e un generale che i contemporanei e i posteri giudicarono concordemente per valore e perizia uno dei primi tra gli uomini di guerra ellenici. Ma i Romani e la loro federazione formavano una saldissima compagine, stretta insieme da vincoli di fratellanza militare, di consanguineità, d’interessi, d’affinità di costumi. Le genti che P. stringeva attorno a sé erano diversissime per costumi, nazionalità, condizioni sociali e ordinamenti, i loro interessi erano diversi e cozzanti, e gli stessi Epiroti non avevano nella campagna italica altro interesse che quello di conquistare gloria e bottino, perché è difficilissimo che fosse tra loro diffuso il pensiero di difendere la comune nazionalità greca, ed è persino molto incerto se lo stesso P. si sentisse e si rappresentasse quale protettore e vendicatore dei Greci, così come si era sentito e atteggiato Alessandro nel passare in Asia contro i Persiani. Il sentimento di nazionalità non giocava in questa guerra una parte se non assai debole e quasi inconsapevole. P. l’assunse, a preferenza della riconquista della Macedonia perché gli parve, date le forze di cui avrebbe disposto, più agevole e promettente risultati più grandiosi. In ciò s’ingannava, come l’evento ha dimostrato: e tutta la sua genialità e il sangue dei suoi Epiroti non valsero che a ritardare di pochi anni la sottomissione dei Greci d’Italia a Roma e a rendere più duro il trattamento che i Romani fecero ai vinti. Sicché non è dubbio che egli avrebbe potuto impiegare le forze di cui disponeva con maggiore vantaggio per gli Epiroti, per i Greci in generale e per sé stesso, combattendo in Macedonia e intervenendo nel momento del pericolo contro le orde celtiche che proprio, mentre egli pugnava contro i Romani, si riversavano in Macedonia, in Tracia e in Grecia. Ma questa invasione egli non poteva prevedere, né le occasioni che essa gli avrebbe offerto, come non poteva neppure valutare la validità delle forze di cui Roma disponeva e la salda compagine della federazione che le si stringeva attorno. Non tardò però ad avvedersene dopo la prima vittoria del Siri o di Eraclea (280) e soprattutto dopo l’audace marcia che lo condusse ad Anagni, a 60 miglia da Roma, marcia militarmente mirabile, ma destituita di qualsiasi effetto. E dovette riconoscere la piena fallacia delle sue speranze dopo la seconda vittoria, quella presso Ascoli di Puglia (279), che lasciò intatto il grosso delle forze romane e non gli permise neppure di tentare un’altra avanzata nel territorio nemico, come quella, del resto inutile, dell’anno precedente. Perciò egli cercò di concludere coi Romani una pace che garantisse l’indipendenza dei Tarentini e dei suoi alleati italici. Ma i Romani, a cui le stesse sue vittorie avevano dimostrato quanto poco avessero da temere da lui, rifiutarono, tanto più che offersero a loro l’alleanza contro P. i Cartaginesi, i quali temevano il suo intervento in Sicilia e desideravano che fosse trattenuto in Italia.
E tuttavia la certezza che la guerra sarebbe continuata in sua assenza, e quindi con danno inevitabile dei Greci e dei suoi alleati italici, non valse a trattenervelo. E si può dire che tanto il suo proprio interesse quanto quello dell’ellenismo lo indussero e quasi lo costrinsero a intervenire in Sicilia. Dopo la morte di Agatocle (289) le lotte intestine tra i Greci e quelle tra i Greci e i mercenarî italici del tiranno, i Mamertini, che si erano stabiliti in Messina impadronendosene a tradimento e facendo strage della popolazione, avevano causato la disgregazione dell’impero di Agatocle e dato agio ai Cartaginesi di riprendere i loro tentativi di conquista della Sicilia greca. Ora essi erano sul punto di vedere coronata dal successo questa loro aspirazione circa due secoli dopo la prima loro grande spedizione contro la Sicilia greca, quella che si era chiusa con la rotta d’Imera (480). Profittando infatti della lotta fra Tenone e Sosistrato per il possesso di Siracusa, che essi conducevano nella stessa città, dominando l’uno nella rocca dell’Ortigia, l’altro nei quartieri di terraferma, i Cartaginesi avevano assediato Siracusa per terra e per mare, e la resa della città pareva inevitabile. In questi frangenti tanto Tenone quanto Sosistrato si rivolsero a P., il quale intervenne nella speranza giustificata che avrebbe potuto vincere i Cartaginesi assai più facilmente dei Romani, e dopo la vittoria riprendere con maggiori forze e maggiore prestigio la guerra con Roma. Questo calcolo era in buona parte fondato; soltanto, tutta la storia precedente mostrava che quanto era facile vincere i Cartaginesi, altrettanto era difficile discacciarli dall’isola, e che non cacciati dall’isola essi erano sempre pronti a rinnovare i loro tentativi di conquista, sicché una guerra anche vittoriosa in Sicilia avrebbe difficilmente prodotto un accrescimento effettivo delle forze di cui P. disponeva contro i Romani. Ingannando la sorveglianza della squadra cartaginese che incrociava nello stretto di Messina, P. sbarcò felicemente presso Tauromenio e di lì procedette in direzione di Catania e di Siracusa: aveva con sé circa 10.000 uomini e navi da guerra e da trasporto. La flotta cartaginese che bloccava Siracusa non osò tagliare la via alle sue navi; egli entrò nella città ed ebbe da Tenone e Sosistrato la consegna dei quartieri che ciascuno di essi teneva, mentre i Cartaginesi toglievano il blocco per terra e per mare. Riconosciuto dai Sicelioti duce e re (ἡγεμὼν καὶ βασιλεύς), P. non solo poté liberare dai Cartaginesi tutto il territorio che essi occupavano nella Sicilia greca, ma condusse poi una campagna fortunata nella provincia cartaginese prendendo d’assalto la fortissima Erice e riducendo i Cartaginesi al possesso della sola Lilibeo. Lilibeo non poteva conquistarsi che assediandola per terra e per mare, e ad assediarla per mare occorreva la superiorità marittima che P. era ben lontano dal possedere. Sicché sarebbe stato prudente accettare la pace che Cargine offriva sulla base dell’uti possidetis, conservando in Sicilia la sola Lilibeo. P. avrebbe conseguito così ciò che nessuno dei tiranni di Siracusa aveva mai potuto ottenere. Certo questa pace sarebhe stata soltanto una tregua, ma della tregua si poteva approfittare sia per intervenire in Grecia prima che essa, dopo il turbamento provocato dall’invasione gallica, ritrovasse un assetto stabile, sia per risollevare le sorti della guerra in Italia con gli aiuti della vicina Sicilia greca, procedendo anche qui sulle tracce di Dionisio il Vecchio e di Agatocle. Ma i Sicelioti pensavano che sarebbe stato facile ora con un piccolo sforzo liberarsi per sempre dal pericolo cartaginese, e a P. arrideva la speranza di una guerra a fondo con Cartagine. Perciò egli non seppe resistere alle richieste dei suoi alleati e la guerra continuò. Sennonché dopo due mesi di vani tentativi egli dovette definitivamente convincersi che non era possibile conquistare Lilibeo attaccandola solo dalla parte di terra e s’apprestò a costruire una grande flotta per sbarcare in Africa e rinnovare ivi con migliore preparazione e maggiore speranza di successo l’audace tentativo di Agatocle. Ma per un tale miraggio egli perdette di vista i compiti più urgenti che l’attendevano in Grecia e in Italia, e inoltre non pensava che l’impresa avrebbe richiesto una tale tensione delle forze militari e finanziarie dell’isola quale era assai dubbio se i Sicelioti, esausti e depressi dal periodo di guerra e d’anarchia dopo la morte di Agatocle, avrebbero sopportato. D’altronde siffatti apprestamenti richiedevano concordia e severa disciplina, e P., principe straniero di consuetudini soldatesche, si guastò presto coi nuovi sudditi e volendosi assicurare l’ubbidienza con la forza suscitò dappertutto ire e ribellioni. Ciò lo indusse a incrudelire: mise a morte Tenone, mentre Sosistrato, temendo la stessa sorte, si salvò con la fuga ad Agrigento, ribellandosi. In tali condizioni non solo P. non poteva guadagnare terreno sui Cartaginesi, ma la stessa Sicilia non era più che un peso morto per lui, poiché per riconquistarla o anche solo per tenerne saldamente una parte avrebbe dovuto impegnare senza risultato forze anche più considerevoli di quelle di cui disponeva. Di tutto ciò approfittarono i Cartaginesi per ricuperare terreno e inviarono un nuovo esercito nell’isola. P. lo sbaragliò in battaglia e così, salvo il suo onore militare, poté evacuare interamente la Sicilia imbarcandosi con tutto il suo esercito per l’Italia. Da questa impresa pertanto egli non ricavò per sé, per lo stato epirota, per i suoi alleati d’Italia nessun vantaggio, anzi vi perdette uomini e denari. Ciò peraltro non fu invano per la causa dell’ellenismo, anzi per la causa della civiltà in generale, perché al suo intervento si deve se, più tardi, i Romani intervenendo in Sicilia non la trovarono trasformata interamente in una provincia cartaginese, ciò che avrebbe reso a loro assai più difficile la conquista dell’isola e avrebbe rese assai più dubbie le sorti del grande conflitto per il dominio del Mediterraneo occidentale. Ma queste non erano cose a cui P. potesse pensare, e allo stesso consolidamento dell’ellenismo in Sicilia è assai difficile che egli pensasse, se non in linea secondaria e come elemento sussidiario ai suoi piani d’impero. Nel tornare in Italia, P. non fu così fortunato come nell’andata e la sua flotta subì gravi perdite per opera della squadra cartaginese che incrociava nello stretto. Altre perdite il suo esercito toccò, dopo sbarcato, ad opera dei Campani di Reggio e dei loro alleati, i Mamertini. Tuttavia egli riuscì a disimpegnarsi, a ricuperare Locri che durante la sua assenza era venuta in potere del nemico e a raggiungere felicemente con le truppe il suo quartiere generale di Taranto. Qui riordinò l’esercito e si apprestò alla nuova campagna. Occorreva che egli riportasse qualche successo militare per rianimare i suoi alleati italici che molto avevano sofferto durante la sua assenza per la pressione dei Romani. I due consoli del 275, M. Curio Dentato e L. Cornelio Lentulo, operavano separatamente ciascuno con due legioni contro gli alleati italici di P. Il re si propose di attaccare l’uno di essi, Curio, che era a campo presso Maluento (la posteriore Benevento), prima che l’altro collega potesse raggiungerlo. Ma Curio attendendo il collega si teneva chiuso nelle fortificazioni del suo accampamento. Onde P. deliberò di assalirvelo per sorpresa. Il tentativo non riuscì e ne nacque un combattimento presso il campo romano in cui gli Epiroti ebbero la peggio e il re, riconoscendo fallita la sorpresa, ripiegò nel proprio campo. I Romani si ascrissero la vittoria e non a torto, sebbene il grosso delle forze nemiche fosse rimasto intatto, perché avvicinandosi l’altro console e non credendo il re di poter dare battaglia contro le forze riunite di entrambi, dovette chiudere la campagna tornando indietro. Con le truppe di cui disponeva egli si sarebbe potuto sostenere indefinitamente in Italia, come più tardi Annibale; ma Annibale non pensava che ad avvantaggiare la sua patria tenendo impegnati quanto più a lungo poteva i Romani lontano dall’Africa, P. non aveva nessun interesse né per sé stesso né come principe epirota a logorare le sue forze in una guerra che non gli dava una speranza di successo, mentre l’Epiro non correva alcun pericolo dalla parte dei Romani e poteva invece correrne per parte dei Macedoni. Sicché, dopo avere fatto un vano tentativo per indurre Antigono Gonata e Antioco Sotere di Siria a inviargli soccorsi coi quali riprendere con nuove forze la guerra contro Roma, s’imbarcò per l’Epiro con la maggior parte degli Epiroti sopravvissuti a tante battaglie, lasciando a Taranto fortemente presidiata il figlio Eleno. Questo mostra che non intendeva abbandonare Taranto alla sua sorte, ma non mostra ancora che avesse serie intenzioni di ritornare in Italia a riprendere una guerra in cui egli aveva dovuto riconoscere che le speranze di conquistarsi un impero erano scarse, e che la stessa difesa dei suoi alleati italici non si poteva effettuare senza sacrifizî assai gravi.
In Grecia nessuno allora minacciava l’Epiro. Antigono Gonata, il figlio di Demetrio Poliorcete, aveva fatto pace con Antioco Sotere rinunciando a ogni pretesa sull’Asia Minore, aveva acquistato prestigio con una grande vittoria sui Galli presso Lisimachia, e poi, invasa la Macedonia, aveva ricuperato il regno paterno e posto fine all’anarchia. Il solo pretendente che avrebbe potuto impedirgli la conquista, P., era allora impegnato nell’Occidente, sicché egli aveva potuto iniziare la riorganizzazione dello stato macedonico dando al paese respiro dopo tanti guai. Anche le condizioni della Grecia erano assai migliorate. Respinta l’invasione celtica, gli Etoli erano divenuti la potenza preponderante della Grecia settentrionale, la Beozia e l’Attica erano indipendenti, sebbene deboli e sebbene Antigono avesse conservato il possesso del Pireo. Nel Peloponneso si equilibravano gli Spartani, che avevano ripreso alquanto vigore sotto il governo energico di re Areo, e gli alleati della Macedonia, e qualche conato di rinnovata libertà repubblicana si cominciava ad attuare in Acaia. In tali condizioni un tentativo di dare alla penisola unità politica quale era riuscito a Filippo di Aminta, e non era riuscito più tardi a Demetrio Poliorcete, non aveva una seria speranza di successo, fatto su basi assai meno salde di quelle onde era partito Filippo, e per di più contrastato dalla Macedonia. L’occasione favorevole dell’invasione gallica e della successiva anarchia in Macedonia era trascorsa e ne avevano approfittato gli altri. Sicché un intervento di P., se poteva dargli, grazie alla permanente instabilità delle condizioni e al suo genio militare, qualche successo, doveva in sostanza giocare come elemento perturbatore, non come elemento unificatore. Certo, se si consolidava nuovamente la Macedonia, l’Epiro non poteva non trovarsi ridotto di nuovo in quella condizione di potenza di second’ordine, in cui era stato sempre prima di P. e anche sotto P., quando Lisimaco aveva conquistato la Macedonia. Ma questo non era se non la conseguenza inevitabile della misura effettiva della potenza epirotica, la quale dalle campagne di P. in Occidente non aveva avuto nessun incremento utile. Perciò, senza nessuna vera necessità e senza nessuna seria speranza di restaurazione e d’unificazione, P. iniziò la sua ultima avventura con un’ardita avanzata in Macedonia (274). Dopo un’avvisaglia fortunata contro Antigono, riuscì a ottenere che defezionasse a lui la falange macedonica. Antigono infatti non aveva ancora potuto radicare saldamente il suo dominio e i Macedoni non avevano ancora appreso quella fedeltà verso la sua casa che poi dimostrarono inconcussa per oltre cento anni fino alla battaglia di Pidna. Con ciò tutta l’alta Macedonia venne in mano di P., mentre Antigono conservò la Macedonia marittima e quella ad oriente dell’Assio. Era chiaro che questo smembramento della Macedonia non poteva essere stabile e che unificarla sotto il suo dominio P. non poteva, perché Antigono, padrone del mare, teneva saldamente le piazze marittime. Rimaneva da combattere Antigono nel Peloponneso dove egli conservava largo dominio. Ma qui, per ottenere risultati di qualche conto, bisognava abbattere la potenza spartana con rischio evidente che Areo e Antigono, fino allora rivali, unissero le forze contro il nuovo nemico. Anche qui P. agì di sorpresa. Con grande rapidità di mosse, attraverso l’Etolia che gli era amica, condusse l’esercito sulle sponde del golfo corinzio e lo tragittò nel Peloponneso. Qui fu accolto a braccia aperte dagli Achei, dagli Elei e da parte degli Arcadi che speravano in lui il tutore della propria libertà. Gli si diede perfino Megalopoli, che da tempo era come la cittadella del dominio macedonico nel Peloponneso; e P. invase senz’altro la Laconia portando con sé un pretendente di sangue reale, Cleonimo, che voleva sostituire ad Areo. L’attacco era stato così impreveduto che Areo era lontano e prendeva parte a una guerriglia in Creta. Ma la sorpresa di Sparta non riuscì a lui come non era riuscita poco meno di un secolo prima ad Epaminonda. La città d’altronde non era più aperta. Le fortificazioni furono riattate e gli Spartani, comprese le donne, si difesero accanitamente e riuscirono a sostenersi fino al ritorno di Areo. P. si propose di sottomettere Sparta bloccandola, ma sbarcò nel Peloponneso con un esercito Antigono, ciò che indusse P. ad abbandonare il blocco, per non rischiare egli stesso di essere chiuso in Laconia tra gli eserciti di Antigono e di Areo, e a ripiegare verso nord non senza subire gravi perdite per opera di Areo che lo seguiva passo passo. In Argolide egli si trovò di fronte i due eserciti avversarî, ma invece di abbandonare l’impresa riconoscendone il fallimento e mettendo in salvo a tempo il suo esercito, tentò di giocare l’ultima carta entrando in Argo per sorpresa in presenza dei due eserciti nemici. Se anche la sorpresa fosse riuscita, la sua posizione sarebbe stata sempre strategicamente assai grave e quasi disperata, così lontano come egli era dalla sua base epirotica in presenza di forze nemiche preponderanti che avevano assai più vicine le loro basi. Ma ad ogni modo il temerario tentativo fallì. Il re vi perdette la vita (273 o 272) e l’esercito dovette arrendersi agli avversarî. Antigono si mostrò clemente non solo onorando il cadavere del nemico, ma rilasciando il figlio di P., Eleno, che era venuto dall’Italia probabilmente con gran parte delle forze ivi rimaste per accompagnare il padre nella spedizione peloponnesiaca, e facendo pace con l’altro figlio Alessandro erede del trono (il figlio maggiore Tolomeo era morto combattendo presso Sparta). La pace gli ridava naturalmente la Macedonia, ma lasciava ad Alessandro l’Epiro coi territorî acquistati dal padre in Grecia: ciò che giovava allora anche alla Macedonia, la quale aveva bisogno di un periodo di raccoglimento e di consolidamento. L’impresa d’Italia terminò ingloriosamente col tradimento della rocca tarentina ai Romani per opera del comandante epirota Milone, il quale procedette, è da credere, d’accordo col nuovo re Alessandro per cui la conservazione di Taranto, dove il partito filoromano cominciava a dare serî fastidî agli Epiroti, non era che uno sperpero inutile di energie.
L’esame attento delle vicende di P. mostra che la molla di tutte le sue imprese fu il desiderio di costituirsi un impero. Questa sua ambizione non s’incontrò che parzialmente con gl’interessi dei suoi Epiroti, le cui migliori energie egli spese nel cercar di fondare tale impero. È chiaro infatti che essi dalla conquista dell’impero non avrebbero avuto nessun vantaggío proporzionato ai loro sacrifizî e ne avrebbero profittato assai meno di quel che i Macedoni dalla conquista dell’Asia. Fu invece ventura per P. che queste sue mire ambiziose combaciassero con la difesa degl’interessi ellenici nelle sue campagne occidentali, le quali del resto non giovarono affatto a lui e giovarono solo nella ristretta misura che abbiamo precisata alla causa dell’ellenismo. Ciò in parte, specie in Italia, procedette da cause indipendenti dalla sua volontà e da lui imprevedibili, ma in parte, specie in Sicilia, dipese dal fatto che egli non intervenne con la mira disinteressata di difendere l’ellenismo, ma anche e soprattutto con quella di fondarsi un impero. In Grecia poi, sebbene astrattamente si possa dire che ogni tentativo d’unità nazionale era utile ai Greci anche se vi riluttavano, in concreto non si può non rilevare che nei mezzi relativamente ristretti e nella mancanza in P. di una vera idealità che non fosse quella del soddisfacimento della propria ambizione, era il germe dell’insuccesso per cui i suoi tentativi furono in realtà dannosi non meno alla Grecia che all’Epiro. Le forze dell’Epiro nel pieno rigoglio si sperperarono nelle lotte fratricide senza risultato, mentre si sarebbero potute adoperare assai utilmente per stendere a nord i limiti dell’ellenismo nella regione illirica, ciò che poi avrebbe permesso ai Greci di resistere con maggiore speranza di successo alla penetrazione romana nella Penisola Balcanica.
Intellettualmente e moralmente P. non differì molto dai primi diadochi alla cui scuola egli visse e di cui condivise l’ambiente spirituale. Prode soldato, esperto ufficiale, egli non ebbe però né il genio creatore di un Epaminonda o di un Annibale, né le vaste concezioni di Annibale stesso, di Scipione o di Cesare, e la sua soverchia temerità spiega i non rari insuccessi, compreso quello in cui trovò la morte. Come politico ebbe larghezza di visuale e arditezza di concezioni, ma gli mancò il senso concreto del possibile. Non difettò di generosità magnanima, ma incrudelì quando ve lo spingeva l’interesse, e talora contro il suo interesse quando ve lo spingeva l’insofferenza d’ostacoli. Per soddisfare alla sua ambizione non esitò a ricorrere all’assassinio, come del resto fecero i suoi contemporanei, Cassandro, Demetrio Poliorcete e Tolomeo Cerauno: segno dell’inferiorità morale degli Epiroti e dei Macedoni rispetto agli altri Greci e della sfrenatezza cui apriva la via il potere illimitato e senza controlli. Anche nella vita familiare P. si comportò come la maggior parte dei diadochi. Dopo la morte di Antigone, figliastra di Tolomeo di Lago, egli sposò Lanassa, figlia di Agatocle, e nello stesso tempo si unì con una figlia di Audoleonte, re dei Peoni, e con Bircenna, figlia del re illirico Bardili, il che provocò lo sdegno e la separazione di Lanassa. Ebbe da Antigone Tolomeo, da Lanassa Alessandro, da Bircenna Eleno, e, non sappiamo se da Antigone o da una delle mogli barbare, una figlia, Olimpiade, la quale sposò il fratellastro Alessandro. Al pari di altri diadochi P. si sperimentò come scrittore. È menzionata una sua Tattica (τακτικά) e gli sono attribuite anche Memorie (ὑπομνήματα), che però non sappiamo se siano propriamente opera sua o solo scritte per sua iniziativa (gli scarsissimi frammenti in Müller, Fragm. Hist. Graec., II, p. 461).
Fonti: La storia di P., oltreché nelle Memorie dello stesso P., fu narrata in tutto o in parte da non pochi scrittori contemporanei, come Prosseno, che scrisse una storia epirotica (‘Ηπειρωτικά) in cui si parlava largamente di quel re, Ieronimo di Cardia (v.), che con le sue storie giungeva almeno fino alla morte di P., Duride di Samo, che si spingeva almeno fino alla battaglia di Corupedio, e Timeo che perveniva con la sua storia siciliana fino al passaggio in Sicilia dei Romani. Per le ultime vicende di P. soccorreva anche Clitarco, le cui storie s’iniziavano appunto con la spedizione di P. nel Peloponneso. Le fonti romane sono tutte assai posteriori e fondate solo in piccola misura sulle registrazioni contemporanee dei pontefici e in particolare sui fasti trionfali, in massima su tradizioni familiari più o meno alterate dalla vanagloria e sugli stessi Greci in parte tendenziosamente alterati e travisati. Faceva solo eccezione il discorso di Appio Claudio Cieco contro la pace con P., per la cui autenticità v. claudio cieco, appio. Tutte queste fonti sono perdute. Per noi la fonte principale è la vita di P. in Plutarco, al solito di difficilissima analisi, la quale contamina fonti greche con altre, come Dionisio di Alicarnasso, che, greche o no, risentono l’influsso dell’annalistica romana. Inoltre Diodoro, purtroppo frammentario (lib. XXI-XXII), Giustino, che riassume negligentemente Trogo e ha il solo vantaggio d’essere indipendente dalle falsificazioni dell’annalistica (lib. XVI-XVIII; XXIIIXXV), Pausania il Periegeta in parecchie digressioni, le Perioche di Livio (12-15), le cui storie per questo periodo mancano, e le altre fonti da lui derivate. Infine, anch’essi in tutto o in parte sotto l’influsso romano, Dionisio (frammenti dei lib. XIX e XX), Dione Cassio (fr. 39-40 e presso Zonara, VIII, 2-6) e Appiano (Samn., 7-12).
GIOVANNI d’Aragona. – Cardinale, nato nel 1463, morto nel 1485. Figlio di Ferrante re di Napoli, fu, “non maturo di senno, acerbo di anni” (L. Tosti), creato protonotario e abate di Montecassino, nel primo fervore di Sisto IV per un accordo col re contro i Turchi (1471). A Roma pronunziò allora un discorso per l’obbedienza al pontefice, che fu stampato come suo. Amministrò molte diocesi (Taranto 1477, Cosenza 1481, Salerno 1482, Strigonio [Esztergom] 1484); fu abbate della Cava, di S. Benedetto di Salerno, di S. Lorenzo di Aversa, della Pomposa, cardinale (10 dicembre 1477), legato due volte in Ungheria e in Germania (1479-80 e 1483-84). Il padre lo mandò a Roma per indurre Innocenzo VIII a non accogliere le richieste d’aiuto dei baroni: qui morì. Sono ricordate di lui istruzioni e lettere, manoscritte nell’archivio della Cava. Lasciò a Montecassino traccia onorevole del suo governo.
ARSENALE (dall’arabo dār aṣ–ṣinā ‛ah “casa di fabbricazione”; fr. arsenal; sp.arsenal; ted. Zeughaus, Arsenal; ingl. arsenal, dockyard). – È lo stabilimento di lavoro per la costruzione e riparazione di naviglio da guerra e in genere di tutte le armi, macchine e strumenti impiegati da detto naviglio e per la fabbricazione e la custodia di armi, specialmente di artiglieria, e di attrezzi d’ogni genere per gli eserciti. Dalla stessa origine deriva evidentemente anche la voce darsena che si dà ad uno specchio d’acqua interno con una sola o al massimo due strette comunicazioni col mare. La denominazione “arsenale” è ormai applicata solo a stabilimenti di carattere militare, tanto per l’esercito quanto per la marina: così mentre è opportuno in cose di marina aggiungere alla parola “arsenale” l’aggettivo qualificativo “marittimo”, è superfluo aggiungervi, come molti fanno, quello di “militare”. Uno stabilimento privato che possa eseguire i lavori che vengono di solito richiesti agli arsenali, e ciò tanto per la marina militare quanto per quella mercantile, non avrà mai modo di soddisfare alle esigenze varie di una flotta come vi soddisfa un arsenale e non viene mai indicato con questo nome, ma più genericamente come stabilimento od officina oppure con la sua ragione sociale. Nei paesi di lingua inglese gli arsenali marittimi vengono denominati in generedockyards in Inghilterra, e navy, yards in America.
Gli arsenali nell’antichità.
Organizzazione. – Nei tempi più antichi gli eserciti erano costituiti da soldati provvisti di armi proprie, che variavano a seconda dei mezzi e dei gusti individuali, pur uniformandosi ai criterî generali dell’epoca in fatto di armamento, e le stesse flotte risultavano dall’unione di navi costruite da singoli principi. Più tardi invece, in seguito all’estendersi dei poteri dello stato, alla maggiore ampiezza degli armamenti, e al perfezionamento dell’organizzazione e della tattica, che esige armamento uniforme e regolare, lo stato si assunse sempre più largamente la fabbricazione, la raccolta e la custodia delle armi, delle navi e di tutti gli altri materiali necessarî alla guerra terrestre e navale, e alle più o meno ricche sale d’armi private successero gli arsenali pubblici. Già nell’antico impero egiziano sono ricordati i sovrintendenti della camera delle armi del Faraone ed ogni distretto ha, oltre alla sua milizia, il suo arsenale, la casa delle armi. Un arsenale con armi, effetti di equipaggiamento e provvigioni è raffigurato, per esempio, in un rilievo di Tell-el-Amarna dell’epoca del nuovo impero. Gli eserciti dei re assiri, numerosi e perfettamente organizzati, disponevano naturalmente di grandi arsenali. Tiglatpilesar I (1115-1093 a. C.) si vantava d’aver fatto costruire più carri da guerra dei suoi predecessori, e le armi trovate in gran copia tra le rovine del palazzo di Sargon II (721-705 a. C.) attestano la ricchezza dell’armeria reale. I suoi successori Sennacheribbo e Asarhaddon si gloriano della costruzione del Palazzo che custodisce tutto, cioè di un arsenale ove si raccoglieva quanto era necessario per la guerra.
In Grecia gli stati più grandi cominciarono già nel sec. V a. C. a radunare armi, per far fronte al consumo richiesto dalle lunghe guerre e per fornirle ai cittadini meno abbienti chiamati al servizio militare in casi di grave necessità. Abbiamo però scarse notizie sugli arsenali terrestri dei Greci. Dionigi I di Siracusa (406-367), che si era assunto, disarmando i suoi concittadini, di provvedere in caso di guerra per intero all’armamento delle truppe (il primo caso di un intero esercito armato a spese dello stato), in vista della guerra contro Cartagine, radunò turbe di artefici per i suoi armamenti terrestri e marittimi; ma essi lavoravano non in un arsenale, ma qua e là in locali pubblici e privati secondo l’opportunità. Depositi d’armi sono attestati per Atene al tempo della guerra del Peloponneso, durante la quale essa armò da opliti a spese dello stato i teti; e sappiamo che l’oratore Licurgo, alla fine del sec. IV, preparò grandi depositi d’armi (fra cui 50.000 dardi) sull’Acropoli. I re dell’età ellenistica crearono grandi arsenali, dovendo provvedere direttamente all’armamento di tutte le loro truppe regolari. La Macedonia aveva nel 172 a. C. negli arsenali armi per tre eserciti, e un arsenale macedone è ricordato a Calcide (Livio, XXX, 23, 7; XLII, 52); Appiano (Proem., 10) enumera i grandiosi apparati militari terrestri e navali degli arsenali dei Tolomei d’Egitto.
Anche in Roma, i soldati dovevano più anticamente provvedersi le armi, ma lo stato cominciò presto, e in misura sempre crescente, a fornire armi regolamentari. Pare però che molto si lasciasse all’iniziativa dei comandanti degli eserciti, che avevano le loro officine e arsenali mobili (per Scipione Africano in Spagna, a Siracusa e in Africa: Livio, XXVI, 51, 8; XXIX, 22, 3; 35, 8). Gli armamentaria publica in Roma sono ricordati per la prima volta da Cicerone, Pro Rab., 20, per il tempo di Mario; sotto l’impero, un grande armamentarium era in Roma nei castra praetoria (v. Tacito, Hist., I, 38, 80 e Corp. Inscr. Lat., VI, 999, 2725), amministrato daarmamentarii, riuniti in decuria. Nelle provincie, ogni campo militare aveva il suo arsenale. Nel sec. III d. C., gli arsenali (fabricae) per la fabbricazione delle armi erano posti in città dell’interno, ed erano alla dipendenza dei magistri officiorum. Erano specializzati, e ne troviamo la lista nella Notitia Dignitatum; in Italia erano sei: a Concordia (saette), Verona (scudi e armi), a Mantova (loriche), Cremona (scudi), Pavia (archi) e Lucca (spade).
Meno scarse notizie abbiamo per gli arsenali marittimi, che sorsero in Grecia quando, verso la fine del sec. VII, gli stati cominciarono ad organizzare flotte da guerra regolari. Gli arsenali marittimi (τὰ νεώρια in senso lato) comprendevano principalmente le tettoie per il ricovero delle navi disarmate e tirate in secco (τὰ νεώρια in senso stretto) e il magazzeno per le attrezzature (σκευοϑήκη): lo stato non costruiva invece di solito le navi in proprî cantieri, ma ne affidava la costruzione a cantieri privati sotto la sorveglianza dei suoi organi, che le collaudavano.
Tutti i grandi porti militari dell’antichità avevano i loro νεώρια, che sono testimoniati dalle fonti e da rovine per Siracusa, Samo, Corinto, Cizico, Rodi, Eniade, Alessandria, Cartagine, Utica, Marsiglia, ecc.; Sparta aveva il suo arsenale marittimo al Gytheion. Ma i più famosi erano quelli ateniesi dei tre porti del Pireo, dei quali esistono ancora le tracce.
Costruiti nell’età periclea colla spesa di 1000 talenti, dopo la guerra del Peloponneso furono venduti dal governo dei Trenta per tre talenti per essere demoliti, ma furono ricostruiti nel sec. IV, e distrutti infine da Silla nell’86 a. C. Dalle iscrizioni sappiamo che nel 354 erano pronti per 300 navi, nel 330 per 372 (196 nel porto di Zea, 82 a Munichia, 94 nel porto di Kantharos). Dietro ai νεώρια del porto esclusivamente militare di Zea, stava la σκευοϑήκη (ὁπλοϑήκη in Strabone), il vero e proprio arsenale. Il vecchio edificio dell’arsenale, divenuto insufficiente, fu sostituito nel secolo IV da una grande costruzione eretta su progetto dell’architetto Filone di Eleusi.
La direzione amministrativa delle costruzioni navali spettava in Atene al Consiglio dei 500, che agiva per mezzo di una commissione di 10 τριηροποιοί, scelti fra i suoi membri uno per tribù e assistiti da architetti eletti dall’assemblea popolare, i quali avevano la direzione tecnica dei lavori. La sorveglianza sulle navi costruite e sugli arsenali era esercitata dallo stesso consiglio, fin dal sec. V, per mezzo di una seconda commissione da esso eletta, i νεωροί; gli ἐπιλελόμενοι τοῦ νεωρίου sono da alcuni ritenuti una terza commissione, da altri la stessa cosa dei νεωροί. I νεωροί cessarono quando i Trenta distrussero gli arsenali; ma quando flotta ed arsenali furono ricostruiti nel sec. IV, ripresero col titolo di οἱ τῶν νεωρίων ἐπιμεληταί o anche di οἱ τῶν νεωρίων, οἱ ἐν τοῖς νεωρίοις ἄρχοντες. Erano dieci magistrati (ἄρχονες), uno per ϕυλή, che duravano in carica per un anno; erano loro addetti un γραμματεύς, un perito (δοκιμαστής) e uno schiavo pubblico. Erano in continua relazione coi varî ταμίαι delle costruzioni e degli approvvigionamenti navali. I loro inventarî, che vanno dal 376/5 al 323/2, ci sono conservati in iscrizioni e sono pubblicati in Inscr. Graec., II, 789 sg. (Dittenberger, Sylloge Inscr. Graec., 3ª ed., n. 964): in essi gli ἐπιμεληταί segnavano lo stato delle navi e degli attrezzi giacenti negli arsenali, o che ne uscivano o entravano, i debiti e i pagamenti dei trierarchi. Avevano poteri giudiziarî per alcune questioni che rientravano nella loro competenza. Verso la fine del sec. IV c’erano in Atene anche due στρατηγοί ἐπι τὸν Πειραιᾶ, con la competenza specifica di sorvegliare i porti e gli arsenali, e uno ἐπί τὸ ξαυτικόν.
C’erano poi 500 guardiani dei cantieri (ϕρουροί ξεωρίων).
I Romani al tempo della repubblica non tennero mai flotte permanenti, ma preferivano costruirle di pianta quando ce n’era bisogno, o riattare vecchie navi rimaste eventualmente nei cantieri della capitale o delle colonie e città alleate. Roma non aveva perciò arsenali importanti come quelli delle città marittime greche e puniche. I due navalia erano sulla riva del Tevere, uno nel Campomarzio, l’altro più a valle ai piedi dell’Aventino; furono restaurati dal greco Ermodoro nel secolo II ed esistevano ancora sotto l’impero, sebbene la loro già scarsa importanza fosse diminuita ancora per la costruzione di porti militari altrove. Dopo Azio, scomparsa ogni altra potenza marittima dal Mediterraneo, i Romani non mantennero più flotte di grandi unità da battaglia, ma solo di piccole unità celeri, per le quali si costruirono porti militari a Miseno, a Ravenna e altrove. Questi porti dovevano avere i loro arsenali, ma non ne sappiamo nulla.
Bibl.: A. Ermane e H. Ranke, Aegypten, Tubinga 1923, pp. 96, 99, 621, 651; B. Meissner, Babylonien und Assyrien, I, Heidelberg 1920, p. 106; gli articoliArmamentorium, Fabrica, Portus, in Daremberg e Saglio, Dict. des Antiquités; art.Armamentarium e Fabrica, in De Ruggiero, Diz. Epigrafico; gli art.Armamentarium, Classis, Fabricenses, in Pauly-Wissowa, Real-Encyclopädie; J. Kromayer-G. Veith, Heerwesen u. Kriegführung der Griechen u. Römer, Monaco 1928, passim; A. Boeckh, Urkunden über das Seewesen des Attischen Staates, Berlino 1840 (vers. ital. in Pareto, Bibl. di Storia Economica, I); A. Köster, Das antike Seewesen, Berlino 1923, passim.
Pianta e costruzione. – La parola “arsenale”, nel suo significato principale di “luogo, dove si fabbricano i navigli e tutto quello che è necessario ad armarli e a guernirli”,esprime un concetto che non corrisponde più esattamente a quello dell’arsenale greco, che si chiamava con termine di numero plurale νεώρια, termine generale, che etimologicamente vuol dire “luogo, dove si ha cura delle navi”. Infatti oggi, essendo le navi da guerra e i grandi transatlantici costruiti prevalentemente in acciaio, e manovrati per mezzo di macchine, il concetto di arsenale si restringe piuttosto al luogo di costruzione e riparazione delle navi, le quali anche in tempo di pace o di riposo possono continuare a navigare o si fermano a cielo aperto nei porti; mentre invece gli antichi legni armati, assai più esposti ai danni delle intemperie, e manovrabili solo con forte impiego di forze umane, richiedevano di poter essere tirati in secco e custoditi, quando, nelle tregue fra guerra e guerra e nella stagione invernale, non si faceva uso di essi. Perciò l’arsenale antico, più che non l’arsenale moderno, presentava caratteri di affinità con gli hangars dei nostri campi di aviazione.
La parola σκευοϑήκη, molto usata nel mondo ellenico, designava una parte speciale dei neoria, e cioè l’edificio nel quale si conservavano tutti i materiali accessorî per l’armamento della flotta; con i termini ναυπήγιον e νεώλκιον si distinguevano invece i due aspetti speciali dell’arsenale classico, e cioè da una parte quello della costruzione e riparazione delle navi, il cui cantiere sembra fosse talvolta in luogo separato dei veri e proprî neoria, dall’altra quello della loro custodia.
Numerosi passi di autori antichi, e notevoli ritrovamenti archeologici ci aiutano a ricostruire idealmente i neoria greci del secolo IV e del principio del III a. C., mentre scarsissime sono le vestigia degli anteriori, che furono prevalentemente costruiti in legno, come quelli di Samo, i primi a essere citati dalle fonti: ogni città marittima d’importanza strategica o commerciale ebbe infatti naturalmente il suo arsenale. Molto celebre nell’antichità fu quello del Pireo costruito nell’età periclea, rovinato dopo la guerra del Peloponneso, rifatto nel sec. IV a. C. Suddiviso nelle tre baie fortificate di Kantharos, Zea e Munichia, era capace di contenere circa 400 navi: meglio conservati sono gli avanzi rimessi in luce in Zea dalla Società archeologica d’Atene nel 1885, per mezzo di un regolare scavo. Zea era il principale porto militare di Atene (mentre l’emporio commerciale si trovava in Kantharos) e dopo la ricostruzione del sec. IV, quando alle vecchie baracche si sostituirono solide mura, colonnati di pietra e tetti a due spioventi, poggiati su robuste travature di legno, esso conteneva 196 celle per navi da guerra. Queste celle, dette in greco νεώσοκοι, si appoggiavano posteriormente a un muro in pietra πόρος, il quale, in forma di poligono, cingeva tutta la baia; il muro distava all’incirca 37 metri dalla riva del mare. Tanti colonnati, a intervalli di circa m. 6,50 l’uno dall’altro, correvano perpendicolarmente al muro, da questo al mare, separando così una cella dall’altra. Fra i colonnati era murata a terra, nel senso della lunghezza, una guida in poros, larga 3 metri, leggermente inclinata, sulla quale scorreva la chiglia della nave, che entrava o usciva dalla sua custodia. In Zea le celle erano accoppiate a due a due sotto un comune tetto a due spioventi, ragione per cui un colonnato più alto e con intercolumnî minori si alternava con un colonnato meno alto con intercolumnî maggiori: sul colonnato più alto poggiava il trave centrale del tetto a due spioventi.
Vicina ai νρώσοικοι di Zea, ma separata da essi, a nord della baia, si ergeva la celebre σκευοϑήκη costruita dall’architetto Filone; i lavori iniziati nel 346 a. C. furono sospesi nel 339 a causa della guerra con Filippo di Macedonia, ripresi nell’anno seguente e ultimati nel 329. Una grande iscrizione attica di 5161 lettere, rinvenuta al Pireo nel 1885, nelle vicinanze del luogo dove sorse l’antico edificio (Inscr. Gr., II, 1054; Dittenberger, Sylloge Inscr. Graec., 3ª ed., n. 969), ci ha conservato notizie precise sulla costruzione di Filone; probabilmente il testo dell’iscrizione fu preparato dall’architetto, il quale fu anche autore di due opere ora perdute, ma citate da Vitruvio, l’una sulla simmetria nella costruzione dei templi, l’altra “sull’arsenale che aveva fatto nel Pireo”. È notevole come Filone si fosse preoccupato non solo della parte tecnica e della praticità dell’edificio, ma anche della sua estetica. La σκευοϑήκη di Zea aveva la pianta di un rettangolo allungato lungo circa m. 123, largo 17, con 3 finestre nei lati corti e 36 nei lati lunghi; le pareti erano coronate all’esterno da un fregio con triglifi; era coperta da un tetto a due spioventi, poggiato su travature di legno. L’interno era diviso in tre navate, per mezzo di due file di colonne: la navata centrale, più ampia, serviva al passaggio del popolo ateniese, che si recava a visitare, come in un museo, gli oggetti esposti nelle navate minori, suddivise in due piani: nell’inferiore, in 134 armadî, si conservavano vele e pezze di lino, nel superiore gomene e sartiame. Recentemente il danese Marstrand, riprendendo in esame la grande iscrizione di Zea, ha dato una ricostruzione accurata di questo edificio, che costituiva una parte tanto importante dell’antico arsenale del pireo.
Alcuni rapporti numerici, che per la filosofia pitagorica furono l’essenza di tutte le cose e il principio razionale dell’universo, ebbero importanza fondamentale nella costruzione dei templi greci, nella fabbricazione delle navi, nel fissare le proporzioni di certi tipi di bellezza umana, creati dalla scultura attica e peloponnesiaca. Il Marstrand, basandosi sulle misure e i dati tramandati dall’iscrizione, ha cercato di ritrovare le regole che determinarono l’opera di Filone, vale a dire di stabilire quali rapporti numerici fissarono le dimensioni verticali e orizzontali della celebre σκευοϑήκη. Questo fondamento matematico, filosofico, estetico permise a Filone di fare una così maravigliosa pubblica esplicazione della sua opera architettonica, durante un’assemblea popolare, che il popolo lo lodò non meno per la sua eloquenza che per la sua arte.
Oltre i neoria del Pireo, che furono bruciati da Silla nell’86 a. C. si conoscono abbastanza bene quelli di Eniade (Οἰνιάδαι) in Acarnania, già visitati e disegnati da Ciriaco d’Ancona nel 1436, e esplorati da una missione archeologica americana, nel 1900-1901. Tanto per le proporzioni, quanto per la disposizione delle celle, scavate in parte nella viva roccia, essi si rivelano molto affini a quelli di Zea, e perciò dovettero essere costruiti proprio all’inizio dell’età ellenistica. Anche qui i νεώσοικοι erano attigui l’uno all’altro e separati da colonnati. Ma ciascuna cella aveva un tetto proprio a due spioventi: le guide, scavate anch’esse nella roccia, sulle quali scorreva la chiglia dei navigli, appaiono perfezionate, in modo da permettere una manovra più rapida per l’ingresso e l’uscita della flotta, e la σκευοϑήκη non è più separata dalle celle come in Zea, ma attigua ad esse.
In età ellenistica (secoli III-I a. C.) ci dovette essere un incremento straordinario nella costruzione degli arsenali, incremento parallelo al diffondersi della civiltà greca in tutto il bacino del Mediterraneo, in seguito alle conquiste di Alessandro Magno e dei suoi successori. Si costruirono città nuove e nuovi porti, su piani regolatori molto progrediti al confronto di quelli delle più antiche città greche. I neoria, che fino allora erano stati costruiti nelle adiacenze immediate dei porti commerciali, degliemporia (salvo qualche eccezione), e che erano stati accessibili al pubblico, che vi circolava liberamente, cominciarono a separarsi, a isolarsi, a divenire di regola impenetrabili agli estranei, come i nostri arsenali della R. Marina: a Rodi, in età ellenistica, l’ingresso agli estranei nel porto militare era vietato con tanto rigore, che i trasgressori erano puniti con la morte.
Malgrado la rinomanza dei neoria ellenistici, non abbiamo notizie o ritrovamenti archeologici sufficienti per poterci fare una idea completa del loro tipo di costruzione.
A Cartagine il porto militare, dove si trovavano i neoria per le navi da guerra, era nettamente separato dal commerciale o emporion: questo ebbe forma rettangolare, quello circolare, e fu chiamato κώϑον. Ιneoria si componevano di 220 celle, distribuite tutt’intorno al porto circolare, e a una piccola isola centrale, tagliata artificialmente nella roccia, in forma di disco. La separazione fra cella e cella non era più costituita da colonnati, come a Zea e a Eniade, ma da muri pieni; c’era inoltre una divisione in due piani, in modo che i magazzini, le σκευοϑήκαι, i ταμιεῖα contenenti tutti i materiali necessarî all’armamento, erano disposti nel piano superiore: così dalla celebre σκευοϑήκη di Filone, costruita in luogo vicino, ma separato dalle celle delle navi, si arriva ai magazzini di Cartagine, molto più opportunamente distribuiti al piano superiore delle celle, uno per ogni singola nave.
A Tharros in Sardegna, si sono trovate alcune rovine portuali, che secondo alcuni sarebbero avanzi dell’aniico arsenale. I neoria ellenistici di Salonicco (Θεσσαλονίκη) furono bruciati da Perseo dopo la battaglia di Pidna.
La parola latina corrispondente a νεώρια è navalia. È da notarsi come tanto la parola greca, quanto la latina siano usate più comunemente al plurale, precisamente per esprimere come l’arsenale consistesse di più elementi simili fra loro, di costruzioni omogenee. Si discute il significato esatto della parola textrina, usata in età arcaica romana, per significare i navalia; forse l’analogia fra la tessitura in legno delle carene e la tessitura delle stoffe suggerì l’uso del vocabolo esprimente l’arte e l’officina del tessitore anche per indicare l’arsenale, e forse più specialmente quel reparto di esso destinato alla costruzione e riparazione delle navi. In ogni modo la parola textrina andò presto in disuso.
Se poco sappiamo dei neoria ellenistici, purtroppo pochissimo o quasi nulla conosciamo dei navalia romani. Certamente essi, nella loro costruzione, dovettero nel periodo repubblicano più antico essere imitazione del tipo greco, e derivazione dal tipo greco-ellenistico nell’età seguente e durante l’impero. Lo sviluppo nella struttura delle navi avvenuto dal periodo greco al romano, sviluppo che è analogo a quello delle forme architettoniche del tempio classico, ebbe certamente la sua ripercussione nella determinazione della pianta, delle dimensioni, dell’aspetto esteriore e della disposizione interna degli arsenali romani.
Quanto ai particolari architettonici e tecnici, poco si ricava da Vitruvio, il quale si limita ad alcuni consigli di carattere generale: orientare gli edifizî a nord per impedire l’azione deleteria degli insetti, che si moltiplicano al calore del sole; evitare il legno, per il pericolo degli incendî; regolare le proporzioni degli ambienti, in modo che vi possano essere accolte anche le navi più grandi. Infatti in uno dei rilievi della Colonna Traiana, nel quale è rappresentato un porto con i suoi navalia (non quello di Ancona, come si è creduto in passato) si distinguono nettamente le celle, non più con tetto a due spioventi, ma con volte in muratura e un magazzino oarmamentarium che corrisponde alla u.
Roma, dalla metà del sec. V a. C. fino ad Augusto, non ebbe arsenali così grandiosi come quelli di Atene e di altre città marinare. Le grandi flotte, di cui si ebbe bisogno in occasione di guerre combattute terra marique in periodo repubblicano, non poterono certo essere allestite sulle rive del Tevere, e si raccolsero in qualcuno dei porti romani meglio fortificati. Pozzuoli, per esempio, occupata durante la seconda guerra punica, per la felice postura del suo porto ebbe indubbiamente importantinavalia, che si vorrebbero da alcuni riconoscere in una pittura parietale, proveniente dalla cosiddetta casa del Laberinto di Pompei, e conservata ora nel museo di Napoli (secondo altri si tratterebhe piuttosto dell’arsenale di Miseno).
Sulle rive del Tevere a Ostia, come si ricava da un’iscrizione latina ivi trovata, dovette esserci un arsenale, costruito da L. Celio (L. Coilius) in età repubblicana, restaurato da P. Lucilio Gamala nel sec. II d. C.; si sa che nel 208 a. C. trenta navi furono riparate in Ostia. Si credette di poter riconoscere i navalia di Celio in un gruppo di rovine, prossimo al cosiddetto Palazzo imperiale (che in realtà è un edificio termale), ma è più probahile che esso sia invece un magazzino di grano. Dall’iscrizione di Ostia si ricava che gli arsenali romani si distinguevano inextruendis navibus facta per la costruzione, e in subducendis navibus facta per la conservazione della flotta.
Altri navalia furono nell’interno di Roma stessa: le navi dovevano abbassare gli alberi, e passare fra i piloni dei ponti, prima di giungere ad essi. Nel 332 a. C. esistevano già, poiché sappiamo che la flotta di Anzio fu in parte trasportata nei navali urbani e in parte bruciata. Anche dopo la battaglia di Pidna (168 a. C.) le navi tolte a Perseo, re di Macedonia, furono trasportate a Roma nel Campo Marzio. Al tempo della guerra contro Antioco il Grande, al principio del sec. II a. C., il pretore M. Giunio fu incaricato di riparare e di armare tutte le vecchie navi che si trovavano a Roma.
Quanto all’ubicazione di questi navali di città, i quali sono noti più attraverso le citazioni di antichi autori che per sicuri ritrovamenti archeologici, si sono emesse in passato opinioni diverse e contraddittorie. Finalmente si è riconosciuto che è impossibile riferire tutte le testimonianze ad un solo luogo, e che già al tempo della repubblica esistevano due arsenali diversi sulle rive del Tevere, uno nel Campo Marzio, davanti agli antichi Prata Quintia, all’incirca nella zona compresa fra l’odierno Palazzo Farnese e il fiume, e l’altro più a valle, ai piedi dell’Aventino, presso lo sbocco della Cloaca Massima: questo secondo arsenale, congiunto con l’emporium, si chiamava navale inferius. La più antica testimonianza per i navalia del Campo Marzio è forse un verso di Ennio citato da Servio (Ad Aeneid., XI, 326: ma Ennio due semplicemente campus). Da un passo di Cicerone (De or., I, 14,63) risulta che alla metà del sec. II a. C., Ermodoro, architetto greco, fu incaricato di restaurare inavalia di Roma, ma non sappiamo quali; in età imperiale non se ne fa più menzione.
Di quelli del Campo Marzio non si conservano vestigia. Del navale inferius c’è il ricordo anche nella marmorea Forma Urbis rinvenuta nel Foro e ora nel giardino del Palazzo dei conservatori in Campidoglio: il frammento originale, contenente la pianta di uno spazio circondato da mura su tre lati, con le lettere NAVAL EMFER (navale inferius) è ora perduto, ma conservato in un disegno della Biblioteca Vaticana. Ad esso possono avere appartenuto avanzi di costruzioni in blocchi di tufo, rinvenutisi in tempi diversi nelle vicinanze dello sbocco della Cloaca Massima. A volte i navali funzionarono come prigione: ad es. vi furono rinchiusi gli ostaggi dati dai Cartaginesi al principio della terza guerra punica.
L’importanza degli arsenali di Roma va diminuendo man mano che sorgono e si sviluppano i grandi porti di Claudio e di Traiano alla destra della foce del Tevere; nelnavale inferius, trasformato in una specie di museo, Procopio poté vedere la nave con la quale Enea approdò alle coste d’Italia. Questa trasformazione dell’arsenale in museo dovette essere non infrequente: Augusto dopo la hattaglia di Azio fondò unneorion sacro, nel quale furono esposti esemplari di tutte le navi tolte al nemico: presto l’edificio rimase distrutto da un incendio.
Pur avendo fatto di Miseno la stazione navale per la flotta romana del Tirreno, Augusto concepì il disegno di scavare un grande porto marittimo, commerciale e militare a Ostia, idea già vagheggiata da Cesare. Il porto fu poi costruito da Claudio e inaugurato da Nerone nel 54 d. C., ed ebbe certamente grandiosi navalia. Traiano fra il 100 e il 106 fu costretto a ingrandire il porto di Claudio, aggiungendo un bacino completamente nuovo, in forma di esagono, e scavando un canale di comunicazione fra questo e il fiume (l’odierno Fiumicino, ramo destro del delta del Tevere). I navali del porto traianeo sono riprodotti nel rovescio di molte monete del tempo, ma queste immagini per le loro proporzioni minuscole non possono dare che idee molto vaghe dei particolari architettonici. Recenti lavori di bonifica agricola a Fiumicino e il taglio di un nuovo canale per riportare le acque del Tevere nell’antico porto di Traiano, hanno facilitato lo studio di esso; tuttavia non essendosi potuti eseguire veri e proprî scavi archeologici, non si son fatte nuove constatazioni sulla costruzione dei navalia. Non è improbabile che alcuni dei molti edifici a lunghe serie di celle, segnati nelle piante topografiche del porto di Traiano come horrea facenti parte dell’emporio, possano un giorno essere riconosciuti come veri e propri navali romani.
Bibl.: M. Besnier, s. v. navalia, in Daremberg e Saglio, Dictionn. des Antiquités grecques et romaines, IV, p. 17 segg.; E. Saglio, s. v. Armamentarium, ibid., I, p. 431 segg.; Pauly-Wissowa, Real-Encycl. der class. Altertumswiss., s. v. Karthago, col. 2182 segg.; J. Schubring, Ein Beitrag zur Stadtgeschichte von Syrakus, inRheinisches Museum, n. s., XX (1865), p. 22 segg.; W. Judeich, Topographie von Athen, in I. Müller, Handbuch d. klass. Altertumsw., Monaco 1913, p. 384 segg. Per Eniade, v. American Journal of Archaeology, 1904, p. 227 segg.; A. S. Georgiadis,Les Ports de la Grèce dans l’Antiquité (1907), H. Jordan e Chr. Huelsen,Topographie der Stadt Rom im Alterthum, I, 3ª ed., Berlino 1907, pp. 143 segg., 485 segg. – Per i navalia di L. Celio a Ostia, v. J. Carcopino, Les Inscriptions Gamaléennes, in Mélanges École franç. de Rome, 1911; W. Marstrand, Arsenalet i Piraeus og oldtigens byggereregler, Copenaghen 1922; K. Lehmann e Hartleben,Die Antiken Hafenanlagen des Mittelmeeres, Lipsia 1923 (Klio, Beiheft XIV), con un catalogo alfabetico degli antichi porti: a p. 185, n. 6 bibliografia per il porto di Traiano; G. Calza, Ricognizioni topografiche nel porto di Traiano, in Notizie degli scavi, 1925, p. 54 segg.; E. Breccia, Cenni storici sui porti di Alessandria dalle origini ai nostri giorni, in Bulletin de la Société Archéol. d’Alexandrie, XXI (1925), pp. 3-26, 154-155.
Gli arsenali nel Medioevo e nell’età moderna.
I primi arsenali militari marittimi costruiti in Europa nel Medioevo furono quelli che le nostre repubbliche marinare dovettero allestire per potervi fabbricare, armare e riparare le navi alle quali era affidata la loro potenza.
Di questi stabilimenti ci sono rimaste notizie, descrizioni e, per alcuni di essi, anche resti piuttosto cospicui che ci permettono, per quanto modificati in epoche posteriori, di farci un’idea chiara dell’importanza e della funzione di tali costruzioni.
Analogamente a quelli moderni, gli arsenali medievali erano costituiti da un complesso di bacini o darsene, sulle cui banchine erano sistemati scali – coperti o no -, officine, magazzini, fabbriche d’armi, uffici e altre costruzioni. L’insieme era cinto da mura dove si aprivano in genere solamente due aperture: la porta donde transitavano i navigli e quella verso terra, destinata al passaggio delle persone e dei materiali.
Se dell’arsenale amalfitano non ci è rimasto altro che due scali coperti, di quello genovese ci sono restate solamente delle notizie, tra le quali quella della data di costruzione nel sec. XIII e il nome dell’architetto, il genovese Boccanegra.
Dell’arsenale pisano abbiamo alcuni resti seminascosti, deturpati e parzialmente interrati, ma sufficienti a darci un’idea abbastanza chiara dello stabilimento, soprattutto se studiati col sussidio di notizie storiche e con quello della descrizione e dei rilievi che di essi ci ha lasciato l’architetto francese Rohault de Fleury, il quale li studiò nella seconda metà del secolo scorso, quando erano meglio conservati.
L’arsenale di Pisa sorgeva sulla riva destra dell’Arno, presso la città, ed era circondato da mura munite di torri a custodia dei punti più importanti, tra i quali lo sbocco del Ponte a mare. Aveva questo ponte la testata sulla riva sinistra del fiume difesa da un castelletto, mentre quella sulla riva destra era compresa tra una fortezza, nella quale si ergeva l’alta torre detta Guelfa che esiste tuttora, e la porta d’ingresso verso terra dell’arsenale; munita, questa, di antiporto e forse di ponte levatoio, se, come è probabile, un fossato cingeva l’intero stabilimento dalla parte di terra. Nel tratto di mura che guarda a mezzogiorno, un poco più a ponente della fortezza, esiste tuttora, per quanto in parte interrata, la porta per la quale le galee entravano dal fiume nelle due darsene. Sulle banchine si affacciavano, secondo la testimonianza del Rohault de Fleury, due gruppi di scali coperti (complessivamente una trentina) che avevano una struttura ad archi trasversali e longitudinali e direzione obliqua rispetto ai bacini. Questo particolare costruttivo si spiega con la difficoltà di varo delle galee per la ristrettezza delle darsene; mentre la larghezza media degli scali (il minore di 9 m.) ci fa pensare alle modeste dimensioni delle galee stesse. Più a oriente delle costruzioni descritte precedentemente e che si possono far risalire ai secoli XIII e XIV, sono ancora conservati otto grandi capannoni in laterizio che si affacciano sull’Arno con un motivo di grandi archi poggianti su pilastri decorati da mascheroni marmorei. Tali fabbricati costituivano l’arsenale mediceo, dell’Ordine dei Cavalieri di S. Stefano, che venne costruito nel 1588.
Più interessante dei precedenti per la parte monumentale ancora esistente, per la sua vastità e per l’importanza storica è certamente l’arsenale di Venezia. La Repubblica veneta ebbe in questo gigantesco stabilimento, che essa costruì nel 1104, doge Ordelaffo Falier, uno strumento formidabile della sua prosperità.
Intorno alla primitiva piccola darsena, scavata fra le due isolette dette le Gemelle e comunicante per mezzo di un canale col bacino di S. Marco, venne successivamente costruita tutta una serie di opere che resero ben presto l’arsenale di Venezia uno stabilimento occupante, come anche attualmente, ben 32 ettari circa di superficie all’estremità orientale della città. Febbrile vi dovette essere il lavoro in alcune epoche. Così da occupare 16.000 operai e da suscitare nell’animo di Dante, che visitò spesso Venezia, l’ultima volta come ambasciatore di Guido da Polenta, l’impressione di cui son eco le celebri terzine del XXI dell’Inferno:
Quale nell’arzanà de’ Viniziani
Bolle l’inverno la tenace pece
A. rimpalmar li legni lor non sani….
Ai primitivi due accessi, quello marittimo e quello terrestre, situati tutt’e due dalla parte più antica dello stabilimento, ne venne aggiunto un terzo nel 1473 nel lato di levante, mettendo in comunicazione diretta la laguna con la parte dell’arsenale allora costruita, allo scopo di assicurare un comodo rifugio alle galee già pronte o in attesa di essere riparate. Quest’ingresso, chiuso al principio del secolo XVI, venne riaperto sotto il dominio napoleonico per poter permettere l’accesso all’arsenale dei potenti vascelli di quell’epoca e ricevette allora il nome di Porta Nuova di Mare. I due ingressi marittimi potevano essere sbarrati da cancelli di legno ed erano difesi da torri. Architettonicamente molto importante è l’ingresso terrestre, ricco portale ad arco, inquadrato da due coppie di colonne con capitelli bizantini e sul quale posa un’edicola a timpano recante in bassorilievo il leone di S. Marco. Questa bella opera architettonica venne eretta sotto il dogato di Pasquale Malipiero (1460) ed è attribuita da taluno al veronese fra’ Giocondo, da altri ad Antonio Gambello.
Dopo la vittoria di Lepanto (1571) si conferì a questo portale il valore di monumento commemorativo arricchendolo con vittorie alate, con trofei e con la statua di S. Giustina, nella cui ricorrenza (7 ottobre) era avvenuta la battaglia. Tale carattere di arco trionfale dato al monumento venne accentuato collocando attorno alla cancellata che lo ricinge alcune sculture greche di varie epoche, raffiguranti leoni e che erano state portate a Venezia, come bottino di guerra, in più volte, e specialmente da Francesco Morosini dopo la riconquista della Morea (1687).
Nell’interno dell’arsenale si conservano ancora alcuni degli antichi scali, alcune tettoie acquatiche (tra le quali, importanti, quelle cinquecentesche delle Gagiandrecioè “tartarughe” destinate al completamento delle galee già varate), la Tana oCasa del Canevo, lo scalo per la custodia del Bucintoro e l’ampio locale, lungo 150 metri, costruito verso la metà del sec. XVIII da Giuseppe Scalfarotto e destinato agli squadratori delle grandi ossature di navi. La Tana (così chiamata da Tanai, antico nome del fiume Don, alle cui bocche i Veneziani avevano gli stabilimenti commerciali che procuravano loro la canapa necessaria per la marina), ambiente destinato alla costruzione dei cordami e alla conservazione delle canape, venne ricostruita, al posto d’una più antica (1304), tra il I579 e il 1583, da Antonio da Ponte, l’architetto del Ponte di Rialto. Essa era un unico grandioso locale, lungo metri 316 e largo oltre 20, alto quasi altrettanto e diviso in tre navate da 84 colonne con capitelli dorici. Ora la Tana è suddivisa da tramezzi in varî magazzini.
Per la custodia del Bucintoro, il famoso naviglio riccamente adorno che la Repubblica usava nelle occasioni solenni, venne elevato tra il 1544 e il 1547, su disegno di Michele Sammicheli, veronese, un ampio locale con facciata di semplice e maschia architettura.
L’introduzione e il rapido aumentare dell’impiego delle armi da fuoco indussero ben presto le autorità della repubblica veneta a far confezionare e conservare in appositi reparti dell’arsenale sia le armi stesse sia le polveri e i proiettili. Alcuni gravi incendî, che avvennero al principio del sec. XVI nei locali dove si confezionavano e conservavano Je polveri, indussero il senato veneto ad allontanare dall’arsenale i servizî pirotecnici, conservando solamente quelli che non presentassero pericoli per l’incolumità dello stabilimento. Tra essi, quello importante della fusione delle artiglierie in bronzo, affidato per più che quattro secoli alla famiglia Alberghetti.
Le armi da fuoco e le munizioni furono allora conservate nelle Nuove sale d’armi, nel Parco delle bombarde e in altre parti dell’arsenale. Nel 1772 venne istituito un Museo d’artiglieria, il quale accolse le armi fuori uso. che avevano un notevole valore artistico.
L’arsenale di Venezia era governato da due magistrati ambedue temporanei, l’uno detto dei sopravveditori e l’altro dei provveditori o patroni; i primi erano senatori, i secondi patrizî: queste due magistrature unite si chiamavano eccellentissima banca. I sopravveditori avevano potestà civile e penale su tutte le persone impiegate nell’arsenale; essi invigilavano gli atti dei patroni, dai quali dipendeva l’ammiraglio dell’arsenale, che sopraintendeva alle costruzioni, riparazioni e armamenti, avendo sotto di sé il primo architetto navale, e anche alle opere idrauliche per l’arsenale. Alla dipendenza di quest’ultimo era pure il capitano dell’arsenale, che aveva incarico di polizia. Le costruzioni navali erano comandate dal senato e intraprese e dirette dai seguenti tecnici: un primo architetto navale, un secondo architetto navale, un aiutante del primo architetto, otto architetti costruttori, sei sottoarchitetti costruttori, quattro aiutanti di sottoarchitetti, otto primi aiutanti delle compagnie, otto secondi aiutanti delle compagnie, otto terzi aiutanti delle compagnie. Ogni ramo d’arte aveva i suoi capi d’opera o proti, i maestri, un certo numero di operai di varie classi e i garzoni. Tutti gli operai erano militarmente ordinati e denominati arsenalotti con impiego a vita trasferibile ai figli.
L’arsenale di Venezia fu utilizzato pure come arsenale della marina del regno d’Italia sotto Napoleone (1805-14). Indi subentrò l’Austria la quale, nel 1849, preferendo a Venezia Pola, vi intraprese la costruzione dell’arsenale, che divenne poi uno dei migliori e più efficienti arsenali d’Europa e passò, nel 1918 all’Italia, la quale però dopo pochi anni ne cedette molte parti e lo ridusse per il rimanente a semplice base navale.
I diversi stati, in cui era divisa prima del Risorgimento la nostra penisola, per lo più bagnati dal mare e con tradizioni marinari militari, oltre che commerciali, avevano ciascuno un proprio arsenale destinato specialmente alla costruzione del naviglio da guerra.
Tali erano per il regno di Sardegna l’arsenale di Villafranca, di cui è cenno fin dal 1750, e l’arsenale di Genova alla Darsena, dove nel 1851 fu inaugurato il primo bacino di carenaggio in muratura
La marina pontificia aveva il suo arsenale a Civitavecchia, eretto nel 1665 da Alessandro VII per opera del Bernini sotto l’ultimo bastione della fortezza fatta costruire da Giulio II: era costituito da sei cantieri o navate, alti e spaziosi tanto da poter contenere una galera in costruzione, oltre al deposito di tutti i materiali e alle necessarie officine. I sei cantieri erano a due a due accoppiati , per modo d’avere un unico piano, di varo; i tre piani di varo costituivano i tre lati di un esagono. L’edificio prospettava sulla rada con una serie di arcate divise da lesene.
La marina napoletana aveva l’arsenale di Napoli, eretto nel 577 dal viceré Mendoza (regnante in Spagna Filippo II d’Asburgo); ultimato verso il 1600, fu poi ampliato da Carlo di Borbone. Nel 1780, sotto Ferdinando IV di Borbone, Giovanni Edoardo Acton fondò il cantiere di Castellammare.
Sembra che fin dal 1808 Napoleone avesse avuto l’idea di trasferire alla Spezia, ingrandendoli, gli stabilimenti marittimi avuti da Genova; ma il primo progetto di legge per il trasferimento della marina miilitare da Genova alla Spezia fu presentato da Cavour alla Camera il 3 febbraio 1851, avendo egli l’intenzione di creare un nuovo porto militare alla Spezia e costruire invece a Genova alla Darsena, dove in quell’anno si apriva il primo bacino di carenaggio, un vasto deposito franco per il crescente movimento del naviglio mercantile. Altro progetto di legge fu presentato da Cavour il 28 febbraio 1857 per il trasferimento della marina militare da Genova alla Spezia e precisamente nel seno del Varignano: questo progetto, dopo aspre lotte al senato, divenne legge il 4 luglio successivo e poco dopo furono iniziati i lavori al Varignano. Un’altra legge dell’11 ottobre 1859 assegnava i fondi per la costruzione d’un arsenale militare marittimo nel golfo della Spezia. Finalmente venne la legge 18 luglio 1861, preparata ancora dal Cavour, e presentata alla camera il 12 giugno 1861 poco dopo la sua morte, la quale concedeva un fondo straordinario di 36 milioni, ripartito in sei esercizî fino al 1866, per la costruzione di un arsenale militare marittimo fra la città di Spezia e l’abitato di San Vito: il progetto dell’arsenale era già stato studiato da Domenico Chiodo e i lavori furono subito iniziati sotto la sua direzione.
Avviata a buon fine la sistemazione dell’arsenale della Spezia, il nuovo regno d’Italia, non appena annesse le provincie meridionali, doveva pensare alla costituzione d’un altro arsenale per queste provincie, che formavano il secondo dipartimento marittimo: la commissione nominata nel 1864 per scegliere la località più adatta a tale arsenale portò nell’anno successivo la sua scelta su Taranto che offriva alcuni vantaggi, non ultimo quello di poter essere facilmente protetto dalla parte del mare. Il primo progetto del nuovo arsenale, che ebbe poi diversi rimaneggiamenti, fu presentato nel marzo 1869: in base ad esso dal 1871 in poi vennero sottomesse al parlamento diverse proposte di legge per l’attuazione delle opere. I lavori per il primo impianto dell’arsenale furono approvati con legge 29 giugno 1882 e vennero subito dopo iniziati. Il primo bacino di carenaggio in muratura fu inaugurato il 7 giugno 1889.
L’arsenale di Napoli, ereditato dalla marina napoletana, fu impiegato ancora per molti anni, ma dopo la guerra europea, per la necessità di ridurre le spese generali degli arsenali, concentrando in poche sedi i lavori della flotta, fu dapprima ridotto a semplice base navale e quindi soppresso definitivamente nel 1927.
Cosi la marina militare italiana possiede ora i due arsenali della Spezia e di Taranto in efficienza e quello di Venezia in potenza, oltre al cantiere di Castellammare e a un certo numero di basi navali. L’arsenale della Spezia occupa una superficie di 1.200.000 mq. e impiega 378 operai permanenti e 5400 operai temporanei; quello di Taranto occupa una superficie di 680.000 mq. e impiega 179 operai permanenti e 3850 operai temporanei. Per l’uno e per l’altro occorre ancora tener conto degli operai impiegati dalle direzioni del munizionamento, aventi sede al di fuori dell’arsenale, che sono 68 permanenti e 1120 temporanei alla Spezia e 23 permanenti e 380 temporanei a Taranto.
Non tutte le nazioni estere che posseggono una marina militare hanno anche proprî arsenali. Riportiamo qui di seguito l’elenco degli arsenali facendo rilevare che la loro importanza relativa dipende essenzialmente dall’importanza della flotta cui devono servire. Argentina: Buenos Aires, Puerto Militar (Bahía Blanca), Río Santiago;Ausnalia: Cockatoo Island; Brasike: Rio de Janeiro; Chile: Punta Arenas, Talcahuano, Valparaiso; Danimarca: Copenaghen; Francia, in patria: Brest, Cherbourg, Lorient, Tolone; nelle colonie: Biserta (Sidi Bel Abbes); Germania: Wilhelmshafen; Giappone: Kure, Maizuru, Sasebo, Yokosuka; Grecia: Salamina;Inghilterra, in patria: Chatham, Devonport, Portsmouth, Rosyth, Sheerness; nelle colonie: Bermude, Città del Capo, Gibilterra, Hong Kong, Malta, Singapore;Iugoslavia: Teodo; Norvegia: Horten; Olanda: Amsterdam; Perù: Callao; Polonia: Gdynia, Portogallo: Lisbona; Romania: Galaţi; Russia: Kronstadt, Sebastopoli;Spagna: Ferrol; Stati Uniti, sull’Atlantico: Boston Mass., Brooklyn N. Y., Charleston S. C., Norfolk Va., Philadelphia Pa. (League Island), Portsmouth N. H., Washington D. C. (per la costruzione delle artiglierie); sul Pacifico: Mare Island Cal., Pearl Harbour Hawaii, Puget Sound Wash.; Svezia: Karlskrona; Uruguay: Montevideo.
Oltre ai marittimi dobbiamo ricordare gli arsenali terrestri, stabilimenti adibiti alla fabbricazione e conservazione delle armi da fuoco e degli altri attrezzi militari degli eserciti. Sono notevoli fra questi, oltre che per la loro importanza storico-militare, anche per il valore architettonico degli edifici in sé stessi, gli arsenali di Berlino e di Torino. L’arsenale di Berlino (Zeughaus) venne fatto costruire tra il 1694 e il 1706 dall’ultimo elettore del Brandeburgo, Federico III, che nel 1701 col nome di Federico I, divenne il primo re di Prussia. Il grandioso edificio (occupante un quadrato di 90 metri di lato con un grande cortile centrale) venne eretto probabilmente su disegni dell’architetto francese Francesco Blondel, dapprima sotto la direzione del Nering, poi sotto quella d’un altro francese, Jean de Bodt. Tanto la facciata, a due piani con un corpo centrale sporgente e con trofei d’armi sulla balaustrata terminale, quanto il cortile, decorato con maschere di guerrieri morenti, opere di Andrea Schlüter (1664-1714), come anche la decorazione di alcune sale, celebri quelle dei sovrani e dei generali, fanno di questo edificio una delle opere più interessanti dell’architettura berlinese dell’epoca e anche, per la robustezza e solennità delle linee, uno degli esempî più caratteristici di tal genere di fabbricati.
L’arsenale di Torino, edificio grandioso con due cortili e dall’architettura un poco massiccia, venne iniziato nel 1659 da Carlo Emanuele II, continuato da Vittorio Amedeo II, modificato da Carlo Emanuele III su disegni del Devincenti e terminato nella facciata all’angolo di via Arsenale, solamente nel 1890. L’arsenale torinese fu centro attivo nella costruzione di artiglierie in bronzo e in ferro, sia per i duchi di Savoia sia per i re di Sardegna; esso ebbe parte importante nelle guerre per l’unità italiana quando fu sotto la direzione del celebre costruttore di artiglierie generale Cavalli, e perfino nell’ultima guerra.
Bibl.: G. Rohault de Fleury, La Toscane au Moyen-âge, II, Parigi 1873, p. 10;Guida per l’arsenale di Venezia, Venezia 1829; M. Nani Mocenigo, L’arsenale di Venezia, in Rivista marittima, allegato al fasc. di aprile 1927; R. Ronzani, G. Luciolli e D. Dianoux, Les Monuments de Michel Sammicheli, Genova 1878, p. 89.
Organizzazione degli arsenali moderni.
Impianti. – Negli arsenali moderni troviamo sempre una o più darsene circondate dalle officine, le quali a loro volta sono separate dalle darsene da una banchina per il traffico del materiale e del personale.
Per facilitare i lavori di riparazione alle navi e l’imbarco dei materiali sarebbe desiderabile che le navi potessero ormeggiare col fianco alla banchina, ma ormai il numero delle navi che devono entrare nelle darsene o per lavori o anche solo per riparo e per facilitare il traffico con la terra è talmente grande e le loro dimensioni talmente aumentate, mentre le darsene, costruite molti anni addietro, hanno uno sviluppo di banchine così limitato, che è ben difficile che le navi possano attraccare di fianco: la quasi totalità è costretta a ormeggiarsi con la poppa alla banchina usando di passerelle o di scalandroni per il traffico e ciò porta l’inconveniente che per la loro lunghezza le prore si avanzano notevolmente entro lo specchio acqueo, riducendo la superficie libera di questo e rendendo così difficoltosi i movimenti delle altre navi che devono entrare e uscire. Queste difficoltà, che hanno tendenza ad aumentare col tempo piuttosto che diminuire, sono particolarmente sentite in quelle darsene in cui si aprono i bacini di carenaggio, specialmente se questi sono atti a ricevere navi molto lunghe. Così, a meno che l’arsenale non possegga diverse darsene, qualcuna delle quali possa essere lasciata completamente sgombra per il traffico delle navi da carenare in bacino, conviene studiare la costruzione dei bacini al di fuori delle darsene, anche se questo porti alla necessità di aumentare in modo sensibile l’importanza dell’officina che si deve creare in vicinanza dei bacini per i lavori di riparazione alle navi in bacino: quest’officina è detta di solito officina mista, perché raccoglie diverse categorie di mestieri per i lavori diversi di piccola mole che occorrono d’urgenza alle navi, le quali di solito si tengono in bacino il minor tempo possibile, essendo sempre assai numerose quelle che attendono il loro turno d’immissione. I lavori di più grossa mole vengono fatti invece nelle officine maggiori più particolarmeme attrezzate.
Compiti essenziali di un arsenale marittimo sono la costruzione e la riparazione delle navi: perciò la sua attività e la sua organizzazione devono essere sviluppate intorno a due centri principali di lavoro, cioè gli scali di costruzione e i bacini di carenaggio con le darsene di raddobbo. Questo per la fronte a mare, per la fronte a terra è sufficiente pensare al traffico del personale e ai collegamenti ferroviarî per l’introduzione dei materiali provenienti per via di terra e occorrenti per i lavori. Oltre gli scali di costruzione, e in loro vicinanza, vi possono essere anche uno o pihscali di aiaggio che servono per tirare a terra e riparare naviglio di limitate dimensioni senza ingombrare i bacini (v. anche bacino).
Attorno a questi due centri di lavoro si sviluppano tutti gli altri servizî che enumeriamo:
Centrali di produzione (con relative reti di distribuzione agli utenti): per energia elettrica per forza e per illuminazione; per aria compressa per utensili pneumatici, per forza idraulica per impianti idraulici (gru, presse, magli, ecc.); per ossigeno occorrente nei lavori di saldatura autogena; per acqua distillata per il servizio delle caldaie a tubi di acqua sulle navi. Centrali per prosciugamento dei bacini, ordinariamente con motori elettrici alimentati dalla rete di distribuzione principale. (Le centrali più importanti hanno proprî generatori di corrente per far fronte a eventuali interruzioni della linea principale). Stazioni per la carica degli accumulatori dei sommergibili.
Officine: carpentieri in ferro con reparti per fucinatura di verghe e lavorazione a macchina e con annessa sala a tracciare; carpentieri in legno con reparti calafati e per riparazione degli scafi delle imbarcazioni in legno; congegnatori con reparti per artiglierie; fabbri con reparti per la zincatura; fonditori con reparti modellisti; calderai con reparti tubisti e ramai; elettricisti con reparti per radiotelegrafia, telegrafi e telefoni; siluristi e torpedinieri; proiettili e bossoli; pirotecnici; segheria; attrezzatori; velai; pittori; mista per il servizio dei bacini.
Depositi e magazzini: piazzale per lamiere e profilati in vicinanza degli scali e dell’officina dei carpentieri in ferro; deposito degli avantiscali; tettoie per il legname; magazzino generale; magazzino per pezzi di rispetto degli apparati motori; magazzino di materiale elettrico; magazzino di modelli per la fonderia; parchi di artiglierie; parchi di ancore e catene; parchi per torpedini; parchi di paramine; parchi di reti per ostruzioni; depositi di siluri; magazzini coperti per deposito d’imbarcazioni; magazzini viveri; magazzini vestiario; depositi di carbone con pontili d’approdo per imbarco e sbarco; depositi di combustibili liquidi (nafta, benzina) con relativi pontili d’approdo; depositi di olî lubrificanti; depositi di bombole metalliche; depositi di pitture e di analoghe sostanze infiammabili depositi per oggetti dismessi in attesa di demolizione e vendita; depositi di rottami; deposito di rifiuti con relativo impianto di smaltimento; deposito per locomotive e gru spostabili su binarî a scartamento ferroviario; rimessa per automobili e camions; magazzini di ricezione delle merci introdotte nell’arsenale dal retroterra; magazzini per la merce in arrivo e partenza per via di mare; banchine per il deposito e la riparazione di galleggianti diversi d’arsenale.
A questi occorre poi aggiungere una serie di altri impianti, i quali, pur non essendo strettamente legati col servizio di un arsenale, sono assai spesso, tutti o in parte, inclusi in esso costituendo delle utili integrazioni al complesso dei lavori che vi si svolgono. Tali sono per esempio: vasca per esperienze di architettura navale; laboratorio per prove di materiali e per esperimenti diversi; laboratorio ottico; laboratorio per analisi chimiche; laboratorio per elettricità; tipografia con annessa legatoria; cianografia ed eliografia.
Abbiamo accennato sin qui solamente alle sistemazioni riguardanti il materiale, e dobbiamo ora occuparci del personale e delle sistemazioni a esso relative, tanto per il personale dirigente e per gli uffici quanto per il personale militare e operaio. Gli uffici devono comprendere quelli del comando e quelli delle direzioni dei lavori. Per il personale operaio occorre disporre di spogliatoi e di docce comuni, oltre quelle particolari che insieme con altre provvidenze igieniche devono essere predisposte per alcune categorie della maestranza, come a esempio i pittori; inoltre di un refettorio, dove il personale possa consumare i suoi pasti ed eventualmente provvedere all’acquisto di qualche cibo caldo, e d’impianti sanitarî igienici, aereati, con abbondante acqua, distribuiti opportunamente.
Per il personale militare occorre distinguere fra quello che può alloggiare a bordo delle navi e l’altro che non ha tale possibilità o perché le navi non lo consentono per costruzione (sommergibili) o perché sono in grandi riparazioni: e allora occorrono caserme. Non dovrebbero essere trascurati i mezzi per raccogliere il personale militare in ambiente confortevole per allontanarlo dalle malsane attrattive della città: così dovrebbero trovarsi sempre entro il recinto dell’arsenale un circolo per sottufficiali e sale di lettura per i marinai con locali per proiezioni cinematografiche. Né dovrebbe trascurarsi di trovare il terreno per un campo sportivo.
Nel far l’esame delle esigenze varie a cui deve soddisfare dal punto di vista materiale un arsenale moderno nulla si è detto di proposito sul migliore raggruppamento delle varie officine e dei magazzini e depositi nei riguardi dei due centri principali di lavoro (scali e bacini) ai quali abbiamo accennato in principio: è questo un argomento che richiederebbe una trattazione troppo estesa, mentre d’altra parte il problema che esso importa, cioè lo studio della pianta di un arsenale, deve dipendere nella sua soluzione prima di tutto dalla località disponibile per l’impianto dell’arsenale e dalla posizione degli scali e dei bacini che nella maggior parte dei casi è obbligata, a causa della configurazione del terreno. Del resto al giorno d’oggi non ci si trova più nel caso di dover studiare a nuovo un arsenale altro che in casi rarissimi, ad es. l’arsenale di Singapore che gl’Inglesi stanno ora costruendo nella Penisola Malacca; per gli arsenali già esistenti, i quali (hanno adattato i servizî varî alle esigenze della distribuzione già effettuata delle officine, il problema d’un rimaneggiamento di queste per soddisfare in modo migliore alle esigenze dei lavori, mentre può avere dal punto di vista tecnico più di una soluzione buona, si troverebbe spesso praticamente insolubile per ragioni economiche, poiché le spese dirette e indirette che ci vorrebbero, difficilmente potrebbero essere compensate da un vantaggio effettivo valutato in migliore rendimento economico del lavoro, anche se distribuite in un lungo numero d’anni. Così si può dire che presentemente non si pongono nemmeno problemi di tale natura; le esigenze che si vengono a manifestare in alcuni rami del servizio sono di solito soddisfatte con rimaneggiamenti parziali, dei quali non si va però mai a valutare il rendimento economico, che risulterebbe nella maggior parte dei casi assai basso.
Organizzazione. – I sistemi di organizzazione degli arsenali variano da paese a paese secondo i concetti che hanno prevalso a volta a volta in ciascuno di essi, ma occorre premettere a questo esame che purtroppo, trattandosi di organismi militari, spesso, e specialmente da noi, la loro organizzazione è più intesa a soddisfare certe esigenze di dipendenza gerarchica di corpi militari e a mantenere vecchie tradizioni non più giustificate dalla pratica moderna, che a costituire un ente, il quale, pur soddisfacendo alle necessità particolari derivanti dal mantenimento in efficienza della flotta e dei diversi servizi logistici d’una piazza marittima, tenda ad avere carattere industriale e a svolgere quindi in modo economico i lavori che gli vengono affidati. Questa è una delle ragioni per cui oramai è pacifico che agli arsenali nostri vengono lasciati soltanto lavori di manutenzione e di riparazione al naviglio militare, per i quali sono più indicati a motivo dell’elasticità con la quale vi possono soddisfare, e sono state praticamente tolte le nuove costruzioni, che vengono quasi del tutto assorbite dall’industria privata. Una delle ragioni più importanti di questo passaggio delle nuove costruzioni ai cantieri privati sta però nel fattore politico di distribuzione del lavoro alle diverse regioni e nella necessità di mantenere cantieri e maestranze attrezzati a costruire naviglio militare per utilizzarli in pieno in tempo di guerra.
Riportiamo nei diagrammi la distribuzione schematica della organizzazione d’un arsenale italiano, d’un arsenale francese, di un arsenale inglese e di due tipici arsenali americani. Si osserva che negli Stati Uniti la distribuzione e la denominazione degli uffici varia, si può dire, da arsenale ad arsenale; sono indicate quindi le organizzazioni di quello di Puget Sound Wash., che si può dire uno dei più moderni, e di quello di Brooklyn N. Y.
Lo studio approfondito e dettagliato di queste diverse organizzazioni ci porterebbe molto oltre, anche perché esso richiederebbe in primo luogo un esame comparativo della composizione e delle attribuzioni dei varî corpi militari nelle diverse marine. Ma possiamo affermare che un’efficace organizzazione industriale e un buon rendimento economico d’un arsenale non si può avere senza una direzione unica affidata a un tecnico; il comando militare dell’arsenale non sarebbe in nulla menomato nella sua funzione e nel suo prestigio, qualora fosse reso estraneo a tutto il funzionamento tecnico e amministrativo dei lavori e si limitasse all’impiego dei mezzi logistici, alla sorveglianza militare. dello stabilimento, alla vigilanza sui movimenti delle navi negli specchi acquei delle darsene, all’ispezione sulle caserme, campi sportivi, circoli per sottufficiali e marinai e in genere su tutti i servizî di carattere militare esistenti nello stabilimento. Il comandante dell’arsenale, così come è da noi costituito, ha solo un’apparenza di comando, quando lo si confronti con i comandi di carattere militare, più consoni alla natura e alla preparazione degli ufficiali di vascello, nei quali comandi veramente questi possono esplicare le loro qualità peculiari affinate dal lungo esercizio e rafforzate dal sentimento della responsabilità: in molte cose presentemente un comandante di arsenale, il quale abbia un equilibrato sentimento della posizione che occupa, è costretto a prendere solo atto di quanto dispongono i direttori dei lavori che da lui dipendono e, se è pur vero che con la distribuzione attuale delle direzioni dei lavori è logico che vi sia un’autorità, la quale tutte le assommi e le coordini, anche per soddisfare a un’impellente necessità di armonia organizzativa, pure non è meno evidente agli occhi di chiunque non sia digiuno di organizzazione industriale, che un rendimento economico e un sano sviluppo industriale degli arsenali non si possono avere se non si concentri sotto un’unica direzione tecnica tutto il servizio delle officine, dei lavori e degli approvvigionamenti. Questi concetti sono stati più d’una volta affermati anche in Inghilterra da commissioni incaricate appunto dello studio specifico del problema degli arsenali, ma anche in quel paese non hanno trovato fino ad ora completa applicazione. Nei nostri arsenali i direttori dei lavori hanno il grado di colonnello ed esercitano le loro funzioni coadiuvati dal vicedirettore, che ha normalmente l’incarico diretto del personale e degli approvvigionamenti, e da un certo numero di ufficiali tecnici dello stesso corpo per la direzione delle officine e dei lavori e da ufficiali del corpo di commissariato per la parte amministrativa. Alla dipendenza degli ufficiali tecnici sono i capi tecnici, i quali si occupano direttamente dell’esecuzione dei lavori in officina col titolo di capo-officina e a bordo delle navi. Sotto i capi tecnici è distribuito il personale operaio, costituito da operai permanenti e cioè non soggetti a licenziamenti che in determinate condizioni, e da operai temporanei, per i quali il contratto di lavoro ha durata varia, ma non mai superiore a un anno, per quanto rinnovabile. Fra gli operai permanenti sono scelti i capi operai, ai quali viene affidata la sorveglianza e direzione di lavori di particolare importanza. Oltre agli operai temporanei si hanno anche i giornalieri, assunti volta a volta per determinati lavori. (V. Tavv. CXXXVII-CXXXVIII).
(A. T., 27-28-29). – Antichissima città dell’Italia meridionale, situata sul Mare Ionio, nel tratto in cui su questo mare la Penisola Salentina si salda al continente. Il primitivo nucleo cittadino sorge su di un cordone litoraneo che divide dal mare aperto (localmente distinto col nome di Mare Grande) un’area lagunare che si allunga considerevolmente verso l’interno a forma di due distinti seni circolari e che prende il nome di Mare Piccolo. Questa area lagunare comunica col mare aperto mercé due canali, che limitano per l’appunto il cordone litoraneo suddetto e sono sormontati da due ponti, l’uno in direzione di NO. dalla parte della stazione ferroviaria, l’altro in direzione di SE. verso la “Taranto nuova”. Il primo ponte, detto di Porta Napoli, è lungo 115 m. e il canale che da esso è sormontato costituisce un’intaccatura naturale del cordone litoraneo; il secondo ponte è lungo 86 m., a una sola arcata, in ferro, e il canale che da esso è sorm0ntato è artificiale e fu tagliato nel 1480 con fine difensivo, per isolare la città. Questo ponte, costruito nel 1886, è girevole, perché, allo scopo di soddisfare le esigenze della marina militare e consentire il passaggio alle grandi navi, attraverso il canale, tra il Mare Piccolo e il Mare Grande, esso può essere aperto nel mezzo e permettere ai due bracci da cui è formato di girare su sé stessi e addossarsi ai parapetti del canale.
La topografia della città e il suo sviluppo dipendono, pertanto, dalle sue condizioni fisiche. Decaduta, con la conquista romana prima e con le invasioni barbariche dopo, dai fastigi a cui era pervenuta come fiorentissima città della Magna Grecia, Taranto si raccolse nel tratto più stretto del cordone lagunare suddetto, ove oggi è appunto la città vecchia con le sue quattro anguste strade parallele, unite fra loro da un dedalo di viuzze strettissime e tortuose, e con i principali monumenti medievali. Presso a poco in questi limiti, Taranto rimase sino alla costituzione a unità del Regno d’Italia, dopo di che, partecipe del magnifico rigoglio economico che tutta la Puglia ha avuto dalla seconda metà del sec. XIX, e divenuta, con la creazione del porto militare e con l’arsenale militare, una delle due importantissime piazze della marina militare italiana, essa si è spinta topograficamente al di là dei canali e ha costruito, prima verso SE., proprio dalla parte dell’arsenale, il suo ampio “Borgo”, con una magnifica rete di vie diritte e parallele, con palazzi superbi, con vaste piazze e giardini, e ha cominciato a espandersi poi anche verso NO., nella zona del porto mercantile e della stazione ferroviaria, a creare la “città nuovissima”, prospiciente al Mare Piccolo. Le cifre della popolazione rispecchiano questo recente progresso edilizio della città.
Dalle prime numerazioni dei fuochi ai primi censimenti del Regno d’Italia, la situazione demografica di Taranto si mantiene sempre modesta: figura di circa 2200 ab. verso la metà del sec. XVI e di 1650 alla metà del XVII, salvo a discendere a poco più di mille in seguito alla terribile pestilenza del 1656; si svolge con notevole progresso in tutto il sec. XVIII, raggiungendo nel 1800 la cifra di circa 17.000 abitanti; presenta nel 1861 la valutazione ufficiale di 27.484 ab., che passano a 27.546 nel 1871 e a 33.942 nel 1881. Lo sviluppo veramente straordinario della città si ha nel cinquantennio successivo: il censimento del 1901 segnala già 60.733 ab., che salgono a 103.807 nel 1921, e sono 127.230 nel 1936. Per questo suo progresso urbanistico e per il magnifico contributo dato negli anni della guerra mondiale, con il suo apparato militare, alla vittoria delle armi italiane, Taranto fu elevata nel 1923 a capoluogo di provincia ed ebbe nuovo fervore di iniziative nello sviluppo cittadino con la costruzione di splendidi edifizî (imponente fra tutti il nuovo palazzo del governo), col tracciato di ampie arterie stradali (mirabile specialmente il Lungomare), con la creazione di altri istituti d’istruzione, col miglioramento delle opere portuarie, ecc.
Il territorio comunale di Taranto, della notevole estensione di 310,16 kmq. (esso abbraccia anche le due frazioni di Statte e Talsano), è coltivato per poco meno di un terzo a seminativi, per un altro terzo a oliveti e per il resto a vigneti, frutteti, ecc. La coltura perciò prevalente nell’agro tarantino è l’olivo, che prospera rigogliosamente sugli ultimi terrazzi tufacei con cui le Murge scendono al Mar Ionio.
Molto esercitata a Taranto è la pesca, sia nel Mar Piccolo sia nel tratto del golfo che è compreso fra il continente e le isole S. Pietro e San Paolo (le antiche Cheradi); essa è costituita specialmente di aurate, triglie, cefali e acciughe.
Vasta rinomanza ha la coltivazione delle ostriche e dei mitili (cozze nere e cozze pelose), che trova nel Mar Piccolo condizioni ambientali assai favorevoli; essa è praticata da tempi antichissimi, ma si è migliorata e perfezionata solo recentemente; all’uopo Taranto è stata dotata di un Istituto demaniale di biologia marina, razionalmente attrezzato per le ricerche pratiche sulla molluschicoltura e in generale per le esperienze di biologia marina. La produzione delle ostriche è a Taranto altissima: si calcola a oltre 5 milioni di unità; quella dei mitili si è aggirata, negli ultimi anni, intorno ai 36-40 mila q. (10-20 mila nel 1914).
Oltre però che nell’agricoltura e nella pesca, Taranto ha conseguito negli ultimi decennî un progresso assai notevole nell’attività industriale e commerciale, in gran parte peraltro determinato dalla sua più spiccata funzione marinara, dallo stesso sviluppo demografico e dalla mirabile trasformazione agraria del suo vasto retroterra, che risale fino alle alture di Martina Franca, di Gioia del Colle e di Ginosa. Sono così sorti cantieri per le costruzioni navali, fabbriche di laterizî e di ceramiche, di concimi chimici, di saponi, di conserve alimentari, pastifici e molini, oleifici, caseifici, fabbriche di mobili, calzaturifici; è in esercizio una delle più grandi fabbriche italiane di birra e ghiaccio; e sono in pieno sviluppo l’industria meccanica e quella poligrafica.
Il movimento commerciale, oltre che attraverso le linee ferroviarie (a Taranto convergono le linee provenienti da Metaponto, da Bari e da Brindisi), si svolge attraverso il porto mercantile, per il quale nel 1933 sono passate 300 navi con 240 mila tonn. di stazza. Il totale delle merci sbarcate fu nel 1933 di 215.137 tonn. (186.136 tonn. nella media annua del triennio 1931-1933) e quello delle merci imbarcate fu di 12.559 tonn. (6352 tonn. nella media del triennio 1931-33).
Monumenti. – L’acropoli greca sorse dove oggi si adagia la “vecchia Taranto”; a oriente era divisa dalla vera e propria città da un muro, di cui però non si notarono tracce durante i lavori eseguiti per la costruzione dell’attuale canale navigabile. Lapolis occupava invece uno spazio più esteso della “Taranto nuova” e si stendeva, necropoli compresa, verso levante, sino a raggiungere le mura che con il relativo fossato (il “canalone” di oggi) andavano dalla Masseria Colipazzo a Monte Granaro. Di tali mura di difesa furono identificati alcuni brevi tratti, a oriente, presso la masseria del Carmine e a settentrione, verso il Pizzone, immersi già nell’acqua di Mar Piccolo; né i dati degli antichi ci permettono di ubicare Porta Temenide e le altre “portulae” (ῥινοπύλαι) esistenti. Sappiamo solo che al di là della Temenide stava il tempio di Apollo Iacinzio e che da tale porta aveva inizio la via Plateia; ma tanto questa, quanto la via Soteira, ricordate da Polibio e da Livio, debbono essere ancora topograficamente chiarite; sembra solo che siano state notate le tracce dell’antica strada degli Argentarî che si dirigeva verso il quartiere della marina, a S. Lucia (Not. scavi, 1883, p. 179).
Dei diversi templi quello che si presume dedicato a Posidone conserva tutt’oggi in situ una maestosa colonna dorica: degli altri (di Ercole, della Pace, di Minerva, ecc.), creati talora dalla fantasia degli scrittori locali, è scomparsa ogni traccia. Di certo v’è che nella contrada Solito si rinvennero in un pozzo varie tavolette e alcuni vasi fittili relativi al culto dei Dioscuri, e che le divinità principali rappresentate dai plasticatori tarentini sono quelle di Demetra e Persefone, Artemide, Afrodite e Apollo Iacinzio.
Né meglio informati siamo sui monumenti civili che dovettero sorgere nella polis (museo e ginnasio) e nell’acropoli (Pritaneo); e ignoto è il sito dell’agorà. Più conosciuti sono invece i monumenti di età romana: le grandi terme s’innalzavano dove oggi il Lungomare s’incontra con il Viale Virgilio, i ruderi delle thermae Pentescinenses, alimentate da un’aqua nymphalis, si rinvengono nei pressi della chiesa di S. Francesco (all’angolo della via Duca di Genova) e avanzi di un altro edificio termale si notarono già presso la chiesa del Carmine.
Anche le vestigia dell’anfiteatro, in opera reticolata, si vedevano sino a non molti anni fa in un avvallamento al disotto dell’attuale mercato coperto; ma quasi tutti gli studiosi, per il fatto che Floro (I, 18) e Livio (XXII, 7) parlano di un theatrum maius, hanno finito col confondere questo anfiteatro con il teatro greco, di cui non conoscíamo il sito.
L’ esistenza di un theatrum maius fa pensare alla probabile esistenza di un minore teatro o odeon.
Abitazioni romane con pavimenti a musaici furono casualmente messe in luce nel giardino dell’Istituto della Immacolata, e un abitato che sorgeva lungo l’antico porto di S. Lucia fu scavato nel R. Arsenale, presso il nuovo bacino di carenaggio.
Tombe si sono trovate e si rinvengono continuamente nel recinto della polis; forse come a Ruvo, a Canosa e nella stessa Sparta, esse sorgevano un po’ dappertutto, presso i varî nuclei di abitazioni (Mayer, in Not. sc., 1898, p. 197). Nell’età greca esiste solo il rito dell’umazione, per lo più con tombe a fosse rettangolari, cavate nella roccia e coperte da lastroni; ma non mancano i sarcofagi di pietra carparo e le fosse ottenute nella nuda terra e non cintate da massi. Le tombe a camera con pareti dipinte e letti funebri sagomati, qualche volta decorati a pittura, sono piuttosto tarde. Molte tombe a fossa con materiale proto-corinzio e corinzio si trovarono nella contrada Montedoro, non molto distante dall’acropoli; però i complessi principali che vanno dal sec. VI al III a. C. giacevano o presso la Masseria Vaccarella e nella vicina contrada Madre Grazia, o nel tratto che dalla vecchia “piazza d’armi” si stende sino all’ex-baia di S. Lucia. Nell’età romana prevale il rito della cremazione con le urne di pietra o di marmo e con le olle di terracotta o di vetro; la grande necropoli dell’impero, scoperta (1931) nei lavori per la costruzione della Casa dei mutilati, poggiava su quella ellenistica, così come nella contrada Montedoro molte costruzioni, pur esse di epoca imperiale, erano apparse sovrapposte a quelle di epoca greca (Not. scavi, 1883, p. 179). Scarsissimo fu l’uso di sarcofagi figurati.
Quando Taranto rinacque per opera di Niceforo Foca si restrinse alla sola “rocca”, all’estremità dell’istmo.
Il duomo fu riedificato verso il secolo XII in forme romaniche, che, pur sommerse da rimaneggiamenti e rifacimenti barocchi (1569 e 1657), affiorano ancora negli archetti ricorrenti nei fianchi della navata mediana e in una parte dell’abside. Bifore romaniche sveltiscono le forme tozze del campanile (1413). Ultimi restauri furono eseguiti nel 1871-73. L’intonazione barocca, che è già nella facciata (1713), predomina all’interno, che serba la struttura basilicale nelle tre navate spartite da solenni colonne di marmi antichi, coronate da mirabili capitelli, alcuni di provenienza romana o di ispirazione classica, altri scolpiti in modi bizantineggianti. Accresce splendore all’ampiezza della navata mediana il dorato soffitto ligneo (sec. XVII).
A destra dell’abside il fastoso “Cappellone” di S. Cataldo, rifatto in stile barocco dopo l’incendio del 1627, rivestito di marmi preziosi e ornata di molte statue marmoree, tutte non anteriori alla seconda metà del Settecento.
Notevoli sul sontuoso altare la statua argentea di S. Cataldo, opera di Vincenzo Catello napoletano (1892), e nella cupola ellittica gli affreschi di Paolo De Matteis (1713), rafliguranti episodî della vita del santo. Antiche opere di oreficeria e pregevoli oggetti sono serbati nel tesoro di S. Cataldo.
Nelle adiacenze del duomo è la chiesa di S. Domenico Maggiore (sec. XIII), che ha ancora, malgrado i molti rimaneggiamenti, una bella facciata romanico-gotica con maestoso portale.
Adagiato sulla riva destra del Mar Grande, quasi a vigile custodia dell’imbocco del Canale, è il Castello, munito di cinque tozzi torrioni cilindrici uniti da cortine. Si dice costruito dai Bizantini nel sec. X, rifatto da Ferdinando d’Aragona nel 1480 a difesa dalle incursioni turche, ingrandito dagli Spagnoli nel 1577. In tempi recenti fu in parte demolito per consentire la costruzione del ponte girevole.
Poderosa opera di architettura moderna in vista della glauca distesa delle acque ionie è il Palazzo del governo.
Il Museo nazionale ha preziose raccolte d’archeologia e d’arte classica. (V. tavv. LV e LVI).
Storia. – Antichità. – Taranto (Τάρας, Tarentum) fu colonia greca della Magna Grecia, fondata, nel corso del sec. VIII a. C., da coloni provenienti da Sparta. La tradizione sulla sua fondazione ci è giunta in due versioni, l’una di Antioco, l’altra di Eforo, conservate da Strabone (VI, 278 segg.): secondo Antioco, la città sarebbe stata fondata dai figli di quei Lacedemoni che avevano partecipato alla prima guerra messenica, cioè dai Partenî, i quali, guidati da Falanto, stabilirono la colonia in località già abitata da barbari Iapigi, di origine cretese; Eforo aggiunge che i Partenî spartani, avviatisi verso l’Italia, si congiunsero con gli Achei che guerreggiavano ivi contro i barbari e, durante questa guerra, fondarono la città. Capo dei Partenî ed ecista della colonia sarebbe stato Falanto; la città ebbe però il suo nome da quello di un eroe locale, Taras.
La sostanza di queste leggende è confermata da varî elementi di fatto che ci sono presentati dalla storia e dalle condizioni più antiche della città: laconico fu il dialetto dei Tarentini, spartane le loro leggi, le istituzioni, le magistrature, spartana perfino la divisione topografica della cittadinanza in cinque phylai; sicché i moderni sono concordi nell’attribuire a coloni spartani la fondazione di Taranto. Alle origini della colonia la cronologia tradizionale (in Eusebio) assegnava la data del 706 a. C.: in realtà il sorgere di Taranto deve piuttosto – come anche la sua posizione geografica insegna – farsi risalire ad età più antica, sicuramente alla prima metà del sec. VIII. Il territorio ov’essa sorse era certamente popolato da altre genti, e precisamente da Messapî, affini agli Iapigi, non però di provenienza cretese, come argomentarono i Greci, bensì, com’è noto, di origine illirica. Il nome della città, Taras, è quello stesso del fiume, l’odierno Tara, che, dopo breve corso, si getta nel golfo esterno, a poca distanza dal Mar Piccolo. Nella figura del mitico ecista, Falanto, si è creduto di poter ravvisare un’ipostasi del dio Posidone o di Apollo Delfinio, identico all’Apollo Iacinzio, venerato ad Amicle, in Laconia; d’altra parte esso ci richiama anche la divinità omonima venerata in Arcadia, ipostasi anch’essa di Posidone, e ci fa pertanto supporre la presenza di elementi arcadi (della Messenia meridionale) fra i coloni che fondarono Taranto.
Il luogo ove fu posta Taranto, era in verità dei più favorevoli, per lo spazioso retroterra che si apriva all’attività dei coloni, per l’ottima ubicazione nei rapporti del commercio e anche dell’industria, giacché quel mare è abbondantissimo di pesci d’ogni specie e di molluschi. Magnifico il porto, il valore del quale è accresciuto dall’importuosità di tutta la rimanente costa italiana del Mare Ionio. Il solo ostacolo al fiorire della nuova città poteva essere rappresentato dall’ostilità degli abitatori del luogo (i Messapî) verso i nuovi venuti e dall’indole assai bellicosa di tutte le genti iapigie, in genere, che popolavano allora il territorio corrispondente all’odierna Puglia, arrivando, verso occidente, almeno fino al Bradano. I primi secoli di vita di Taranto sono infatti tutti dominati da una ininterrotta operosità guerriera, rivolta ad allargare il dominio della città sulla regione circostante. In un primo tempo, i Tarentini trovarono più agevole estendersi nella penisola Salentina, che entrò progressivamente nella loro sfera d’influenza, specialmente dopo che essi ebbero fondato, sulla costa orientale di essa, la piccola colonia di Callipoli (l’odierna Gallipoli).
Più difficile riuscì loro l’espandersi a settentrione, ove più ostinata e meglio organizzata si opponeva la resistenza degli Iapigi, i quali inflissero a Taranto una memoranda sconfitta, verso il 470 a. C. Questo avvenimento ebbe ripercussioni notevoli così sulla politica interna come su quella estera della colonia spartana: all’interno, segnò la fine del regime aristocratico, cui sottentrò una costituzione democratica; all’esterno, preclusa ai Tarentini, almeno momentaneamente, ogni espansione verso nord e verso oriente, li indusse ad allargare la loro sfera d’influenza dalla parte d’occidente, ove si stendevano le belle e feraci pianure di Metaponto.
Metaponto dovette ben presto subire la superiorità di Taranto e finì per accettarne una specie di protettorato politico; tanto che i Tarentini poterono far valere le loro aspirazioni sul territorio della Siritide, che pure era rimasto compreso, dopo la distruzione di Siri, dentro i confini di Metaponto. Quando, nel 444-43, fu fondata, nella regione dell’antica Sibari, la colonia panellenica di Turî, Turini e Tarentini furono per un decennio in lotta fra loro appunto per il possesso della Siritide: la guerra finì con un trattato, nel quale Turî e Taranto si accordarono per abitare in comune la città alle foci del Siris, la quale però doveva essere riguardata colonia tarentina. Di lì a poco i Tarentini fondarono, un po’ più nell’interno, la città di Eraclea, di cui Siri rappresentò il porto (433 a. C.).
Quando si costituì, verso il 400 a. C., la Lega degli stati italioti, per parare il pericolo lucano, al quale erano esposte anche Eraclea e Metaponto, è probabile che anche Taranto ne abbia fatto parte – benché le fonti ne tacciano – ed abbia quindi seguitato ad appartenervi anche quando, nel 390, le forze della Lega furono impegnate a resistere alla politica di assorbimento di Dionisio il Grande di Siracusa: tuttavia è certo che essa assisté quasi inerte allo svolgersi di quegli avvenimenti; spiando ogni occasione per intervenire a ricondurre la pace tra i confederati e il despota siracusano.
Durante la prima metà del sec. IV, Taranto, amministrata dal saggio governo di Archita, rimase nei più cordiali rapporti con i tiranni di Siracusa e pare abbia ottenuto allora la presidenza della Lega italiota, la cui sede venne stabilita ad Eraclea. Taranto era allora una città ricchissima e popolosa, una delle maggiori del Mediterraneo: si calcola che dentro il perimetro di 15 km. delle sue mura, vivesse una popolazione di circa 300 mila abitanti.
Una così florida vita fu presto turbata dalla minacciosa pressione degl’indigeni dell’interno – Messapî, Lucani e Bruzî – che tuttavia Taranto riuscì in un primo tempo a vincere, con l’aiuto di Archidamo (339/8) e di Alessandro d’Epiro (334 a. C.). Da allora Taranto poté affermare il suo protettorato su tutte le genti iapigie e tenere in rispetto, per qualche decennio ancora, gli stessi Lucani. Nel 303 o nel 302 a. C., i Lucani ottennero però l’alleanza di Roma; onde i Tarentini, paventando il pericolo più grave di quanto poi in realtà non si dimostrò, cercarono ancora aiuti in Grecia; e la madre patria Sparta inviò loro il principe reale Cleonimo, della dinastia degli Agiadi. Ma i Romani offersero subito la pace a Taranto, che fu del resto ben lieta di potersi sbarazzare al più presto dell’incomodo protettore e che approfittò di questa occasione per includere, nel trattato stipulato con Roma, la nota clausola, la quale faceva divieto alle navi da guerra romane di spingersi più ad oriente del promontorio Lacinio.
La violazione di questa clausola da parte dei Romani, avvenuta, per ragioni che non è facile identificare, nel 281 a. C., ebbe per conseguenza il grande conflitto fra Roma e Taranto, nel quale la città italiota fu soccorsa dall’intervento di Pirro, re dell’Epiro (280-275 a. C.). Partito Pirro dall’Italia dopo lo scacco di Benevento, l’esiguo presidio epirota lasciato dal re nella città, al comando di Milone, resisté qualche anno ancora; poi (272 a. C.) Milone si risolse a consegnare Taranto ai Romani, ottenendo la libera uscita per sé e per i suoi. Taranto dové così assoggettarsi ad entrare in alleanza con Roma, a condizioni assai dure: fu obbligata a consegnare ostaggi e a fornire un certo numero di navi da guerra, fu privata del diritto di batter moneta e dové, sola fra le città federate, accogliere un presidio romano nella sua rocca.
Durante la prima guerra punica, assolse con lealtà i suoi doveri di città federata; ma, nel secondo conflitto con Cartagine, Taranto fu la prima delle città italiote a darsi ad Annibale (212 a. C.); l’acropoli rimase tuttavia in possesso del presidio romano; riconquistata, tre anni più tardi, dal vecchio Fabio Massimo, venne duramente punita del suo tradimento: i cittadini furono in parte uccisi e gli altri (circa 30.000) venduti schiavi; la città fu data al saccheggio, che fruttò ingenti ricchezze ai soldati e all’erario: per un riguardo, però, agli abitanti della rocca, rimasti sempre, per amore o per forza, obbedienti e fedeli al presidio romano che l’occupava, fu rinnovato in loro favore il vecchio trattato d’alleanza.
Taranto rimase ancora a lungo, per lingua e per costumi, eminentemente greca: nel 125 fu trasformata in colonia (colonia Neptunia) e, dopo la guerra sociale, in municipio romano: il suo porto e i suoi commerci seguitarono a fiorire, ma vennero gradatamente eclissati da quelli di Brindisi; sotto l’Impero, si latinizzò rapidamente.
Medioevo ed età moderna. – Difesa a lungo contro i Goti da Giovanni capitano di Belisario, fu conquistata da Totila (549); e quindi ripresa da Narsete vincitore di Teia. Fu espugnata dai Longobardi dopo lungo campeggiare. Quando Costante imperatore tentò di riprendere l’Italia, Taranto fu una delle prime conquiste (663); di lì mirò a Lucera e a Benevento. Fu ritolta ai Greci da Romualdo duca di Benevento, e saccheggiata. Tornò a Bisanzio l’803. Conquistata dai Saraceni a varie riprese (846, 868), fu liberata dalla flotta veneziana del prode Urso Patrizio (864), poi dall’imperatore Basilio (880), cui la strapparono nuovamente i Saraceni che ne fecero scempio e resero schiavi gli abitanti (15 agosto 927). Riconquistatala, Niceforo II Foca (967) la munì di nuove mura, torri e del borgo Martina, e ne fece centro militare importantissimo. Per circa un secolo fu saldo nucleo della resistenza greca, anche dopo che i Normanni conquistarono la Puglia. Fu occupata da Roberto il Guiscardo ed ebbe ad arcivescovo il suo parente Drogone; fu assegnata poi col titolo di principato a Boemondo d’Altavilla. Servì come principale porto d’imbarco per le crociate; sotto Guglielmo il Malo congiurò con Greci e baroni normanni ribelli. Fu assegnata poi a Tancredi, e, lui morto, alla vedova Sibilla; poi al duca di Durazzo. Ribellatasi a Federico II, fu ridotta all’obbedienza dopo il ritorno di lui dalla crociata. Unita col contado di Lecce, passò a Manfredi. Si mantenne a lungo fedele agli Angioini, appannaggio di Filippo, quartogenito di Carlo II d’Angiò, poi al figlio Roberto che ne fece puntello per la sua offensiva contro gli Angioini d’Ungheria e per la futura conquista dell’Impero d’Oriente. Passò poi a Giacomo Del Balzo, a Ottone di Brunswick, quarto marito della regina Giovanna, al capitano generale del re Carlo, Ramondello Orsini, conte di Lecce, del quale seguì le alterne vicende nella lotta contro i Sanseverino. Fu capitale di un grande principato stendentesi da Otranto ad Oria, abbracciante Terra di Bari, gran parte della Basilicata, del Principato Ulteriore e poi Acerra e Benevento. Morto Ramondello, fu due volte assediata e conquistata da Ladislao di Durazzo che, sposata la vedova di lui, divenne principe di Taranto. Fu devoluta poi alla regina quale nipote di un Orsini. Ferrante I ne allargò i privilegi (1463). Aiutò Otranto assediata dai Turchi (1480). Durante la discesa di Carlo VIII, mentre i nobili tarantini avevano propositi di resistenza, terrazzani e pescatori, stanchi e maldestri nell’uso delle armi, aprirono le porte ai Francesi. Assediata da re Ferdinando, non volendo tornare agli Aragonesi, alzò bandiera veneziana (9 ottobre 1496), minacciando, se non fosse stata accolta da Venezia, di darsi ai Turchi; ma, non soccorsa a tempo dai Francesi, si arrese agli Aragonesi per fame (4 febbraio 1497). Nella lotta tra Francia e Spagna, fu difesa da Ferdinando, primogenito di re Federico, contro le truppe di Consalvo di Cordova cui cedette il 1° marzo 1502. Mantenuta dagli Spagnoli, nonostante l’assedio del Nemours, il re cattolico la fortificò. Ma ciò non valse a intimidire Turchi e Barbareschi, né a impedire l’invasione del Lautrec e dei Veneziani (1528 e 1529). Fortificata da Giovanni d’Austria, servì egregiamente quale concentramento di navi (immesse nel Mar Piccolo abbattendo parte del ponte costruito da Niceforo Foca), alla vigilia e durante la battaglia di Lepanto (1570-71), cui parteciparono molti Tarentini. Dal 1577 al 1597 furono eseguite nuove fortificazioni, reso navigabile alle galee il fosso tra Mar Grande e Piccolo, costruiti bastioni e torri sul mare e verso terra, costruito un muro terrapienato sulla strada verso Lecce. Queste fortificazioni tennero in rispetto i Turchi, nonostante il continuo incubo di loro flotte (nel 1594 una flotta di 100 navi assediò Taranto, difesa da don Carlo d’Avalos; poi nel 1598, 1599, 1657, 1671). Nel 1647-48, in coincidenza col moto masanielliano, proteste della plebe contro i nobili più che contro gli Spagnoli, lotta fra nobili asseragliatisi nel castello, e popolani padroni delle artiglierie, facilmente schiacciati dal Cardona; ammutinamento per il bando della leva. Taranto partecipò all’impresa dei Dardanelli e alla difesa di Candia (1656). Sotto i viceré fu negletta; e ancor più decadde nel sec. XVIII. Si democratizzò dall’8 febbraio all’8 marzo 1799: vide il processo politico del suo arcivescovo Giuseppe Capecelatro; tornò a Napoleone col patto segreto di Firenze (21 marzo 1801); fu occupata il 23 aprile dall’armata francese del generale Soult, che intraprese subito lavori di fortificazione, piazzò 100 cannoni e 14 mortai, istituì l’arsenale di artiglieria e un deposito di armi per volere di Napoleone che intendeva fare di Taranto “une sorte de Gibraltar”. Sgombrata dopo Amiens, ma non privata del materiale di artiglieria affluito da Ancona e da Livorno, fu ripresa da Gouvion-Saint-Cyr. Sguernita per il tentativo napoleonico contro le coste inglesi, fu ripresa dopo Austerlitz, ebbe un presidio di 13.000 uomini; e nel decennio cosiddetto francese (1806-1815) divenne la più sicura base navale contro gl’Inglesi, stabiliti a Capri e in Sicilia, e i Russi a Cattaro. Giuseppe Bonaparte portò al massimo l’efficienza militare di Taranto; il Murat affrontò l’organica riorganizzazione di forti, magazzini, caserme, diede alla città la fisionomia che tuttora conserva. Taranto declinò allorché la campagna napoleonica contro la Russia spostò il centro della lotta verso l’Europa centrale e settentrionale. Dopo il 1815, sembrando inutile e dannosa la fervida attività navale e militare napoleonica, Ferdinando IV Borbone abbandonò l’attrezzatura di Taranto. Taranto fu centro di azione del Church nella repressione del brigantaggio e del movimento liberale all’indomani del Congresso di Vienna; rimase tranquilla nel 1820-21: ma ciò non le risparmiò il presidio di 200 Austriaci. Nel 1848 i contadini e l’infima plebe si agitarono per rivendicazioni agrarie e per disoccupazione e dissodarono alcuni terreni comunali, minacciarono il saccheggio contro i notabili del luogo, liberali; questi, a loro difesa, organizzarono una guardia civica, poi un governo provvisorio presidiato dalla guardia nazionale. Nel 1860 un battaglione di garibaldini disarmò il castello e i soldati della riserva, e prese il comando delle armi; 44 Tarentini parteciparono alla spedizione di Sicilia; fra essi Nicola Mignogna, poi prodittatore della Basilicata, anello di collegamento fra il gruppo liberale meridionale, Mazzini e il governo di Torino. Nel’61 fu attraversata da una ventata di reazione borbonica, fino al’63 dal brigantaggio.
Le nuove finalità navali e militari dell’Italia unita, prospettate da Tarentini illustri quali Cataldo Nitti, i nuovi equilibrî e le nuove contese avanti e dopo il taglio di Suez, ridiedero valore a Taranto. Costituita – su relazione del gen. L. Valfré di Bonzo (1865), e studî e scandagli di R. A. de Saint-Bon – base di dipartimento navale e dell’arsenale, approvvigionò la flotta italiana durante la guerra del 1866. I lavori di demolizione delle antiquate fortificazioni furono iniziati nell’82 e ultimati nel’96. Nell’83 fu messa la prima pietra all’arsenale, poi scavato il bacino di carenaggio, livellato il terreno retrostante, allargato e approfondito il canale fra Mar Grande e Piccolo: lavori ultimati e inaugurati, presente il sovrano, il 21 agosto 1889. La trasformazione integrale della marina da velica a vapore e l’affermarsi della nuova arma – il siluro – richiesero ritocchi e correzioni ai lavori eseguiti e da eseguire. Le grandi manovre del 1907 furono una specie di prova generale degl’impianti di Taranto. La spedizione libica e la guerra mondiale documentarono la grande importanza di Taranto nella difesa dell’Italia e nella politica mediterranea. Il Mar Piccolo e l’arsenale videro inusitata, febbrile attività, essendo Taranto l’unico porto di grande ampiezza, l’unico completamente attrezzato in vicinanza della zona dell’attività bellica. A Taranto, al sicuro da insidie, ma pronte a intervenire erano le flotte italiana, francese e inglese; lì faceva capo tutto l’ingente traffico per l’armata d’Oriente che operava a Salonicco e in Macedonia; lì da Suez confluivano i convogli franco-inglesi dalle lontane colonie con preziose riserve di uomini e di materiali; lì finivano le ideali linee di sbarramento partenti da Tobruk e da Lero.
Monete. – La zecca di Taranto fu la più attiva di tutta la Magna Grecia, perché coniò ricchissime serie monetali dalla seconda metà del sec. VI all’occupazione annibalica. La moneta corrente è costituita dalla didramma d’argento, di gr. 7,97-7,77, del sistema denominato appunto italico-tarentino; ma insieme furono coniati anche i nominali inferiori. Le didramme si distinguono in varî gruppi bene caratterizzati per tipi, tecnica e stile, seppure la loro cronologia non sia del tutto fuori discussione.
Il primo periodo (circa 540-473) è caratterizzato dal gruppo delle monete a rovescio incuso; vi si alternano i tipi del giovane Taras sul delfino e di Apollo Iacinzio; segue il secondo gruppo a rovescio in rilievo, coi tipi della ruota, dell’ippocampo e dell’effigie di Taras. Col cambiamento di costituzione coincide il cambiamento di tipo della moneta, che inalbera la figura del Demos-Taras o Falanto, seduto, nudo, con in mano varî emblemi. Alla fine del periodo già si alterna questo con il tipo più proprio tarentino del cavaliere, il quale dominerà per più di due secoli questa monetazione. Sia questo tipo sia quello di Taras sul delfino si presentano in una grande quantità di varianti, con varî simboli, monogrammi, nomi di magistrati monetarî e cittadini.
Questa ricchissima serie di stateri del cavaliere è stata distinta da A. J. Evans in dieci gruppi che si susseguono cronologicamente. Più semplici sono le emissioni dei primi due gruppi datati al 450-380; il terzo gruppo (380-345) appartiene al periodo di Archita, e comprende i conî più belli, e le più ricche emissioni; al quarto (344-334), che comprende il periodo di Archidamo e della prima guerra lucana, e al quinto (334-302), di Alessandro il Molosso e di Cleonimo, si appongono serie ancora bellissime. In qualche sigla e monogramma si vuol vedere la firma di due artisti incisori (Aristosseno e Kal….), che hanno firmato anche qualche serie contemporanea di Eraclea. Al sesto periodo (302-281), che si estende da Cleonimo a Pirro, appartengono tutte le serie a peso pieno che, oltre alle sigle e ai monogrammi dei monetarî, portano il nome del magistrato cittadino.
Si aggregano a questo periodo le serie cosiddette “campano-tarentine”: un gruppo peculiare di didramme di peso ridotto (gr. 7,51-6,80) corrispondente a quello delle monete correnti al difuori del territorio tarentino, nei distretti del Sannio e dell’Apulia già sotto l’influenza del sistema monetario campano. I tipi sono: una testa femminile diademata o con sfendone (tipi campani), e il cavaliere che incorona il suo cavallo (tipo tarentino). Queste serie si considerano coniate da Taranto sia per correre fuori dei confini dello stato sia quali una coniazione federale fra Taranto e Napoli. Il settimo gruppo corrisponde al periodo dell’egemonia di Pirro (281-272) e comprende le didramme di peso ridotto a 6 scrupuli (gr. 6,80); l’ottavo e il nono a quello dell’alleanza romana (272-235-228) nel quale Taranto conserva il diritto di coniare l’argento; le serie sono ancora ricche e varie di simboli e di nomi, ma l’arte decade. Il periodo decimo è contemporaneo dell’occupazione annibalica (212-209). L’Evans è di parere che Taranto venne privata del diritto monetario già nel 228; certo si è che notiamo una scissura decisa nella monetazione, che riprende per breve ora, ma in misura ridotta; la maggiore unità coniata è ora la dramma, del peso del vittoriato o del denaro romano ridotto o anche della dramma fenicia corrente in Sicilia già dalla metà del sec. IV (gr. 3,80-3,40). Poche e scarse sono ora le emissioni coi soliti tipi; poi la zecca tarentina tace per sempre.
Ricche e varie serie di oro ha pure coniato questa zecca dalla metà del sec. IV a. C., che si suddividono in due gruppi: il primo comprende tutte le emissioni dal 340 circa al 281; sono stateri di gr. 8,61 che al tipo dell’effigie femminile accoppiano varî tipi con le figure di Taras, del cavaliere, dei Dioscuri, ecc. Sono infine coniate, in oro, dramme, semidramme, oboli e litre, con tipi varî. Il secondo e ultimo gruppo data dall’occupazione annibalica, e comprende un solo statere e un tetrobolo.
La moneta di bronzo fa tardi la sua apparizione a Taranto, nel secolo III, con pochi tipi, non molte emissioni, e non assume mai vera importanza nella circolazione.
La provincia di Taranto.
Costituita nel 1923 col territorio spettante all’ex circondario di Taranto, ha un’estensione di 2436 kmq. e una popolazione (1931) di 302.833 ab.: la densità è di 124 ab. per kmq.; essa è formata da 27 comuni. Fisicamente risulta del fianco più meridionale delle Murge e della zona occidentale del cosiddetto istmo messapico. Il tratto murgiano è solcato da profondi burroni, detti “gravine”. Meno che nelle aree elevate, ha scarsa piovosità. Il litorale, per molti secoli fortemente malarico, si presenta spopolato; l’unico centro abitato marittimo è Taranto; negli ultimi anni grandi opere di bonifica hanno risanato e restituito all’agricoltura intensiva molte di queste zone costiere; nelle altre i lavori sono tuttora in corso. La provincia è coltivata specialmente a seminativi, a uliveti, a vigneti e a mandorleti.
TARANTO (XXXIII, p. 256). – La popolazione della città al censimento del 21 aprile 1936 è risultata di abitanti 137.515 ed è salita al 31 dicembre 1937 ad abitanti 147.668. Il territorio del comune si estende, comprese le frazioni Statte e Talsano, per kmq. 310,07.
La città, già servita dall’antichissimo acquedotto comunale delle sorgenti “Triglie” che erogava mc. 1000 di acqua al giorno, è attualmente approvvigionata dall’Acquedotto pugliese mediante una nuova rete di distribuzione che assicura una dotazione di litri 150 per giorno e per abitante. Il consumo attuale dell’acqua si aggira intorno ai 18.000 mc. giornalieri.
La rete stradale urbana si svolge per 55 chilometri di cui 24 costruiti nel dodicennio 1926-1938, con sistemi moderni e di carattere permanente. È stata posta in esercizio una rete di fognatura di km. 27,268 quasi interamente costruita nel suddetto periodo. La città è stata contemporaneamente dotata di sei vasti edifici scolastici.
È in corso di attuazione il piano di risanamento della parte bassa della Città Vecchia, nel quale sono previste demolizioni di fabbricati inabitabili per un volume di 440.000 metri cubi. Al 31 dicembre 1937 ne sono stati demoliti 150.928,59 mc., bonificandosi, così, 10.792,06 mq. di suolo.
Per effetto dell’imponente mole di opere igieniche le condizioni dell’abitato sono assolutamente salubri e la mortalità dal 18,3 per mille del 1926 è diminuita nel 1936 al 15,3 per mille.
(p. 256). – I dati della popolazione relativi al sec. XVI e XVII riguardano il numero dei fuochi, non degli abitanti.
– Il costante incremento della popolazione fece registrare, al censimento del 4 novembre 1951, 168.941 abitanti residenti nel comune (presenti 174.871), con un incremento, rispetto al 1936, di ben 62.644 unità. La popolazione residente nella provincia risultò invece, a quella stessa data, di 423.368 individui; dei quali il 39% in condizioni professionali (pop. attiva), peraltro così distribuiti per rami di attività: agricoltura, caccia e pesca 55,6%; industrie, trasporti e comunicazioni 20,8%; commercio, credito, assicurazioni e servizî varî 8,4%; pubblica amministrazione 15,2%. Al censimento del 15 ottobre 1961 la popolazione residente nel comune era salita a 191.515 ab. e quella della prov. a 462.406.
Il notevole sviluppo edilizio del capoluogo continua a seguire le direttrici rigidamente imposte dalle particolari condizioni topografiche del sito urbano. Così, dal nucleo originario sulla penisoletta, poi isolata dal canale navigabile scavato nel 1480 ed allargato nel 1886 – anno al quale risale il vecchio ponte girevole, di recente sostituito – il primo sviluppo verso NO e fino alla ferrovia originò la cosiddetta città vecchia, ora completamente risanata.
La successiva e maggiore espansione avvenne invece in un primo tempo verso SE, dando origine al Rione Borgo, con pianta a scacchiera orientata da O-NO a E-SE fino alla costa del Mar Grande; e, negli anni più recenti, si è spinta ancora verso NE, oltre la ferrovia, portando alla formazione del polimorfo Rione Tamburi, con all’estremo settentrionale il villaggio rurale Vittorio Emanuele, il cimitero monumentale, il cosiddetto “Centro”, lievemente sopraelevato e, ad occidente, lungo la strada litoranea ionica, la zona industriale Rondinella. Ma ancora verso SE ed E, oltre il Borgo, è andata e va sviluppandosi attualmente la città (Rione Tre Carrare), talché essa, nella sua caratteristica posizione topografica, presenta uno sviluppo in lunghezza di oltre 10 km.
In contrada Salinelle, prospiciente il Mar Piccolo, è in costruzione il nuovo quartiere residenziale – la cosiddetta “città satellite” – per 4.700 vani, su un’area complessiva di 54 ha. È stato inoltre approvato il progetto per la centrale ortofrutticola, con propria banchina di caricamento e raccordo ferroviario; la Cassa per il Mezzogiorno ha stanziato 900 milioni per l’istituzione a Taranto di un Centro internazionale per l’addestramento professionale.
Interrotto dalle vicende dell’ultima guerra e posteriori il completamento del più grande bacino di carenaggio del mondo, già costruito per oltre due terzi, T. attende di vedere presto potenziate le possibilità della sua industria navalmeccanica di riparazioni dal grande bacino galleggiante in costruzione presso i cantieri navali di Monfalcone per conto delle sue officine di costruzioni e riparazioni (Finmare), già Cantieri navali (Tosi) di Taranto. Nel 1961 è stato inaugurato un grande complesso siderurgico (Italsider – IV Centro siderurgico) al km 4 della via Taranto-Statte, del quale ha già avuto inizio la produzione da parte del tubificio.
Anche negli ultimi anni l’incremento della popolazione è stato costante; essa ammontava (nel comune) a 139.720 ab. alla fine del 1940, a 146.100 alla fine del 1943 e a 164.956 alla fine del 1947. Specialmente nell’estate 1943 la città subì numerose incursioni aeree, con gravi danni: nelle case d’abitazione 888 vani distrutti e 1697 danneggiati; inoltre 25 edifici pubblici e scolastici colpiti, 4 edifici industriali distrutti e 16 danneggiati. Dopo lo sbarco degli Alleati fu iniziata l’opera di ricostruzione, specialmente nel porto e nell’arsenale. La ripresa economica non è tardata, ma l’attività industriale è stata colpita da nuova crisi con la fine della guerra. Sta per essere completato un altro grande bacino di carenaggio. La popolazione residente della provincia, calcolata al 31 dicembre 1947, era di 410.958 abitanti, con l’aumento demografico più forte (27,6%), tra le provincie italiane, rispetto al 1936.
Alle ore 18 dell’11 novembre 1940 la portaerei inglese Illustrious, con un incrociatore e 4 cacciatorpediniere, lasciò la flotta dell’amm. A. Cunningham e alle 20 si trovò a 170 miglia da Taranto, posizione scelta per il lancio della prima ondata di 12 apparecchi, di cui 6 con siluri, 4 con bombe e 2 con bombe ed illuminanti. Gli aerei siluranti erano preceduti dagli altri 6: alle 23 furono lanciati i primi bengala nella zona un po’ a levante dell’ancoraggio della Tarantola, mentre i bombardieri lanciavano le prime bombe contro le navi in Mar Piccolo onde far credere che l’attacco fosse solo di bombardieri: contemporaneamente, e poco rilevati, i primi tre siluranti sorpassavano l’isola di S. Pietro alla periferia del Mar Grande e si portavano all’attacco delle navi alla Tarantola e precisamente del Cavour e delLittorio, che furono colpiti da siluro. Il capo gruppo non arrivò al lancio e deve essere stato abbattuto dalla reazione antiaerea. Il secondo gruppo di 3 lanciò i siluri contro le corazzate colpendo il Littorio. Sul Trento e sul caccia Libeccio caddero due bombe da 50 chili senza esplodere. La seconda ondata partì dall’Illustrious alle 21 e 30 e, poco prima di mezzanotte, attraversò per parallelo il Mar Piccolo sorvolando gli incrociatori Bolzano e Trieste e, dal Porto mercantile, si abbassò a pochi metri dal mare dirigendo, per il passo lasciato dalle ostruzioni retali, verso il canale navigabile e lanciò i siluri contro il Littorio e il Duilio, colpendoli entrambi. In complesso il Littorio fu colpito da 3 siluri, e uno ciascuno ne ebbero il Duilio e ilCavour che, in serio pericolo di affondare fu portato ad incagliare presso la costa. L’operazione, che mise fuori servizio metà delle corazzate della flotta italiana, dimostrò ancora una volta l’utilità delle navi portaerei. Il 9 settembre 1943, cioè dopo la comunicazione dell’armistizio con gli Alleati, la seconda squadra, al comando dell’amm. Da Zara, formata dalle corazzate rimodernate, tranne il Cavour ancora in riparazione a Trieste, e da naviglio minore si trasferì a Malta, ove incontrò già giunta la prima squadra: contemporaneamente entrava a Taranto una divisione navale britannica e navi e truppe alleate. A Taranto, il 23 settembre 1943, fu firmato l’accordo, fra l’amm. Andrew Cunningham e l’amm. Raffaele de Courten, ministro della Marina, che stabiliva le norme per la collaborazione fra la squadra italiana e l’alleata.
ARCHITA (‘Αρχύτας) di Taranto. – Filosofo pitagorico e matematico, celebre per molte opere di cui non abbiamo che frammenti. Nato a Taranto verso il 430 a. C., figlio di Mnesagora o Estieo, fu per sette volte stratego, mostrando senno e prudenza; e non sembra sia stato mai vinto. Fu il fondatore della meccanica scientifica. Si attribuiscono al suo genio l’invenzione della vite, della puleggia, del cervo volante e di una colomba meccanica che si librava da sola nell’aria e volava. Ad Archita si deve lo studio delle proporzioni e delle progressioni; egli fu il primo a distinguere la progressione aritmetica da quella geometrica; a lui si devono anche studî di acustica. Come teorico musicale Archita contribuì, con gli altri pitagorici, probabilmente edotti del fenomeno della risonanza, all’enunciazione di regole per la composizione delle scale in dati intervalli; a lui spetta, tra l’altro, il calcolo della quinta come somma d’un intervallo di 5/4 e di uno di 6/5 (cioè di due terze, una maggiore e una minore).
Di Archita si conserva anche, attraverso Cicerone (De senect., 39), un frammento da cui si rileva ch’era di una moralità rigida e di austera continenza, secondo le prescrizioni pitagoriche. Morì forse nella seconda metà del sec. IV naufrago sulle rive dell’Apulia, se veramente il naufrago cui accenna Orazio nell’ode XXVIII del libro primo si deve identificare con Archita, cosa che è seriamente revocata in dubbio.
FILIPPO principe di Taranto e di Romania. – Quarto tra i figli di Carlo II d’Angiò, che lo investi del principato di Taranto (4 febbraio 1294). Quando Carlo II dové partire con Carlo Martello suo primogenito per raggiungere nell’Abruzzo il novello pontefice Celestino V, il principe di Taranto fu nominato vicario generale del Regno (12 luglio 1294). Le sue nozze con Ithamar Ducas Comneno, nata da Niceforo despota di Romania, gli procurarono il titolo di principe di Romania, e quando più tardi Isabella de Villehardouin andò sposa a Filippo di Savoia contro la volontà di Carlo II, questi le tolse il principato di Acaia e lo pose sotto il diretto dominio del figlio suo (1304), che ne aveva già l’alta signoria dal 30 agosto 1294.
Frattanto un secondo vicariato gli era stato affidato quando Carlo II col suo primogenito si era recato a Roma per l’incoronazione di Bonifacio VIII (gennaio 1295). E un titolo più alto gli era riservato dal secondo su0 matrimonio con Caterina, figlia di Carlo di Valois e di Caterina di Courtenay, per le ragioni o pretese della quale F. si chiamò anche imperatore di Costantinopoli (1312). Ma infelice fu la sua azione militare. Inviato dal padre in Sicilia contro Federico d’Aragona, fu sconfitto e ferito a Falconaria (dicembre 1299) e condotto prigioniero nella rocca di Cefalù, donde non uscì che dopo la pace di Caltabellotta (1302). A un disastro riuscì una spedizione “verso la Romania” (1305). Inviato dal re Roberto contro Uguccione della Faggiuola in Toscana, dove già operava Pietro, ultimo dei suoi fratelli, non si salvò che fuggendo dalla rotta di Montecatini, dove suo figlio e il fratello lasciarono la vita (29 agosto 1315). Morì a Napoli il 24 dicembre 1331 e fu sepolto in S. Domenico maggiore.
ARISTOSSENO (‘Αριστόξενος, Aristoxĕnus) di Taranto. – Filosofo peripatetico, scolaro di Aristotele, della prima generazione che seguì a quella del maestro. È il più grande teorico greco di ritmica e di musica. Prima seguace del pitagorismo, sviluppò poi in seno alla scuola peripatetica la sua tendenza alla ricerca naturalistica. I suoiElementi di armonia eccellono per l’esattezza della ricerca e della elaborazione teoretica, condotta non in base agli astratti presupposti aritmetici dei pitagorici, ma all’osservazione diretta dei fenomeni del suono (v. Grecia: musica). Tuttavia, egli continuò ad apprezzare nella musica l’elemento etico e l’efficacia di educazione spirituale. Col suo temperamento di studioso di musica è in accordo la sua dottrina dell’anima come armonia, che già doveva essere stata propugnata dal più antico pitagorismo, trovandosi pure ricordata e combattuta nel Fedone platonico. Egli si occupò, del resto, anche di altre questioni (di scienza naturale, psicologia, morale, politica, aritmetica) e compose narrazioni storiche, che non ci sono peraltro messe in troppo buona luce dai frammenti rimastici, in cui le notizie su Socrate e su Platone o sono inattendibili o rivelano troppo pertinace intento di svalutazione polemica.
LUIGI di Taranto, re di Sicilia. – Nato nel 1320, terzogenito di Filippo d’Angiò, principe di Taranto, fratello di re Roberto di Napoli, e di Caterina di Valois, sposò, nel 1347, Giovanna I regina di Sicilia, vedova di Andrea d’Ungheria. Tentò invano di opporsi all’invasione di Luigi il Grande, re d’Ungheria, fratello di Andrea, e, prima che questi occupasse Napoli, riparò con la moglie in Avignone, presso il pontefice Clemente VI. Rientrato nel regno, alla partenza del re d’Ungheria, attese a combattere i capi dell’esercito da lui lasciato nel Napoletano, ma, innanzi ad una seconda invasione del re ungherese, che occupò di nuovo Napoli, fu costretto a fuggire a Gaeta, per rientrare nella capitale solo quando l’invasore, richiamato da alcuni torbidi in Ungheria, partì definitivamente (aprile 1352). In Napoli, allora, un legato pontificio incoronò solennemente lui e la moglie Giovanna re e regina di Sicilia. Si accinse a ricuperare la Sicilia, perduta per gli Angioini sin dalla guerra del Vespro (1282); fece occupare buona parte del territorio, compresa la capitale Palermo, ma richiamato nel continente dalle lotte che gli movevano i Pipino, conti di Altamura e un suo congiunto, Luigi di Durazzo, dovette abbandonare l’impresa. Vinti nel regno tutti i suoi avversarî, non gli fu più possibile proseguire la lotta in Sicilia, dove i suoi nemici si erano notevolmente rafforzati, e attese, invece, a riportare l’ordine e la tranquillità nel regno. Quest’opera fu interrotta dalla morte avvenuta il 26 maggio del 1362.
MACDONALD, Jacques-Étienne, duca di Taranto. – Maresciallo di Francia, nato a Sedan il 17 novembre 1765, morto a Courcelles il 24 settembre 1840. Le guerre della Rivoluzione – che lo trovarono ufficiale – misero in valore le sue qualità militari. A trent’anni era generale di divisione. Con questo grado prese parte alle campagne del Reno e d’Italia (1796-97). Nel 1798 fu nominato governatore di Roma. Nella successiva lotta contro i Borboni di Napoli, sconfisse i Napoletani a Otricoli, poi successe allo Championnet nel comando in capo delle operazioni. Gli eventi dell’Italia settentrionale lo obbligarono a cercare la congiunzione col Moreau, conseguita nonostante la perduta battaglia della Trebbia (agosto 1799). A seguito della campagna di Marengo, diresse abili operazioni invernali nelle Alpi dei Grigioni (1800-1801). Dopo la proclamazione dell’impero, fu per alcuni anni in disgrazia, a causa della sua stretta amicizia col Moreau. Riprese la sua attività militare nel 1809, dapprima a fianco del viceré Eugenio (Isonzo, Raab), poi alla battaglia di Wagram, dove condusse una decisiva azione di attacco sfondante, ottenendone in compenso, sul campo, il bastone di maresciallo di Francia. Nel 1814 ebbe incarico da Napoleone di trattare con lo zar Alessandro per un’abdicazione dell’imperatore, che salvasse i diritti del figlio; ma gli avvenimenti precipitarono e le trattative fallirono. Dopo l’abdicazione di Fontainebleau il M. si sottomise ai Borboni e Luigi XVIII lo comprese nella prima lista dei pari di Francia. Ai Borboni rimase fedele durante i Cento giorni e ne ebbe la nomina a grande cancelliere della Legion d’onore.
MIGNOGNA, Nicola. – Patriota, nato a Taranto il 28 dicembre 1808, morto a Giugliano in Campania il 31 gennaio 1870. Studiò nel seminario di Taranto e poi legge a Napoli. Ma presto prese a cospirare. Fu dei Figlioli della Giovine Italia di Benedetto Masolino e si strinse in amicizia con il Settembrini. Partecipò alle dimostrazioni di Napoli per la concessione della costituzione, e combatté sulle barricate il 15 maggio 1848. Con la reazione s’iscrisse alla setta degli Unitarî, e fu arrestato con il Settembrini il 23 giugno 1849. Ma, non essendosi raccolte prove a suo carico, il M., che si era finto ebete, venne rilasciato. Nel 1855, su denunzia di un tale Pierro, fu di nuovo arrestato, processato e, l’anno dopo, ebbe bando perpetuo dal regno. Si recò a Genova, dove continuò a cospirare, tenendosi in relazione con il Mazzini e con il Fabrizi. Nel 1860 si unì ai Mille, nella compagnia Cairoli, fino a Palermo. Di là tornò a Genova e in Piemonte, per incarico di Garibaldi, allo scopo di trovare nuove forze. Ne ripartì nell’agosto e partecipò alla sollevazione della Basilicata (Lucania), accompagnando di poi il dittatore a Napoli e combattendo contro i borbonici sul Volturno. Quando Garibaldi fu costretto a partire, il M., rifiutato ogni uffizio e grado, tornò a fare l’agitatore. Unitosi con il generale a Caprera, nel 1862, lo accompagnò a Palermo e poi in Calabria. Dopo Aspromonte, si rifugiò a Napoli, e vi rimase nascosto sino all’amnistia. Continuò poi a tenersi in rapporto col Mazzini, sempre organizzando i comitati d’azione. Nell’agosto 1863 fu eletto consigliere comunale di Napoli, rinunziando alla candidatura a deputato. Malandato in salute, non poté partecipare alla campagna del’66 e a quella garibaldina del ’67: si adoperò tuttavia a raccogliere armi al confine pontificio meridionale.
ERACLEA (‛Ηράκλεια, Heraclēa) d’Italia. – Città della Magna Grecia, che sorse nel luogo ov’è oggi il villaggio di Policoro (stazione di Tursi-Policoro, sulla ferrovia Taranto-Reggio), a circa km. 4,5 dal mare e a nord della distrutta Siri, che divenne il suo porto navale. La regione ove la città fu fondata, cioè la Siritide, si trovava da tempo sotto il predominio di Taranto, quando, in vicinanza di essa, e precisamente riel sito della distrutta Sibari, fu fondata, per iniziativa degli Ateniesi, la città panellenica di Turi. Le mire espansionistiche di Turi verso la Siritide fecero nascere un conflitto fra questa città e Taranto; la quale uscì vittoriosa dalla guerra, e, per meglio affermare il suo possesso del territorio, vi dedusse la colonia d’Eraclea, nell’anno 433-2 a. C. (Strab., VI, 264); in base al trattato di pace, un certo numero di Turini fu ammesso ad abitare, insieme con i Tarentini, la nuova città.
La mescolanza dei due elementi etnici è testimoniata dai tipi delle prime monete della città, sulle quali compaiono così la testa dell’Atena attica come l’eroe laconico-tarentino Eracle, dal quale la città ebbe il nome. In realtà, Eraclea poté fin da principio considerarsi come una colonia di Taranto, da cui essa derivò il dialetto dorico, i principali culti e le istituzioni spartane, delle quali sono ancora documento le due famose tavole di bronzo (v. appresso).
Benché abbia coniato bellissime monete proprie (magnifiche didramme col tipo d’Eracle in lotta col leone), Eraclea rimase sempre dipendente politicamente da Taranto, anche quando, nella seconda metà del sec. IV, divenne sede dell’assemblea federale della Lega italiota, riunita allora sotto la direzione di Taranto Qualche anno dopo, Alessandro il Molosso, chiamato in aiuto dai Tarantini contro i Lucani, venuto in discordia con essi, si vendicò saccheggiando Eraclea e trasferendo la sede della Lega italiota a Turi. Lui morto, le cose ritornarono però come prima.
Nel territorio di Eraclea accadde, nel 280 a. C., il primo scontro fra i Romani e l’esercito di Pirro (v. appresso), e fin da questo tempo la città strinse con Roma un patto d’alleanza a condizioni vantaggiosissime; perciò nell’89 gli Eracleoti non si decisero senza esitazione a ricevere la cittadinanza romana. Quanto la città sopravvivesse come municipio romano e in seguito a quali vicende scomparisse, si ignora. La città si ascrisse anche l’onore di avere dato i natali al grande pittore Zeusi, il quale invece, più probabilmente, era nativo di Eraclea Pontica.
SALENTO (A. T., 27-28-29). – La Penisola Salentina è una regione fisicamente ben individuata, a SE. dell’Italia, che dalle ultime ondulazioni delle Murge – “soglia messapica” – tra il punto più interno del Golfo di Taranto e la spiaggia a S. di Ostuni, si protende ad arco, con la convessità all’Adriatico, tra questo mare e lo Ionio. Comprende tutta la provincia di Lecce e parte di quelle di Brindisi e di Taranto con una superficie approssimativa di 5800 kmq. su una larghezza massima di 54 km. (minima di 33 km.) e su una lunghezza di 138 chilometri, calcolata sull’asse tra Martina Franca e il Capo di Santa Maria di Leuca.
Nell’insieme la Penisola Salentina ha il caratteristico aspetto dei rialti collinosi a paesaggio carsico, con depressioni longitudinali e valliformi senza sbocchi (lame e gravine), con doline, conche superficiali, grotte e cavità sotterranee, dovute, più che a movimenti orogenetici, all’abrasione marina e all’azione meccanica e chimica delle acque. Si divide in tre zone geologicamente diverse fra loro.
A NO. la zona delle Murge Tarantine, serie di ripiani-costituiti da calcari compatti del Cretacico, che si elevano a 450 m.; al centro la pianura messapica o Tavoliere di Lecce, vasto e uniforme tavolato di sabbie, sabbioni, agglomerati sabbiosi del Pliocene e del Quaternario, tufi calcarei conchigliari pliocenici, che raggiunge i 170 m. ed è attraversato da una serie di basse elevazioni collinose fungenti da spartiacque; a S., a partire dalla strozzatura mediana, la zona delle “Serre”, colline calcaree del Cretacico con sabbioni argillosi calcarei del Miocene (pietra leccese), convergenti verso il Capo di Santa Maria di Leuca, e le cui anticlinali formano tre linee di basse colline che non oltrepassano i 200 m., e le sinclinali il fondo delle pianure interposte, coperte dalle sedimentazioni più recenti. Per tale costituzione geologica l’idrografia superficiale ha scarsa importanza, sostituita, quasi per intero, da quella sotterranea. Ad eccezione dell’Idro che, alimentato da sorgenti in prossimità della costa, sfocia nel Golfo di Otranto, brevi corsi d’acqua si formano in seguito alle piogge. Il clima risente il beneficio della latitudine e della vicinanza al mare; perciò è mite, con temperatura media di 16°-17° e con limitati contrasti climatici. Le precipitazioni oscillano tra i 500 e gli 850 mm. annui; zone di maggiore piovosità sono la fascia che guarda il Canale di Otranto e le Murge alte (oltre 850 mm.), mentre invece il litorale ionico registra le più basse piovosità (meno di 500 mm.). Imposta da queste condizioni di suolo e di clima è la flora, costituita in prevalenza da piante arboree, olivi, viti, mandorli, carrubi, fichi, con scarsa vegetazione erbacea (frumento, avena, orzo e ortaggi). Le coste hanno uno sviluppo di circa 365 km. e sono dappertutto poco alte, sabbiose, paludose e accompagnate spesso da dune, meno che nella zona otrantina dove il terrazzamento litoraneo si presenta con forme ripide dalla parte del Canale di Otranto e con dolci pendii dalla parte del Mar Ionio. Due soli porti hanno importanza commerciale e strategica: quello di Brindisi sull’Adriatico e quello di Taranto sullo Ionio; importanza esclusivamente locale hanno i porti di Gallipoli e di Otranto. La popolazione è in gran parte dedita all’agricoltura, alle industrie ad essa connesse e alla pesca; vive molto accentrata e per appena il 7% in case sparse. Nel 1931 contava 871.900 ab. con una densità di 150 ab. per kmq., che diminuisce a N. dove i comuni sono più estesi, e aumenta nella fascia mediana e nella regione del Capo dove i comuni sono più piccoli. Nella pianura messapica i centri sono più lontani dal mare, nella regione del Capo sorgono in prossimità del mare mentre, nell’interno, gli avvallamenti favoriscono l’insediamento a causa della natura del suolo e della maggiore quantità di acque sotterranee.
CARRINO, Nicola
Scultore, nato a Taranto il 15 febbraio 1932. Abbandonati gli studi di ingegneria, si dedica da autodidatta all’arte. Trasferitosi a Roma, nel 1962 vi fonda il Gruppo 1 (scioltosi nel 1967) con G. Biggi, N. Frascà, A. Pace, P. Santoro e G. Uncini: l’indagine razionale sui problemi della visione e del fare all’interno del rapporto arte-società è il fondamento per superare l’informale. Vincitore del premio Termoli (1963), del premio Rassegna d’arte del Mezzogiorno a Napoli (1966), del premio internazionale alla Biennale di San Paolo del Brasile (1971), è presente, tra l’altro, alla Biennale dei giovani a Parigi (1967), a Zwölf Italienische Bildhauer al Kunstverein di Amburgo (1969), alla Biennale di Venezia (1966, 1970, 1976, 1986), alla Quadriennale di Roma (1965, 1973, 1986). Le mostre personali dal 1958 in Italia e all’estero trovano sintesi significative nelle antologiche di Suzzara (1977), Taranto (1979) e Arezzo (1986); suoi lavori sono in musei e spazi pubblici. All’insegnamento presso vari enti, fra cui l’Istituto superiore di disegno industriale a Roma e l’Accademia delle Belle Arti di Bari, Firenze, Frosinone, ecc., affianca un’intensa attività teorica.
Dalle prime esperienze pittoriche realiste giunge nel 1957 a una scomposizione astratto-cubista con interessi materici che aprono a una ricerca informale di carica gestuale. All’inizio degli anni Sessanta, nell’ambito della scultura, in sintonia con il programma del Gruppo 1, inizia un lavoro logico-costruttivo con oggetti e materiali industriali, geometricamente strutturati, che culmina alla fine del decennio neiCostruttivi trasformabili, combinazioni di elementi modulari in ferro o acciaio, disponibili a variate organizzazioni: la percezione di un loro assetto spaziale-architettonico, pur di perentoria assertività, sollecita, infatti, a configurare altre possibilità aggregative implicite nel progetto mentale, con interventi di modifica, libera o programmata, delle forme nello spazio e nel tempo che coinvolgono, nel processo in divenire di composizione e scomposizione, la dimensione psicologico-spaziale dello spettatore. La ricerca concettualmente minimale si evidenzia in un forte rigore, di consequenziale coerenza nella lucida sintassi della sua grammatica conoscitiva. Aperto ai valori di gruppo, C. ne esibisce i connotati sociali con la proposta di una creazione partecipata collettivamente e di una riqualificazione urbana di diretta fruizione. Negli anni Ottanta le installazioni si articolano con frequenza sul motivo dell’ellissi variamente disposta a terra e a parete in rinvii dialettici tra rigore e sottile trasgressione.
PUGLIESE, Umberto (App. I, p. 955). – Allontanato il 1° gennaio 1939 dal servizio per la politica raziale, fu richiamato nel 1940 per salvare le grandi navi della flotta colpite a Taranto. Lasciato definitivameute il servizio effettivo nel 1945, è ora, tra l’altro, presidente dell’Istituto studî e esperienze di architettura navale (Vasca navale).
Fra le ideazioni più recenti del P. ricordiamo le seguenti, applicate alle corazzate tipoVittorio Veneto da lui progettate: a) il doppio sistema di governo della nave, di cui uno costituito dal consueto timone poppiero, nel flusso delle eliche poppiere centrali, e l’altro da due timoni laterali ampiamente proporzionati e distanziati dal primo, situati nel flusso delle due eliche laterali prodiere, e che per la speciale protezione sovrastante, costituiscono effettiva riserva nei casi di offesa nemica; b) la protezione subacquea “tipo Pugliese” (vol. XXIV, p. 384) è stata potenziata per l’applicazione alle 4 corazzate tipo Cavour, all’uopo trasformate (1935-39) e più radicalmente per le 4 tipo Vittorio Veneto, nelle quali il sistema è coordinato alla corazzatura di murata sovrastante e alle strutture del triplo fondo sottostanti. Ingegnosi piani di compartimentazione e di bilanciamento interno sono intesi ad assicurare forti riserve di stabilità trasversale e di galleggiabilità anche di fronte a molteplici offese subacquee. Il sistema permise più volte alle navi, ripetutamente colpite, di ritornare alle basi con ampia possibilità residua di mobilità e velocità; c) la corazzatura principale di cintura per difesa dai grossi calibri, costituita da singole corazze di struttura composita, con piastra anteriore “scappucciante” e piastra posteriore “resistente”, formanti un tutto compatto, applicabili con facilità all’esterno dello scafo; d) la protezione delle grandi aperture, costituita da cilindri corazzati singoli per ogni caldaia e per ogni ventilatore, con coperture corazzate a distanza sul ponte superiore e diaframmi corazzati alla base, raggiungente per la prima volta una radicale protezione dell’apparato motore.
CHIARELLI, Giuseppe. – Giurista, nato a Martina Franca (Taranto) il 15 giugno 1904. Professore universitario di diritto amministrativo a Perugia, ha insegnato poi Istituzioni di diritto pubblico a Roma. È stato giudice e poi presidente (1971-1973) della Corte costituzionale; alla scadenza del mandato è tornato a insegnare all’università di Roma diritto pubblico generale fino al 1974. Ha diretto negli anni 1940-43 la rivista di studi giuridici Stato e diritto. È autore di numerose pubblicazioni riguardanti prevalentemente il diritto pubblico, la teoria generale del diritto e il diritto del lavoro.
Opere principali: Il diritto corporativo e le sue fonti, Perugia 1930; La personalità giuridica delle associazioni professionali, Padova 1931; Lo stato corporativo, ivi 1936; La Camera dei fasci e delle corporazioni, Firenze 1937; La competenza legislativa della regione in materia di assistenza, in La rivista italiana di previdenza sociale, 1949, pp. 3 segg.; La Costituzione italiana, Roma 1951;Elasticità della Costituzione, in Studi di diritto costituzionale in memoria di L.Rossi, Milano 1952, pp. 43 segg.; Gli organi di elaborazione, di applicazione e di controllo del diritto del lavoro, Padova 1953; La disciplina organizzativa del lavoro (Trattato di diritto del lavoro), ivi 1953; Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, Milano 1957; Appunti sulle garanzie costituzionali, in Studi in onore di E. Crosa, ivi 1960, vol. I, pp. 527 segg.; Il diritto costituzionale del lavoro, in Annali della facoltà di giurisprudenza dell’università di Bari, III, vol. I, Bari 1965-66, pp. 43 segg.; Gli interessi collettivi e la costituzione, in Il diritto del lavoro, I (1966), pp. 31 segg.; Processo costituzionale e teoria dell’interpretazione, in Il Foro italiano, Bologna 1967, parte V, pp. 25 segg.; La giustizia costituzionale, Modena 1970; Lezioni di diritto pubblico, Roma 1975.
NITTI, Francesco. – Storico, nato a Taranto il 24 febbraio 1851, morto a Roma il 31 gennaio 1905.
Nel 1876, prima del noto libro di P. Villari, pubblicò a Napoli il primo volume (del secondo, abbozzato nel ms., vennero stampate soltanto 240 pagine, non messe in commercio) del Machiavelli nella vita e nella dottrina studiato con l’aiuto di documenti e carteggi inediti: lavoro profondo, ricco di pagine bellissime. Dalle indagini sul Machiavelli il N. fu condotto a studiare la politica di Leone X, sulla quale pubblicò un volume (Leone X e la sua politica, Firenze 1892), nel quale giunge al risultato: “che il filo conduttore attraverso il labirinto della politica di Leone X, si deve, più che alle preoccupazioni degl’interessi personali e di famiglia, alla inquietudine di pericoli di ogni genere, che ai principi del sec. XVI minacciavano la Chiesa di Roma”. Tesi originale, che trovò oppositori in G. De Leva, in H. Baumgarten e in V. Cian, ai quali il N. rispose nell’introduzione alla sua memoria:Documenti ed osservazio1n riguardanti la politica di Leone X (Arch. della Soc.rom. d. st. pat., XVI, 1893). Notevolissima altresì una recensione del secondo vol. dell’opera di L. v. Pastor (Arch., cit., XV, 1892), nella quale il N., criticando lo storico tedesco, delineò magistralmente le figure politiche di Pio II, Paolo II e Sisto IV; e una nota presentata al congresso storico internazionale di Roma del 1903, pubbl. negli Atti di esso e in La critica, II, 258-61, e trattante la questione: fino a qual punto nel ritrarre un periodo storico, si possano mettere in rilievo gl’inizî di movimenti che non divennero coscienti e importanti se non in periodi successivi, senza turbare la verità storica con l’introdurvi l’immagine anticipata di una realtà posteriore.
PANE, Roberto
Storico dell’architettura, nato a Taranto il 23 novembre 1897, morto a Napoli il 29 luglio 1987. Si applicò sin da giovanissimo al disegno e all’incisione (nel 1912 frequentò a Napoli lo studio dello scultore V. Gemito), attività che avrebbe proseguito e accompagnato con un’ampia documentazione fotografica di architetture e complessi ambientali, non solo italiani. Nel 1919 s’iscrisse al neo Istituto superiore di architettura di Roma, dove fu tra i primi laureati di quella scuola nel 1924. Professore ordinario di Storia dell’architettura dal 1942, fu chiamato dalla facoltà di Architettura di Napoli, dove svolse una lunga attività d’insegnamento, rivolta anche ai problemi della conservazione e del restauro. Nel 1949 fu chiamato come esperto di restauro architettonico presso l’UNESCO e nello stesso tempo fece parte della commissione tecnica dell’Istituto centrale del restauro. Fu anche membro del Consiglio superiore del ministero dei Lavori pubblici. Fondò e diresse dal 1961 la terza serie della rivista Napoli Nobilissima, già diretta da Croce, dove numerosissimi sono i suoi interventi, spesso polemici.
Seguendo l’estetica di Croce, P. introdusse nella storia dell’architettura il metodo storico-critico, abbandonando le posizioni di G. Giovannoni, che gli era stato maestro a Roma, sin dalla pubblicazione di Architettura del Rinascimento in Napoli(1937) e di Architettura dell’età barocca in Napoli (1939). P. si pose pertanto come figura centrale, nell’ambito degli studi italiani sull’architettura, di una concezione neo-idealista che avrebbe più tardi aggiornato avvicinandosi al sociologismo della scuola di Francoforte e ai portati della psicologia junghiana, tenendo anche conto delle tematiche interdisciplinari delle scienze umane. Alle biografie dedicate aPalladio (1948 e 1961), Bernini architetto (1953), Ferdinando Fuga (1956) eAntonio Gaudì (1964 e 1982), si affiancano da un lato efficacissime letture delle architetture ”senza autore” in Capri (1954) e ne I mausolei romani in Campania(1957, in collaborazione con A. de Franciscis), e dall’altro il grande quadro d’insieme de Il Rinascimento nell’Italia meridionale (i-ii, 1975-77), dove l’indagine si estende a tutta la cultura artistica del tempo e alle fonti letterarie. Altra componente fondamentale dei suoi studi si rivolge a favore della conservazione e del restauro dell’architettura, comprese quella ”minore” e rurale, come dimostra uno dei suoi primi studi sull’Architettura rurale campana (1936), e come ebbe modo di sostenere con la successiva introduzione del concetto di ”letteratura architettonica” sulla scorta della distinzione tra poesia e letteratura teorizzata da Croce. Ciò gli permise di definire e rivendicare i valori dell’edilizia dei centri antichi e di esigerne la conservazione insieme ai monumenti, estendendo tali principi all’ambiente naturale. A tale definizione P. sarebbe rimasto fedele nel tempo, mentre avrebbe sviluppato anche in chiave psicologica i principi del ”restauro critico”, da lui per primo definiti negli anni della ricostruzione post-bellica. Le sue proposte in tal senso sono contenute in numerosissimi scritti, tra i quali ricordiamo Architettura e arti figurative (1948), Città antiche edilizia nuova (1959) e Attualità e dialettica del restauro (1987). Alcune di esse trovarono accoglimento nella Charte de Venise(1964) del restauro.
ANDRONICO, Lucio Livio (L. Livius Andronīcus). – Da Taranto condotto schiavo a Roma nel 272 entrò, come litterator, nella casa di un Livio da cui fu affrancato. Il prenome T (Titus), dato da alcune fonti, è dovuto a scambio con il prenome dello storico patavino. Che il patrono sia stato un Livio Salinatore risulta da S. Girolamo sotto l’anno 1830 da Abramo, cioè 187 a. C. (p. 137 Helm); ma ad identificarlo con il vincitore di Sena Gallica, oltre alla difficoltà del prenome L e non M – difficoltà non insormontabile, poiché un liberto poteva talora assumere un prenome diverso da quello del patrono – si oppone la cronologia. M. Livio Salinatore, console la prima volta nel 219 e la seconda nel 207, difficilmente avrebbe potuto essere il padrone dello schiavo giunto a Roma, sia pure in giovane età, nel 272. Le fonti antiche (Accio?) hanno forse confuso M. Livio Salinatore, console nel 207 (anno in cui si cantò il partenio di A.) con il patrono del poeta. Per i modesti bisogni della sua scuola, A. volse nell'”orrido” saturnio gli episodî più interessanti dell’Odissea: opera rozza, ma importantissima come primo tentativo di schiudere ai Romani la bellezza dei capolavori greci. Nel 240 (cfr. Cic., Brut., 18, 72), A. rappresentò rifacimenti d’una tragedia e di una commedia greca (cfr. Cassiod., Chron., p. 128 Mommsen), adattando alla lingua latina i metri ellenici. Accio riferiva al 197 questa prima rappresentazione, con evidente errore combattuto validamente da Cicerone (loc.cit.). La struttura del dramma latino, costituito da diverbia e cantica, presenta divergenze sensibilissime in confronto con la tecnica greca, e non è da escludere l’influenza etrusca. Dall’Etruria venivano gl’istrioni (cfr. Vollmer, Römische Metrik, nell’Einleitung in die Altertumswissenschaft di Gercke e Norden, 3ª ed., I, 8, p. 2). L’aneddoto che Livio, nel recitare un suo dramma, abbia perso la voce e si sia fatto sostituire nel canto da un giovanetto riducendosi alla mimica, è un mito etiologico per spiegare un uso che era generalmente seguito nel teatro latino (cfr. Liv., VII, 2, 8). Delle tragedie si hanno nove titoli: Achilles, Aiax Mastigophorus, Equos Troianus, Aegisthus, Hermiona, Andromeda, Danae, Ino, Tereus; delle commedie tre: Gladiolus, Ludius, Verpus (?). Nel 207, dopo spaventosi prodigi, un coro di ventisette fanciulle cantò, per ordine dei pontefici, un partenio in onore di Giunone Regina, composto dal nostro A. (cfr. Liv., XXVII, 37, 7). Gli eventi da quel giorno volsero propizî, e i Romani, per riconoscenza verso il poeta i cui versi avevano placato le divinità corrucciate, istituirono il “collegio degli scrittori e degli istrioni” nel tempio di Minerva sull’Aventino (cfr. Fest., p. 446, 29 Lindsay). Che Livio nei ludi tarentini del 249 abbia composto un carme in onore di Proserpina è arguta, ma non dimostrabile ipotesi del Cichorius (Römische Studien, Lipsia 1922, p. 1. segg.). Secondo il Cichorius stesso (ibid., p. 7), la morte di A. cadrebbe tra il 207 e il 200. Infatti nel 200 fu cantato solennemente un carme espiatorio di P. Licinio Tegula. Ma l’onore di comporre il carme, dice il Cichorius, sarebbe certo toccato a Livio A., se fosse stato ancora in vita: argomento che è ben lungi dall’essere perentorio.
BARONI, Eugenio. – Scultore, nato a Taranto da genitori lombardi il 27 marzo 1888; morto il 25 giugno 1935 a Genova dove era cresciuto all’arte e aveva vissuto. Avviato agli studî di ingegneria, li lasciò per la scultura, seguendo dapprima l’insegnamento dello Scansi che veniva dalla scuola del Vela e del Monteverde. Divenne poi amico e ammiratore del Bistolfi. Prese parte come ufficiale mitragliere alla guerra mondiale dove fu ferito e molte volte decorato. Fu membro del Salon d’Automne di Parigi. Suo primo monumento è quello all’esploratore Giacomo Bove in Acqui; ma solo quello commemorativo dei Mille a Quarto (1911) gli diede larga rinomanza. Riluttando al verismo, nel quale era stato educato, egli tenderà sempre più verso una sorta di espressionismo di intenti drammatici ed eroici, attraverso composizioni non di rado stravaganti o macchinose, e con i mezzi d’un riassunto plastico alquanto rude e schematico, e, alternamente (in mezzo a tracce veristiche), a sfondo psicologico e decorativo. Il bozzetto per il Monumento ossario al fante – monumento non più eseguito – fu premiato con altri cinque rimasti all’ultima gara del concorso, e si trova oggi nel museo del Castello del Buon Consiglio a Trento.
Altre sue opere d’impegno, il Monumento a Chavez, affidatogli dal governo peruviano, e il Monumento al duca d’Aosta in Torino. Scolpì alcune delle statue ornamentali del Foro Mussolini, L’Alpe, La vetta, La vela, La caccia, ecc.; s0no sue la Statua del Camalo del porto di Genova, e la tomba dei Doria (1915) nel sepolcreto di S. Fruttuoso. Noto anche come medaglista.
LACLOS, Pierre-Ambroise-François Choderlos de. – Scrittore francese, nato ad Amiens il 18 ottobre 1741, morto a Taranto il 5 settembre 1803. Di famiglia recentemente nobilitata, si diede alla carriera militare e divenne un eccellente ufficiale d’artiglieria; ma il successo scandalistico d’un suo romanzo, Les liaisons dangereuses (1782), lo mise in cattiva luce presso i superiori. Ammogliatosi nel 1786, nel 1788 chiese d’essere esonerato dal servizio attivo e divenne segretario di Filippo d’Orléans, alla cui tenebrosa politica contro il ramo primogenito dei Borboni collaborò efficacemente. Membro del club dei giacobini, difese la monarchia costituzionale nel Journal des Amis de la Constitution; ma i tempi gli consigliarono di passare alla causa repubblicana, e con Brissot egli preparò quella petizione a favore della repubblica che condusse alla cruenta repressione della dimostrazione giacobina allo Champ-de-Mars (17 luglio 1791). Nell’ottobre del 1792 ottenne di rientrare nell’esercito col grado di generale di brigata di fanteria. Coinvolto nella rovina di Filippo d’Orléans, fu due volte imprigionato. Nel 1799 gli fu restituito il grado di generale e nel 1800 Napoleone gli concesse di rientrare nell’artiglieria. Questa reintegrazione permise a L. di partecipare alle campagne del Reno e d’Italia.
Come scrittore militare e politico, come saggista e come autore di poesie d’occasione sarebbe oggi dimenticato se non avesse scritto Les liaisons dangereuses, romanzo epistolare che pretende essere un quadro di costumi della nobiltà e dell’alta borghesia francese alla vigilia della Rivoluzione. Le fila dell’azione si raccolgono intorno a due personaggi principali: il visconte di Valmont, che con la sua perfetta tecnica di seduttore vince le lunghe resistenze di un’anima pura e ardente di pietà (madame de Tourvel), e deprava una ragazza ingenua appena uscita di collegio (Cécile de Volanges); e la marchesa di Merteuil che, per spirito di vendetta e per la voluttà di calpestare la virtù altrui, si fa l’instancabile istigatrice di Valmont nelle due opere di seduzione condotte parallelamente, e poi, compiuto il duplice misfatto, gli nega il prezzo pattuito, la dedizione di sé. La triste vicenda si chiude con la esemplare punizione dei due colpevoli; ma è una conclusione posticcia, o almeno non artisticamente condotta ed elaborata. Se per alcuni aspetti Les liaisons dangereusesrientrano nella letteratura libertina del Settecento francese, per altri invece si ricollegano alla grande tradizione psicologica del secolo precedente, e più d’un critico, a cominciare da Baudelaire, ha potuto nominare, e non invano, Racine, ma L. è un Racine spregiudicato, al di là o al di qua dalla morale cristiana, e in questo appartiene di pieno diritto al suo secolo. Les liaisons dangereuses non sono peraltro un breviario di machiavellismo erotico, anche se la lucida ebbrezza del seduttore vi esalti sé stessa, ma una potente analisi di passioni crudeli entro il quadro d’un giuoco serrato, la cui posta, anche se non tutti i personaggi se ne rendano conto, è la vita. Questo libro ebbe notevole efficacia su alcuni scrittori dell’Ottocento: basti ricordare Stendhal, che ne umanizzò e romantizzò il machiavellismo, e Baudelaire, che ne lumeggiò l’aspetto, com’egli diceva, satanico.
Opere: Les liaisons dangereuses, Parigi 1782. Altre venti edizioni si susseguono fino al 1796; dieci nel sec. XIX, dal 1811 al 1894; diciassette nel nostro secolo, di cui una a Spoleto nel 1926, conforme all’edizione originale; due a Parigi nel 1932 (quella critica di M. Allem e quella con prefaz. di J. Giraudoux). De l’éducation des femmes, Parigi 1903; Lettres inédites, Parigi 1904; Essai sur l’éducation des femmes, nellaRevue bleue, 23 maggio 1908.
MASSARI, Giuseppe. – Uomo politico e scrittore, nato a Taranto l’11 agosto 1821, morto a Roma il 13 marzo 1884. Terminati gli studî letterarî e filosofici nel seminario di Avellino, fu mandato, appena quattordicenne, a Napoli ove si dedicò a studî di medicina, che poi trascurò per quelli delle lettere. Fino d’allora, frequentando la casa dell’abate Monticelli, si sentì infiammato a sensi di libertà, anzi sembra che s’iscrivesse alla setta della Giovine Italia, fondata dal calabrese Benedetto Musolino, che aveva il nome e in parte i principî dell’associazione mazziniana. Il 10 settembre 1838 il M. s’imbarcò da Napoli per Marsiglia, per imposizione del padre. Il M. da Marsiglia, si recò subito a Parigi, dove, non ancora diciottenne, seppe in breve familiarizzarsi con gli esuli italiani che l’avevano preceduto, frequentando specialmente la casa di Guglielmo Pepe. Conobbe G. Berchet, gli Arconati, con i quali, specialmente con la marchesa Costanza, ebbe lunga corrispondenza epistolare, T. Mamiani, G. Libri, M. Amari, F. Confalonieri, ecc. Fu pure protetto dalla principessa C. Belgioioso. Relazione dapprima epistolare, poi personale, strinse con il Gioberti, esule a Bruxelles, a cui scrisse fin dal novembre del 1838, testimoniando l’ammirazione per lui con due articoli inviati nel 1841 alProgresso di Napoli intorno all’Introduzione allo studio della filosofia del filosofo torinese. Il 23 dicembre 1843 il M. lasciò Parigi e venne in Italia, sperando di poter prendere dimora in Toscana; ma dopo breve soggiorno a Torino, dove non fu disturbato, recatosi a Milano, fu dalla polizia austriaca riaccompagnato alla frontiera e costretto a tornare in Francia. Là collaborò (1845) alla Gazzetta Italiana della Belgioioso, e visse fino al 1846, quando, accettato l’invito dell’editore G. Pomba, andò a Torino a dirigervi il Mondo Illustrato. Disgustato del modo come si svolgevano le vicende politiche nel Piemonte, alla fine del 1847 passò in Toscana, e collaborò alla Patria di V. Salvagnoli, quindi, nell’aprile del 1848, a Milano, dove rivide il Gioberti e gli fu compagno nel trionfale viaggio a Roma, in Toscana, nell’Emilia, a Genova. Nel frattempo era stato eletto deputato di Bari (15 aprile) al parlamento napoletano; e nonostante fosse stato assente durante i torbidi del 15 maggio, fu condannato più tardi (1853) a morte in contumacia, come uno dei capi del moto popolare. Andò a Napoli e fu presente il 30 giugno all’inaugurazione del parlamento, facendo parte dell’opposizione al ministero di F. P. Bozzelli, e più tardi, specialmente nella seduta del 3 agosto, ebbe fiere parole per la diserzione del governo borbonico durante la guerra dell’indipendenza. Nell’ottobre fu di nuovo a Torino per partecipare al congresso per la federazione italiana bandito dal Gioberti; poi, riconvocato il parlamento napoletano, tornò a Napoli (febbraio 1849), ma ne ripartì per sfuggire al pericolo di essere arrestato il 26 aprile. A Torino aiutò il Gioberti nella compilazione del Saggiatore, quindi fu collaboratore della Gazzetta Ufficiale, di cui, nel 1856, assunse la direzione; e scrisse pure articoli e corrispondenze per il Cimento, la Rivista Contemporanm, e l’Indépendance Belge. Stese allora l’opuscolo I casi di Napoli dal principio del 1848 al novembre del 1849(Torino 1849), che furono come di proemio alle celebri lettere del Gladstone, da lui tradotte (Il sig. Gladstone e il governo napoletano, Torino 1851). Caldissimo difensore della politica di Carlo Alberto, e più ancora, di quella del Gioberti e più tardi di quella del conte di Cavour, che gli affidò delicate missioni segrete; in continua relazione con diplomatici e uomini politici italiani e stranieri, il M. ebbe parte, dopo il 1859, negli eventi che precedettero le annessioni dell’Emilia e della Toscana. Il 10 maggio 1860 fu eletto deputato al parlamento subalpino per il collegio di Borgo San Donnino, e alla camera sedette, a eccezione della XIII, dalla VII alla XV legislatura, militando sempre nelle file del partito moderato.
Della sua grande devozione per il Gioberti sono prova le Operette politiche, leOpere postume, infine i Ricordi biografici e il Carteggio del filosofo torinese, che vennero a luce per opera sua tra il 1860 e il 1862, e il Carteggio tenuto con lui dal 1838 al 1852, raccolto da G. Balsamo Crivelli (Torino 1921). Scrisse pure: Ricordi biografici del conte di Cavour, Torino 1872; La vita e il regno di Vittorio Emanuele II, Milano 1878; Vita del generale, Alfonso La Marmora, Firenze 1880. Del suoDiario 1858–Óo sitll’azone politica di Cavour, assai infelicemente pubblicato da G. Beltrani (Bologna 1931), si desidera una nuova edizione condotta sull’autografo; e così pure delle Lettere alla marchesa Arconati Visconti.
PAISIELLO, Giovanni. – Musicista, nato a Taranto nel 1740, morto a Napoli nel 1816. “Figliolo” nel Conservatorio di S. Onofrio a Napoli, fu discepolo per un anno di F. Durante (morto nel 1785), poi di C. Cotumacci e di G. Abos. Uscito nel ’63 dal Conservatorio, già godendo buon nome, fu chiamato a Bologna da don Giuseppe Carafa, principe di Colubrano, impresario del Marsigli-Rossi. La sua prima opera, 12 maggio ’64, Il ciarlone, piacque. Deluso dell’insuccesso dei Francesi brillanti, 24 giugno ’64, lasciò Bologna. Il Carafa lo raccomandò alla corte di Modena, la quale fece rappresentare I Francesi, quattordici giorni dopo la caduta a Bologna, e li applaudì. L’impresario del teatro Rangoni scritturò P., che rimase a Modena otto mesi, componendovi Madama l’Umorista, il Demetrio e qualche pezzo per varie occasioni. Parma e Venezia gli richiesero alcune opere. Ritornato a Napoli, ottenne nel ’67 un grande successo con l’Idolo cinese. Colà attese a nuove opere (fra cui ilSocrate immaginario) e a rifacimenti fino al ’76, allorché accolse il lusinghiero invito della corte russa. A Pietroburgo compose, fra l’altro, Il barbiere di Siviglia (1782), concerti, sonate, capricci. Graditissimo a Caterina II, incaricato di molti uffici, provò la rudezza di alcuni funzionarî, e chiese il congedo dopo otto anni di servizio. Ritornato a Napoli, si fermò a Vienna, dove, per invito di Giuseppe II, compose il Re Teodoro, su libretto del Casti. Maestro di cappella e compositore della corte partenopea, compose La bella Molinara, 1788, e Nina, la pazza per amore, 1789, che ottenne un grande e duraturo successo. Dopo il 1790 coltivò specialmente l’opera seria, su libretti di R. de’ Calzabigi e Pepoli. Scoppiata la rivoluzione del 1799, gli si fece colpa di aver abbandonato la corte e simpatizzato per la repubblica. Riottenuta la grazia dal sovrano, accettò l’invito di Napoleone, nel 1802; a Parigi compose Proserpina, tiepidamente accolta. Richiamato a Napoli, riprese servizio a corte, ottenendo anche altri uffici. Non seguì il Borbone in Sicilia, e, al ritorno della corte, nel 1815, fu punito con la perdita di quasi tutte le cariche.
Al pari di altri contemporanei sentì convenzionalmente la tragedia, e neppure partecipò alle competizioni per i nuovi ideali melodrammatici. E però il suo contributo al teatro serio è secondario. Nel genere comico, invece, cominciò col brillare in commedie di mediocre gusto, ne toccò accortamente tutte le tendenze, pervenne a un’espressione che prima di lui non era mai stata altrettanto elevata, poetica, bellamente definita. E nell’opera comica ebbe agio di sperimentare le più diverse forme dei pezzi tradizionali, di progredire con i suoi tempi o d’innovare. Non si scorge pertanto una decisa scelta di alcuni mezzi e l’eliminazione di altri, sicché una tale rassegna non può essere condotta cronologicamente.
Le sinfonie in tre movimenti spesseggiano nelle opere giovanili, quelle in uno, invece, nelle posteriori. Nelle prime l’allegro iniziale è sobriamente sonatistico; il tema è povero, manca sovente il secondo. Non vi è svolgimento. Talvolta il terzo tempo si riannoda al primo. In altri casi la sinfonia è collegata con la prima scena (Idolo cinese, Credulo deluso). Nelle ultime opere la sinfonia appare notevolmente estesa, vivace nelle linee, gustosa nello strumentale (Nina). E la funzione orchestrale, sia nelle sinfonie, sia nel corso delle opere, è affidata non solo agli archi, spesso divisi e liberamente alternati alle trombe e ai corni, ma anche ai legni, fra i quali P. predilesse il clarinetto, spesso congiunto col fagotto.
Alla sinfonia segue, come usava, l’introduzione, per lo più in un solo movimento, rondò o canzone, cui partecipano tre o più personaggi, talvolta anche il coro (è il primo Insieme). Fra i pezzi solistici l’aria appare in tutti gli usati schemi, a due, a tre e quattro parti; prediletta la forma del rondò, brillantemente variato, e quella della canzone, spesso incantevole nel gusto elegantemente popolaresco. Frequente l’aria bipartita (Andante-allegro o Allegro-andante). Altri pezzi complessi: l’insieme e il finale. L’insieme paisielliano è talvolta omofonico, talaltra a imitazione; polifonia elementare e di ottima scuola. Ma l’interesse drammatico ne è sovente escluso. I personaggi, siano stati o no delineati, vengono accomunati senza alcuna considerazione della loro condizione. Il motivo principale è talvolta consono alla situazione scenica. Non mancano saggi squisiti d’una viva intuizione dell’insieme, allorché la scelta dei motivi e la disposizione delle voci avvivano il contrasto delle parti serie e delle comiche, delle persone liete e delle tristi, sì che ciascun personaggio sembra recare un accento particolare. E abbiamo così ricordato che la tradizionale distinzione delle parti serie (personaggi aristocratici, stile da melodramma) e delle comiche è presente in molte opere paisielliane. Pezzi anche più complessi, i finali appaiono o come successione di otto, dieci episodî scenici (arie, canzoni, recitativi accompagnati), collegati più dalla costante tonalità che dalla necessità dello svolgimento drammatico, o come una compatta composizione unitaria, anche in forma di rondò, nella quale gli episodî, anziché restare indipendenti, vengono improntati da uno stile solo, sì che la loro contiguità è implicitamente svolgimento e indica il travaglio non solo tecnico ma anche drammatico del compositore. Così il Paisiello seguiva, senza però avanzarlo, il Piccinni.
In quanto alle facoltà espressive, agli accenti caratteristici, Paisiello ebbe ricca la vena dell’ironia e quella del patetico. E l’una era capace di compiaciuta corrosività popolaresca, mirante specialmente allo spasso, e anche di arguzia sottilmente aristocratica; l’altra di interpretazioni squisite e toccanti, e sempre nobili, mirante alla commozione. Si può insistere su tali caratteri antitetici del popolaresco e dell’aristocratico, sia perché la commedia rifletteva il distacco delle classi sociali, e la consuetudine teatrale classificava comiche anche le persone tristi, se di nascita plebea, sia perché l’accento napoletano e meridionale dell’ironia è particolarmente caricaturale, agile, fantasioso, immaginoso, e punge, scotta, frusta, contento dell’improvvisazione che colga nel segno e precisi il rilievo dell’osservazione. Paisiello riuscì eccellentemente in tutti i casi, dall’imitazione quasi realistica dell’oggetto comico, col mezzo di strumenti popolareschi, di ritmi e di assonanze popolaresche, e dalla rappresentazione allegorica nella parodia, col rifacimento di motti musicali divenuti celebri, di effetti ritmici e coloristici d’un presunto esotismo, alla liricità del patetico, dalla serena tenerezza all’affanno. Ma il popolaresco, in quanto stile, non è poi limitato alle rappresentazioni popolaresche e gaie; anche le più flebili e nobili melodie sono paesane. Si potrebbe dirle dialettali, o pensate in dialetto e tradotte in italiano. Per ciò P. fu realmente uno stilista, rimasto incontaminato, si può aggiungere, da contatti stranieri e da studiose ricerche d’altri stili. E come tale, e come fecondo inventore di espressioni e di formule incisive, fu più volte esemplato da Mozart, come H. Abert ha documentato. Infine le sue molte facoltà e il dominio dei mezzi determinavano, laddove il libretto lo consentiva, la nitida caratterizzazione e quindi la vita drammatica. Nel Socrate immaginario (ironia, parodia, buffoneria attorno a don Tammaro, che s’illude d’esser filosofo della più alta levatura e viene beffato dai familiari esasperati, tenerezza e compatimento per le donne in casa), nella Bella molinara (dove il carattere rusticano è squisitamente ingentilito e la psicologia appare già attivamente perspicace), nella Nina (idillio, elegia, che nella delicata, poetica serenità di alcuni primordiali accenti reca il contrasto con i dolori, le angoscie, onde la psicologia della protagonista è ricca), la caratterizzazione sentimentale di parecchi personaggi appare incisiva. Tale caratterizzazione è il segno di un dinamismo interiore. Gli elementi psicologici, nel senso romantico, benché realizzati nella espressione più che nel congegno della compoosizione, nell’aria più che negli insieme, sono dunque già percepibili nelle più poetiche pagine di P.
P. coltivò, come i suoi contemporanei, e abbondantemente anche, la musica per chiesa e da camera. Per questa compose sonate e altri pezzi né geniali nell’invenzione, né nuovi nella forma. Per quella usò lo stile a cappella e quello concertante. Le maniere palestriniane, note ai maestri napoletani forti nel contrappunto, ma ormai prive del loro intimo ideale drammatico, venivano da essi in parte continuate scolasticamente, in parte ritemprate nella nuova sensibilità e con i nuovi mezzi tecnici. Ne risultarono composizioni ibride, alternanti antichità e modernità, ora nel corso dell’opera, ora, anche, in seno ai singoli pezzi. P. riuscì a una certa compenetrazione delle due maniere. Sembra che il testo lo abbia talvolta preoccupato, inducendolo a espressioni drammatiche, affidate non solo alle melodie, ma anche all’armonia, all’orchestra. Quando il rifacimento dell’antico non frenava la sua personale vena, la vigoria della rappresentazione riusciva notevole. Ciò si riscontra nella Missa pro defunctis, in do maggiore, per 8 voci e orchestra, nel confronto con la Messa per doppio coro in fa maggiore. Ammise gli elementi tecnici del “bel canto” e spesso li tramutò di decorativi in espressivi.
TARENTINO, Cardinal. – Così detto dal nome del suo arcivescovato di Taranto, tenuto dal 1421 al 1444. Era Giovanni Berardi, discendente dai conti dei Marsi, signori di Tagliacozzo dove il Berardi nacque, forse, nel 1380. Gli fu attribuito anche il cognome dei De Pontibus, successori dei Berardi e perfino quello degli Orsini. Fu ritenuto napoletano e chiamato Giovanni Tagliacozzo e Giovanni di Tagliacozzo. Fu al concilio di Basilea dal 1432 al 1437. Per aver convalidato il trasferimento del concilio, voluto dalla minoranza, fu imprigionato; ma, riuscito a fuggire, fece confermare dal papa il trasferimento a Ferrara, mentre la maggioranza rimasta a Basilea, deponeva Eugenio nel 1439 ed eleggeva l’antipapa Felice V. Creato cardinale da Eugenio IV (18 dicembre 1439), il 26 marzo del 1440, reduce dalla Germania, si recò a Firenze, nuova sede del concilio e dove si trovava il pontefice, e fu nominato legato per trattare la pace fra Renato d’Angiò e Alfonso d’Aragona. Ritornò a Firenze da Napoli il 25 dicembre 1441. Rientrato a Roma col papa il 28 settembre 1443, fu nominato camerario del Sacro Collegio; il 7 marzo 1444, fu promosso cardinale vescovo e trasferito da Taranto a Palestrina. Fu penitenziere maggiore. Morì in Roma il 21 gennaio 1449 e fu sepolto in S. Agostino.
DELBALZO, Iacopo. – Nipote di Luigi di Taranto, che fu il secondo marito di Giovanna I, riconosciuto come “il primo signore del Regno”. Ereditò, per parte del nonno Filippo, genero dell’imperatrice Caterina di Courtenay (morta nel 1345), e degli zii, premortigli insieme con la madre, i titoli di principe d’Acaia, despota di Romania, signore d’Albania e imperatore di Costantinopoli.
Nel 1373, colta occasione dalla ribellione del padre, guerreggiò contro Giovanna nella Penisola Balcanica, sotto le mura di Taranto e nella Calabria. Ma il successore di Giovanna, Carlo III, finì col pacificarsi con lui dandogli in moglie la cugina Agnese di Durazzo, vedova di Can Grande della Scala. E, restituitagli Taranto, gli concesse anche l’isola di Corfù (settembre 1382). Ma Iacopo morì il 21 settembre 1384, nominando erede il cugino in terzo grado Luigi d’Angiò, duca di Calabria, adottato da Giovanna I e allora in guerra con Carlo di Durazzo.
DONNOLO, Shabbĕtay. – Fu uno dei primi, se non il primo, tra gli ebrei che scrissero di argomenti scientifici in Europa. Nacque a Oria nel 913 o poco dopo; catturato dai Saraceni nel 925, fu riscattato dodicenne in Taranto. Dapprima visse di lavoro manuale, studiando medicina, astronomia e astrologia; poi esercitò la medicina in Calabria, e fu chiamato a curare Euprassio, luogotenente bizantino in Calabria. Fu in relazione con S. Nilo il giovane, nativo di Rossano in Calabria. Viaggiò molto per approfondirsi nelle scienze a cui si era dedicato. Nel 982 era ancora in vita. Scrisse in ebraico: 1. un commento al Sēfer Yĕṣīrāh (Libro della Creazione) col titolo Ḥakmünī (I Chr., XI, 11; XXVII, 32) o Taḥkĕmünī (II Sam., XXIII, 8), ossia Il Sapiente; 2. un’opera farmacologica, di cui ci è pervenuto solo un frammento o un insieme di frammenti; 3. un commento alla Bāraytā astronomica di Shĕmū’ēl, perduto. Altri libri gli sono attribuiti falsamente, o si debbono identificare col commento al Sēfer Yĕṣīrāh o con parti di esso.
CALDERINI, Aristide. – Papirologo ed epigrafista, nato a Taranto il 18 ottobre 1883, allievo di Attilio De Marchi nella R. Accademia scientifico-letteraria di Milano ove si laureò nel 1906; dal 1924 professore di antichità classiche nell’Università cattolica di Milano. Ha creato presso la sua università un’attiva scuola di studî papirologici e ha dato impulso alle ricerche archeologiche su Aquileia. Ha fondato e dirige le riviste Aegyptus (Milano, 1920 sgg.) ed Epigraphica (Milano, 1939 sgg.).
Tra le opere del C., in svariati campi dell’antichità classica, si segnalano le seguenti: La manomissione e la condizione dei liberti in Grecia, Milano 1908; La composizione della famiglia secondo le schede del censimento nell’Egitto greco-romano, Milano 1923; Θησαυροί. Ricerche di topografia e di storia della pubblica amministrazione nell’Egitto greco-romano, Milano 1924; Aquileia romana, Milano 1930; e I Severi. La crisi dell’Impero nel III secolo, Roma 1949 (VII vol. della Storia di Roma dell’Istituto di studi romani). Buon avviamento a singole discipline sono: Papyri. Guida allo studio della papirologia antica greca e romana, 2ª ed., Milano 1944; Le fonti per la storia antica greca e romana, 2ª ed., Milano 1951.
DUQUE DEESTRADA, Diego. – Scrittore spagnolo, nato forse a Toledo verso il 1593, morto a Taranto il 13 febbraio 1649. Arruolatosi a Napoli nel 1614, correva le terre d’Italia, e dopo una vita irrequieta entrava, nel 1639, nell’ordine di S. Giovanni di Dio.
Nel convento di Cagliari completava le sue memorie: Comentarios de el desengañado de sí mismo. L’opera, che attraverso la narrazione autobiografica mirava a dimostrare l’eccellenza della vita monastica su quella mondana, si tramuta nella vivace immaginazione dello scrittore in una narrazione romanzesca. Ma se la realtà è mistificata e i dati di fatto sono spesso invnentati, queste memorie tuttavia rimangono un documento caratteristico della società spagnola e italiana del sec. XVlI, e portano un’originale impronta stilistica. Nulla ci è giunto dell’attività poetica e teatrale di cui si fa vanto l’autore, eccetto un opuscoletto di Octavas rimas a la victoria… conseguida por el Marques de Santa Cruz (Messina 1624). Per iComentarios, v. l’ediz. a cura di P. de Gayangos, in Memorial histórico español, vol. XII, Madrid 1860, e quella di M. Serrano y Sanz, Autobiografías y memorias, inNueva Bibl. de Aut. Esp., II, Madrid 1905.
CASSANO, Cataldo. – Medico, nato a Taranto il 1° giugno 1902; dal 1937 prof. di patologia medica nell’univ. di Pisa, dove dal 1949 passò alla cattedra di clinica medica generale e terapia medica; dal 1956 è prof. di patologia speciale medica e metodologia clinica nell’univ. di Roma. È presidente della Società italiana di endocrinologia.
La sua attività scientifica riguarda molteplici argomenti: ematologia (studî sugli itteri emolitici), patologia renale (ricerche sulle sindromi nefrosiche), epatologia (indagini sui postumi della epatite da virus), ecc.; ma particolare risonanza hanno avuto i suoi studî nel campo delle malattie metaboliche (magrezza, obesità, diabete) ed endocrine (tireopatie, sindromi ipofisarie, ecc.), dove ha fornito, con la sua scuola, contributi originali. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Il problema fisiopatogenetico delle ipertireosi (con L. Baschieri), in Recenti progressi in medicina, XXIII (1957), n. 6, pp. 537-570; Danni postumi e sequele evolutive della virus–epatite, in La riforma medica, 1956, fasc. n. 6; A study on 48 cases of simple goitre with a high renal clearance for iodide (in collaboraz.) comunicazione al IV congresso mondiale sul gozzo, Londra 1960.
FRANCESCO Di Geronimo, Santo. – Nato il 17 dicembre 1642 a Grottaglie (Taranto), morto a Napoli l’11 maggio 1716. Sacerdote e prefetto nel Collegio dei nobili a Napoli, entrò novizio fra i gesuiti il 1° luglio 1670. Dopo un anno fu mandato a Lecce compagno del missionario Agnello Bruno, e ivi fece le sue prime prove oratorie, finché nel 1674, richiamato a Napoli, terminò gli studî di teologia, per passare l’anno seguente al Gesù Nuovo. Nel 1678 gli venne affidata dai superiori l’intera cura delle missioni nel regno di Napoli, e in tale carica rimase fino alla morte. Pio VII lo beatificò nel 1806; Gregorio XVI lo canonizzò il 26 maggio 1839. La sua festa si celebra l’11 maggio.
Restano di lui alcune Brevi notizie sulle cose principali occorsegli nelle missioni, pubblicate da G. Boero, S. Francesco di Girolamo e le sue missioni, dentro e fuori di Napoli, Firenze 1882, pp. 67-181, un centinaio di lettere e una voluminosa raccolta di abbozzi per prediche conservati negli archivî della Compagnia.
LEONIDA di Alessandria. – Poeta epigrammatico, la cui produzione fu per molto tempo confusa con quella dell’omonimo poeta di Taranto. A lui sono da attribuire una quarantina di epigrammi, i quali si contraddistinguono per un curioso artificio tecnico (di cui L. è considerato inventore o principale rappresentante) consistente in questo: che essi sono in generale, isopsefici, ossia risultano di due distici che hanno il medesimo numero di sillabe. Dagli epigrammi – conservati nell’Antologia Palatina – si deduce che L. fu in origine astrologo e visse in Roma ai tempi di Nerone e di Vespasiano. Celebrò Agrippina e Poppea; giustificò il matricidio di Nerone espresse il suo giubilo per la “salvezza” dell’imperatore.
CLEONIMO (Κλεώνυμος, Cleonãmus). – Principe spartano della casa degli Agiadi, figlio di Cleomene II, fu escluso per il suo carattere violento dalla successione al trono in favore di Areo I (309-8 a. C.); quando Taranto, minacciata dai Lucani e dai Romani, chiese aiuto agli Spartani, questi ben volontieri concessero loro, per liberarsene, C. come duce. Sbarcato a Taranto (309) con 5000 mercenarî laconi, organizzò un esercito di più di 20.000 fanti e 2000 cavalli, e Lucani e Romani vennero allora a patti con Taranto. Egli entrò quindi in Metaponto, forse chiamato in aiuto contro i Lucani, e la trattò duramente. Meditava intanto una spedizione in Sicilia, ma poi improvvisamente occupò Corcira. I Tarentini e le altre città italiote, minacciate da quella occupazione, si staccarono da lui; egli sbarcò allora in Italia, ma non gli riuscì di assoggettarle e tornò a Corcira. Si spinse poi a pirateggiare nell’Adriatico settentrionale, e sbarcò alla foce della Brenta; ma i Padovani sconfissero le sue truppe e danneggiarono la sua flotta avventuratasi nella laguna. Costretto infine a sgomberare anche Corcira, tornò a Sparta, e gli furono affidati dei comandi in varie spedizioni; ma poi (275) per ragioni politiche e private lasciò la città e militò nell’esercito di Pirro, che lo mandò a invadere il Peloponneso promettendogli il trono di Sparta. L’impresa fallì. Dopo la morte di Pirro (272), non abbiamo più notizie di lui; forse morì in esilio.
COSTA, Pasquale Mario. – Musicista, nato a Taranto il 24 luglio 1858, morto a Montecarlo il 27 settembre 1933. Studiò al conservatorio di Napoli, con P. Serrao, con lo zio Carlo Costa e con altri.
È uno dei maggiori rappresentanti della caratteristica canzone napoletana, fiorita nell’ultimo quarto del sec. XIX (Oje Carulì, Men a me, Nannì, Serenatella, ‘A Retirata, ecc.). Scrisse anche liriche da camera, tra cui la nota Serenata medievale. Dotato di bella voce di tenore, fu l’interprete di sé stesso, accendendo veri entusiasmi, specialmente a Londra, dove seguì le orme di F. P. Tosti. Grande popolarità ebbe la sua pantomina Histoire d’un Pierrot (Parigi 1893). Compose inoltre alcune opere ed operette, tra cui Il Capitan Fracassa (Torino 1909) eScugnizza (ivi 1922).
CANDIDA, Luigi. – Geografo, nato a Taranto l’8 marzo 1907. Laureato in scienze diplomatiche e consolari a Ca’ Foscari (Venezia), dal gennaio 1934 al dicembre 1951 è stato assistente alla cattedra di geografia economica, dal dicembre 1951 straordinario della stessa cattedra, dal dicembre 1954 ne è ordinario; è stato rettore (1972-74) dell’università di Venezia. Allievo di L. Ricci e suo successore, ha portato molti contributi, d’impostazione prevalentemente descrittiva, alla geografia economica.
Scritti principali: I Colli Euganei (1950); Il Porto di Venezia (1950); Saline adriatiche (1951); La casa rurale nella pianura e nella collina veneta (1959);Memoria illustrativa della carta dell’utilizzazione del suolo del Veneto (1972).
FAGO, Nicola. – Musicista, nato a Taranto il 19 gennaio 1676, morto a Napoli nel 1745. Lo troviamo nel 1704 al conservatorio di S. Onofrio a Napoli, nel 1709 maestro di cappella al Tesoro di S. Gennaro, posto ch’egli tenne fino al 1731, mentre già dal 1711 era passato da S. Onofrio all’altro conservatorio napoletano della Pietà dei Turchini, ove rimaneva fino al 1740. Questa lunga carriera d’insegnante gli valse l’onore di avere allievi come L. Leo, N. Jommelli e altri insigni musicisti. Valente compositore egli stesso, il F. fu celebre specialmente per la sua produzione religiosa:Magnificat, Te Deum, Stabat, per voci e strumenti, un Oratorio (Faraone sommerso), ecc., ma notevole importanza ebbero, nel loro tempo, anche le sue opere teatrali e le cantate.
GUGLIELMOI re di Sicilia. – Nato nel 1120, quarto figlio di Ruggiero II, per le morti successive dei fratelli maggiori divenne prima principe di Taranto e di Bari, poi anche principe di Capua e duca di Napoli, qual’era allorché sposò Margherita di Navarra, e in ultimo duca di Puglia e principe ereditario. Associato al trono paterno l’8 aprile 1151, morto tre anni dopo Ruggiero II, G. fu incoronato re il 4 aprile 1154. Ereditava un regno apparentemente in piena prosperità, ma minacciato fuori dalle pendenze coi due imperi e dentro dall’intolleranza dei baroni e delle città verso il forte accentramento stabilito dal fondatore della monarchia. Né di questo G. possedeva l’attività e l’applicazione agli affari, indolente eom’era di natura e dedito ai godimenti tanto sensuali quanto intellettuali. A torto è passato alla storia col nome di G. il Malo: in verità egli continuò la politica del genitore.
Datosi a cercare alleanze per isolare il Barbarossa, con cui cospiravano i suoi nemici interni, fece sì che i Tedeschi non potessero metter piede nel mezzogiorno d’Italia. Preparava una spedizione contro il dominio pontificio e faceva assediare Benevento, quando scoppiò la ribellione nel regno; i Greci, in rapporto con Adriano IV, coi ribelli e con Genova, ne occupavano la costa adriatica e il papa, percorsa la Campania,s‘istallava a Benevento e anche Sfax insorgeva (1155-56). G., entrato di persona in campagna, domò i ribelli, inflisse ai Greci una grande sconfitta a Brindisi, ridusse il papa a firmare il trattato di Benevento, ottenendone l’investitura, si accordò con Genova. In Africa però la rivolta di Sfax, dilagando fra le altre popolazioni musulmane, prese tali proporzioni da produrre in fine il crollo del dominio siciliano colà (1160). Ma G. se ne compensò, domando nel regno una nuova ribellione, soccorsa da Bisanzio, inviando contro Bisanzio una flotta, che indusse alla pace Manuele Comneno (1158), alleandosi col papa contro il Barbarossa e (se può credersì a un cronista del tempo) ricevendone l’offerta della corona d’Italia. Certo è invece che l’elezione di Alessandro III fu dovuta al re di Sicilia. Grave perdita per lui fu quella del ministro Maione, ucciso da una congiura (10 novembre 1160), che imprigionò anche il re, poi liberato di fronte alla pubblica indignazione. Seguì un’altra insurrezione generale, onde nel 1161 parve in tutto abbattuta la regia autorità. Ma anche questa volta G. trionfò dei nemici interni e poté provvedere ai bisogni di Alessandro III, che coi suoi aiuti poté mettersi in salvo in Francia, ritornare in Italia e ristabilirsi a Roma. Ma questo fu l’ultimo successo di G., che, dopo aver dotato il regno di nuove savie leggi, di sontuosi edifici e di altre opere d’arte, spirò il 7 maggio 1166.
PACUVIO (M. Pacuvius). – Scrittore e pittore latino. Figlio di una sorella di Ennio, nacque a Brindisi l’anno 220 a. C. Fu portato dallo zio a Roma, dove esercitò la pittura e scrisse tragedie. Fu amico e ospite di C. Lelio e quindi, secondo ogni probabilità, appartenne al circolo di Scipione Emiliano. Ancora a ottant’anni fece rappresentare una sua tragedia, ma poco dopo si ritirò a Taranto, dove morì quasi nonagenario. Di P. ci restano dodici titoli di tragedie e più di trecento frammenti, che in tutto formano poco più di quattrocento versi.
Delle tragedie di P. quattro derivano da Sofocle (Chryses, Hermiona Niptra,Teucer), una da Eschilo (Armorum iudicium), una da Euripide (Antiopa): però prevale l’influenza di Euripide, perché le altre sei tragedie sono sviluppi o variazioni di temi euripidei. Difatti il Medus è uno svolgimento ulteriore del mito di Medea, come l’Atalanta di quello di Meleagro, l’Iliona è uno sviluppo laterale dell’Hecuba, laPeriboea e il Dulorestes trattano argomenti euripidei con l’aggiunta di nuovi motivi e di nuovi personaggi, il Pentheus apporta notevoli modificazioni alle Bacchae. Noi non sappiamo se P. stesso elaborò coi suoi mezzi la trama di queste sei tragedie o se seguì modelli post-euripidei. E neanche possiamo paragonare le tragedie tolte da Eschilo, da Sofocle e da Euripide coi loro esemplari, perché questi ci mancano. Però è da credere che P. trattasse con molta libertà i suoi modelli.
P. compose anche una praetexta, Paulus, che celebrava la vittoria riportata a Pidna sul re Perseo da L. Emilio Paolo l’anno 168. Ce ne restano quattro versi. Porfirione e Diomede attestano che scrisse anche satire, cioè poesie miste nello stile di Ennio, ma non ne rimane neanche un frammento.
P. fu molto lodato dagli antichi. Le sue tragedie producevano grande effetto sia per il numero dei personaggi e la complicazione dell’intreccio, sia per la gravità dei pensieri, per la forza dell’espressione e per il contrasto potente dei sentimenti. Esse durarono sulle scene, finché a Roma le tragedie furono rappresentate. Ma fu cattivo scrittore di lingua latina; si nota anche in lui una certa frequenza di allitterazioni, di figure retoriche, di grecismi.
I frammenti di P. si trovano nella raccolta del Ribbeck (Tragicorum romanorum fragnenta, Lipsia 1897, pp. 86 e 325).
Dell’opera pittorica di P. è ricordato soltanto il dipinto che si trovava nel tempio di Ercole nel Foro Boario, d’altronde assai lodato e avvicinato alla pittura del suo predecessore Fabio Pittore. Il tempio di Ercole fu fondato e restaurato con grande splendore da Emilio Paolo, il vincitore di Pidna, ed è probabile che questi stesso ne abbia commesso a P. la decorazione pittorica. Purtroppo non sappiamo nulla né sul soggetto né sullo stile dell’artista.
Bibl.: O. Ribbeck, Die römische Tragödie im Zeitalter der Republik, Lipsia 1875, p. 216; A. Goette, De L. Accio et M. P. veteribus Romanorum poetis tragicis, Rheine 1892.
FLAMININO, Tito Quinzio (T. Quinctius T. f. L. n. Flamininus). – Di gente patrizia, nacque il 229 a. C. Fece le sue prime armi nella guerra annibalica, ed era tribuno dei soldati sotto il console Marcello, quando questi cadde nel 208. Poi fu inviato a Taranto con autorità di propretore nel 205-4. Fu questore, non sappiamo quando, poi senza rivestire né l’edilità, né la pretura, all’età di circa trent’anni, nel 199, si presentò come candidato alle elezioni consolari nel 198, e riuscì eletto nonostante qualche opposizione dei tribuni della plebe. Assunto il consolato, partì immediatamente per la Grecia, dove prese il comando dell’esercito romano che fronteggiava Filippo V di Macedonia ai passi del fiume Aoo nell’odierna Albania. Accordata al nemico una breve tregua, ne profittò per riordinare l’esercito. Respinte le offerte di pace di Filippo, che, riconosciuta ormai la superiorità dei Romani, era pronto a far concessioni larghissime, lo attaccò e lo sbaragliò quasi senza perdite. Di questa vittoria, di alcune piccole azioni guerresche in Focide, di un’azione dimostrativa che fece con l’aiuto del fratello, il propretore Lucio Flaminino, il quale comandava la flotta contro Corinto, profittò per trarre abilmente a sé quasi tutti gli antichi alleati di Filippo, segnatamente l’Epiro, la lega acaica, e la Beozia; sicché unitisi questi agli alleati che Roma già aveva in Grecia, particolarmente cioè gli Etoli, F. era alla testa di una lega che abbracciava, salvo la Tessaglia, quasi tutta la Grecia, quando nel 197 invase la Tessaglia per dare a Filippo il colpo decisivo. La battaglia avvenne nel giugno di quell’anno a Cinoscefale (v.) e fu per i Romani vittoria pienissima dovuta alla loro superiorità tattica e alla geniale manovra ideata da un tribuno militare. Giunto il console a Larissa, Filippo aprì immediatamente trattative con lui, e ottenne la pace rinunziando alla sua flotta da guerra e a tutti i suoi possessi fuori della Macedonia. F. aveva tratto a sé i Greci promettendo loro l’autonomia e mantenne ora la promessa. Alle feste istmie del 196 in nome del senato proclamò solennemente la libertà di tutti i Greci tra gli applausi frenetici di quanti assistevano alle feste. Nel 195 poi, raccolto un sinedrio dei suoi alleati greci per giudicare intorno alla controversia tra gli Achei e Nabide di Sparta, sebbene anche Nabide si fosse dichiarato suo alleato e gli avesse mandato soccorsi in Tessaglia, diede giudizio favorevole agli Achei. Sicché si venne alla guerra contro Nabide. Fu anche questa guerra vittoriosa, sebbene non si venisse a battaglie decisive. Nabide perdette Argo che egli occupava, e dovette cedere agli Achei le città marittime della Laconia. Sarebbe stato possibile a F. prendere Sparta, o costringere Nabide alla resa, ma egli non volle un soverchio incremento dei suoi nuovi alleati Achei, così come non aveva voluto un soverchio incremento della lega etolica. E l’anno seguente 194, egli evacuò completamente la Grecia, comprese le piazzeforti di Demetriade, Calcide e Corinto, che i Romani presidiavano dopo averle ricevute da Filippo per effetto della pace. E trionfò solennemente in Roma recando immenso bottino. Egli lasciava la Grecia libera ma travagliata da discordie e in gran parte insofferente del nuovo ordine di cose. Quando gli Etoli cominciarono apertamente a turbare la pace, e a preparare accordi con Antioco III di Siria, F., inviato nel 192 come legato in Grecia, pur disponendo di pochissime forze, con la sua abilità diplomatica riuscì a frustrare in gran parte le mene degli Etoli e degli altri avversarî di Roma. Certo per non irritare Filippo, tenne un contegno ambiguo coi Demetriesi che temevano di ricadere nelle sue mani, e questo provocò la ribellione di Demetriade e la sua unione all’Etolia; ma assicurò anche ai Romani durante la guerra siriaca la preziosa amicizia di Filippo. F. seppe anche assicurarsi l’amicizia di Atene la cui fedeltà aveva per un momento vacillato. E dopo il successo di Acilio Glabrione alle Termopili continuò a lavorare nella Grecia centrale e nel Peloponneso con grande abilità a vantaggio di Roma. Nell’Eubea ottenne che il console risparmiasse Calcide, la quale era passata ad Antioco, ciò che giovò molto a riconciliare gli animi dei Greci con Roma; poi, fattosi mediatore tra i Romani che assediavano Naupatto e gli Etoli, fece concludere tra i belligeranti una tregua di sei mesi la quale diede agio ai Romani di portare le armi in Asia senza più preoccuparsi per il momento delle cose di Grecia. Nel Peloponneso dove gli Achei erano riusciti ad annettere Sparta alla lega, cercò, sorti alcuni torbidi a Sparta, di farvela tornare con la sua mediazione; ma fu prevenuto da Filopemene, che pacificò Sparta con gli Achei all’infuori della mediazione romana. Gli riuscì però di farsi mediatore tra la lega e Messene e questo fu germe di gravi dissensi futuri. Riunito tutto il Peloponneso, gli Achei cercarono di avere Zacinto, ma qui F. si oppose apertamente e giustificò la sua opposizione dicendo che gli Achei chiusi nel Peloponneso vi sarebbero stati sicuri come la testuggine nel suo guscio. F. fu poi censore insieme con M. Claudio Marcello nel 189. Tale censura non ebbe grande rilievo, ed è notevole soltanto per la relativa larghezza con cui i censori promossero l’acquisto dei pieni dirittì di cittadinanza per parte di taluni di quei municipî che n’erano privi. La seguente censura, quella che tennero Catone e Valerio Flacco (184) colpì gravemente F. con la destituzione del fratello Lucio dal Senato per indegnità. Nel 183 F. era di nuovo in Oriente come legato. Di passaggio nel Peloponneso cercò di carpire agli Achei qualche concessione a favore degli autonomisti di Messene capitanati da Dinocrate, che vantava appunto la sua amicizia con lui. Non ottenne nulla, ma il favore da lui dimostrato agli autonomisti fomentò la ribellione che scoppiò poco dopo, e provocò la guerra in cui Filopemene perdette la vita. F., recatosi poi da Prusia di Bitinia ottenne che quel re si risolvesse a consegnare ai Romani Annibale che s’era rifugiato presso di lui e l’aveva aiutato col suo genio durante la guerra con Eumene. Annibale per non cadere in mano dei nemici si uccise. Questo è l’ultimo fatto a noi ricordato di F. Egli morì ancora in fresca età nel 174, nel quale anno sappiamo da Livio che T. Quinzio Flaminino, quasi certamente un suo figlio, celebrò lussuosi giuochi funebri in onore del padre.
F. fu uno di quegli ufficiali formatisi alla dura scuola della guerra annibalica, ai quali Roma deve le sue meravigliose vittorie dei primi decennî del sec. II. Valente generale, egli fu poi espertissimo politico e diplomatico. Giovò assai al suo successo il suo non simulato filellenismo. Egli certamente credeva in perfetta buona fede di fare gl’interessi dei Greci non meno che quelli di Roma, assicurando la piena autonomia delle città e leghe greche di fronte alla Macedonia, e non è dubbio che la Grecia dopo il 196 ebbe una somma di autonomie e di libertà quale forse non aveva mai goduto lungo tutta la sua storia; né può farglisi colpa se egli non previde che il ricostituire in Grecia un pulviscolo di stati autonomi e l’eliminare ogni tentativo o speranza d’unità nazionale sotto qualsiasi forma, non poteva non moltiplicare le discordie e dando motivo o pretesto a continui interventi romani per eliminarle, preparare la servitù. Come in politica estera, egli patrocinò l’imperialismo stesso vagheggiato da Scipione Africano che voleva il predominio ma non cercava sfruttamento o dominio diretto, così in politica interna egli avversò l’indirizzo favorevole alla plebe rurale e sfavorevole alla nobiltà che era rappresentato da Catone. Tuttavia egli si tenne sempre in disparte dalle cricche nobiliari che si radunavano attorno agli Scipioni, sebbene dovesse avvicinarvelo anche il suo filellenismo.
CERVOVOLANTE (fr. cerf-volant; sp. cometa; ted. Drache; ingl. kite). – Cenni storici. – Il cervo volante o aquilone come giocattolo, ossia nella sua più semplice forma di leggiera armatura ricoperta di tela o di carta, affidata al vento e trattenuta mediante una funicella, può vantare origini lontanissime.
Una tradizione assai nota ne attribuisce l’invenzione ad Archita da Taranto (430-348 a. C.). Che, del resto, l’antichità classica abbia conosciuto il cervo volante, può apparire provato giudicando da una figura su un vaso conservato nel Museo nazionale di Napoli (n. 3151; cfr. Archäolog. Zeitung, 1867). Vi si vede una fanciulla che trattiene mediante una funicella un cervo volante triangolare.
Molto probabile sembra l’origine orientale del cervo volante, origine che potrebbe anche essere confortata dalle denominazioni richiamanti il dragone, simbolo fondamentale della mitologia cinese, che il cervo volante ha assunto in qualche lingua europea. È noto del resto che tuttora i Cinesi, i Giapponesi, i Coreani, gli Annamiti, hanno una grande passione per il cervo volante, cui ricollegano buon numero di superstizioni e credenze. I Coreani, p. es., nei primi giorni dell’anno attaccano a un cervo volante un rotolino di carta col nome e la data di nascita dei figli, e, dopo averlo lanciato, tagliano la cordicella lasciando che il cervo volante si disperda nella campagna: immaginano che esso porti con sé le disgrazie dell’anno che incomincia.
Qualunque ne possa essere l’origine, è probabile che il giuoco del cervo volante sia stato conosciuto nell’età di mezzo: non se ne ha però notizia fino al sec. XV, della qual epoca è un manoscritto, citato dal Feldhaus (Die Technik der Vorzeit, Lipsia e Berlino 1914), dove è spiegato wie du einen Drachen artificialiter machen und regieren sollst. Ne dà particolari G. B. Porta, nella sua Magia naturalis (Napoli 1589, p. 382), forse per notizie avutene dal padre M. Ruggeri tornato allora dalla Cina. Altre notizie si hanno ancora del cervo volante nei secoli seguenti, ma bisogna giungere alla metà del sec. XVIII per cominciare a trovare il cervo volante considerato con qualche interesse. Nel 1749 si compie la prima rudimentale ascensione meteorologica; nel 1752 il Franklin adopera il cervo volante per le sue esperienze sull’elettricità atmosferica, seguito ben presto da altri sperimentatori come il Romas in Francia, il padre Beccaria in Italia e molti altri. Esperienze con cervi volanti adoperati a varî usi si ebbero qua e là nel principio del sec. XIX (ascensioni di Dansett a Londra [1804], esperienze di Colladon in Svizzera [1827], ecc.), ma progressi sensibili nella costruzione, nello studio e nel “utilizzazione dei cervi volanti non si ebbero che in tempi relativamente recenti, da quando cioè Hargrave costruì il primo cervo volante cellulare (1898), ottenendo una stabilità di equilibrio di gran lunga più grande di quella di qualsiasi altro cervo volante monoplano. Dalle cellule Hargrave si può dire che son derivati tutti i migliori tipi di moderni cervi volanti.
Descrizione, costruzione e classificazione dei cervi volanti. – In un cervo volante si distinguono: la carcassa od ossatura, la velatura, l’imbrigliatura e il cavo di ritenuta.
La carcassa è costituita per lo più da bacchette di legno ed è irrigidita da tiranti metallici o da funicelle; su essa è tesa la velatura di carta o, più spesso, di tela.
Il cavo di ritenuta si fissa alla carcassa mediante due o più briglie di varia lunghezza. L’insieme di tali briglie, i cui estremi si riuniscono in un occhiello entro il quale, per mezzo di una spagnoletta, si infila il cavo principale, prende il nome di imbrigliatura. Non solo si raggiunge in tal modo l’equilibrio del cervo volante, ma si distribuisce convenientemente sull’ossatura lo sforzo di trazione del cavo. L’operazione d’imbrigliatura è la più delicata nel montaggio d’un cervo volante, poiché da essa dipende gran parte dell’equilibrio dell’apparecchio: essa determina l’angolo sotto il quale questo prende il vento (supposto orizzontale). Per utilizzare un medesimo cervo volante per intensità di vento anche assai diverse, le briglie inferiori sono sostituite da elastici che, tendendosi sotto l’azione del vento, permettono al cervo volante di cambiare automaticamente l’angolo d’attacco.
La robustezza del cavo è proporzionata alle dimensioni del cervo volante. Il cavo può essere svolto da un 0pp0rtuno verricello.
I cervi volanti sono:
a) monoplani, quando la carcassa ricoperta dalla velatura costituisce una sola superficie piana (piano sostentatore) variamente foggiata. Qualche volta per migliorare l’equilibrio trasversale si fissano al piano sostentatore uno o più piani direttori perpendicolari al primo.
b) diedri, quando la carcassa è costituita da due piani che s’incontrano ad angolo diedro molto aperto lungo una spina dorsale.
I cervi volanti monoplani o diedri hanno bisogno in generale, per migliorare il proprio equilibrio, dell’aggiunta della coda, costituita da un tratto più o meno lungo di cordicella, lungo la quale sono intercalati a uguali intervalli lembi di stoffa o di carta, o coni di tela con la base di vimine incurvato volta verso il vento.
c) multipli o cellulari a più superficie orizzontali sovrapposte, connesse ad altre verticali o in vario modo inclinate.
d) misti, la carcassa dei quali è formata da cellule accoppiate in vario modo a superficie laterali (alettoni) che hanno sempre lo scopo di meglio assicurare la stabilità.
I cervi volanti sono poi rigidi quando hanno carcassa indeformabile su cui la velatura è tesa perfettamente, o deformabili, quando parte della carcassa può piegarsi sotto l’azione del vento, ovvero la velatura, non del tutto tesa, può gonfiarsi al vento facendo tasca.
Tipi di cervi volanti. – Fra i cervi volanti monoplani sono da annovgrarsi i tipi più comuni di cervi volanti giocattoli, di cui alcune fogge, come per es. il tipo a pera, sono tradizionali.
Notevole è il cervo volante Eddy (fig. 2), sperimentato lungamente in America e impiegato in osservazioni meteorologiche, per fotografie dall’alto ed anche per ascensioni. La carcassa è costituita da una spina dorsale (m. 1,80), incrociata da una verga di uguale lunghezza a circa 1/4 da una estremità; la verga è mantenuta incurvata all’indietro da un filo metallico. La velatura è costituita da tela leggiera a forma di losanga: essa è molto tesa nella parte superiore, mentre nella parte inferiore è lasciata molleggiante in guisa da far tasca sotto l’azione del vento.
Il progenitore dei cervi volanti di tipo multiplo è il cellulare Hargrave (fig. 3). La carcassa è formata da due sbarre di legno profilato, lunghe m. 2,40, costituenti la spina dorsale: esse sono tenute parallele ad una distanza di m. 0,75 l’una dall’altra mediante traverse incrociate di metri 1,50. Verghe lunghe m. 2,70 incrociano le sbarre e sostengono la velatura orizzontale, mentre altre verghe, parallele alle sbarre e incastrate alle estremità delle traverse, sopportano la velatura verticale. La velatura forma quindi ai due terzi anteriore e posteriore delle sbarre due parallelepipedi di m. 2,70 × 0,80 × 0,75 (cellule).
Il cellulare Potter è una modificaziohe dell’Hargrave, differendo da questo per particolari costruttivi e per il fatto che le cellule sono cubiche e che le briglie sono attaccate ad uno spigolo delle cellule e non su una faccia: esso quindi vola – come si dice – sull’angolo, e non sul piano come il cellulare Hargrave.
Il cervo volante Lecornu (fig. 4) è un multicellulare; la carcassa è costituita da quattro sbarre di legno di m. 3 che s’incrociano a due a due ad angolo retto: le due croci sono mantenute in piani paralleli distanti di m. 0,70. L’armatura di questo tipo sostiene un parallelepipedo di tela di il cui interno è suddiviso mediante striscie di tela parallele alle faccie e incrociantisi ad angolo retto in 16 cellule non rigide e sensibilmente cubiche.
Ricordiamo ancora il tipo russo, formato da due cellule semicilindriche, usato specialmente per osservazioni meteorologiche.
Al tipo misto appartengono il cervo volante Conyne, formato da due cellule triangolari non rigide munite di due alettoni triangolari laterali; il cervo volanteMadiot, costituito da un cellulare Hargrave (di cui però è completamente diverso il procedimento costruttivo), munito di due alettoni triangolari; il cervo volante Cody–Saconney (fig. 5), formato anch’esso da un cellulare Hargrave di cui però ciascuno dei piani orizzontali si prolunga da una parte e dall’altra in alette triangolari, inclinate in alto per i piani superiori e in basso per quelli inferiori; le alette che prolungano il piano superiore della cellula anteriore sono molto più ampie delle altre. Questi tipi di cervi volanti sono specialmente usati per ascensioni.
Equilibrio d’un cervo volante. – Schematizzando (fig. 6) il cervo volante mediante una sola superficie piana (la cui traccia sia AB) si possono rapidamente trovare le condizioni di equilibrio. Il cervo volante è sottoposto alla azione di tre forze: P, peso applicato nel centro di gravità dell’apparecchio; T, trazione della fune applicata in un punto F congiunto al cervo volante mediante le briglie; N, spinta del vento sul cervo volante applicata nel centro di pressione C.
Il centro di pressione non coincide se non in casi particolari col centro di figura O, ma è spostato in avanti rispetto a questo d’una quantità che è funzione dell’angolo α che il cervo volante forma col vento, e che numerosi sperimentatori hanno cercato di determinare, compendiando poi i loro studî in formule approssimate. Perché l’equilibrio possa sussistere è necessario che le tre forze cui è sottoposto il cervo volante concorrano in un punto e che la risultante sia nulla; inoltre la somma dei momenti di esse rispetto a un qualunque centro di riduzione deve essere del pari nulla. Indichiamo con
il rapporto fra la componente normale della spinta per l’inclinazione α e quella per il piano esposto normalmente al vento (per N90 e per un piano sottile si adotta l’espressione KSV2 in cui V è la velocità del vento, S la superficie del piano e K un coefficiente numerico da determinarsi sperimentalmente); con ϕ (α) la distanza del centro di pressione dal centro di figura (misurata assumendo come unità di misura la distanza del centro di figura dal bordo di attacco); con la distanza del centro di gravità dal centro di figura; con (a, b) le coordinate del punto F di attacco del cavo alle briglie rispetto a due assi ortogonali con l’origine nel centro di figura e di cui l’asse x coincide con la traccia del cervo volante. Diciamo ancora T la grandezza della tensione del cavo e β l’angolo che questa, a una distanza convenientemente piccola da F, forma con l’orizzonte. Essendo α l’inclinazione d’equilibrio del cervo volante si ha facilmente
avendo introdotto la quantità
dipendente da
definita come densità del cervo volante.
La condizione d’equilibrio relativa ai momenti (assumendo come centro di riduzione dei momenti il centro di figura) è:
Da questa, assumendo per f(α) e ϕ (α) espressioni approssimate ricavate dalle esperienze (p. es. le formule di Soreau-Duchemin):
si possono dedurre le seguenti leggi sperimentali per l’equilibrio di un cervo volante (cfr. Th. Bois, Les cerfs–volants et leurs applications militaires, in Revue du Génie, 1905): l’inclinazione d’equilibrio d’un cervo volante non dipende direttamente dal suo peso né dalla sua superficie, ma solo dalla sua densità e dalla posizione relativa del centro di gravità, del centro di figura e del punto d’attacco; essa inoltre non dipende dalla velocità del vento, ma dal rapporto fra la componente normale della pressione del vento per unità di superficie e la densità.
Dicesi rendimento di un cervo volante il rapporto fra la componente verticale della pressione del vento diminuita del peso dell’apparecchio e la componente orizzontale (v. aerodinamica). Il rendimento è dunque uguale al rapporto fra le componenti verticale e orizzontale della trazione del cavo, cioè a tg β, essendo β l’angolo che la direzione del cavo in un punto convenientemente prossimo all’estremità delle briglie forma con l’orizzonte. Il rendimento è massimo quando tale angolo è massimo, il che si ha (adoperando ancora le formule di Soreau-Duchemin) quando
In tal caso le estremità delle briglie (punto d’applicazione della trazione) debbono ricongiungersi in un qualunque punto della retta di equazione:
che dà la direzione del cavo di ritenuta in un punto abbastanza prossimo al cervo volante, nell’ipotesi che questo abbia l’inclinazione α corrispondente al massimo rendimento.
Se tale direzione risulta orizzontale, cioè se è ω = √2, il cervo volante sarà in equilibrio per una data velocità di vento al livello del suolo: ma esso si trova nello stesso tempo nelle condizioni di massimo rendimento, cioè nelle condizioni di raggiungere la massima possibile altezza, dunque il Gervo volante non potrà alzarsi nell’aria; esso potrebbe soltanto essere lanciato verso il suolo da una posizione più in alto che non il cervo volante stesso; p. es. dalla navicella d’un dirigibile. Il valore della densità che si ricava dalla ω = √2 si dice densità limite del cervo volante, come il corrispondente valore di α (circa 35° 15′ 37”) si dice angolo limite assoluto. Dalla stessa relazione può ricavarsi il valore del vento limite, cioè la minima velocità di vento per la quale un cervo volante di conosciuta densità possa sollevarsi.
Se immaginiamo che il vento non agisca sul cavo di ritenuta, supposto omogeneo, questo si disporrà, come è noto, secondo una catenaria. Dicendo T la tensione del cavo in vicinanza del suolo, p il peso per unità di lunghezza, l’altezza h cui giunge un cervo volante per una lunghezza l del cavo è
L’azione del vento sulla corda modifica la configurazione di equilibrio: secondo il Saconney il cavo tende ad assumere la forma di un arco di cerchio.
Per una data velocità di vento un cervo volante di assegnata densità non può superare una determinata altezza (altezza limite): questa è raggiunta quando l’angolo β che il cavo fa col suolo è nullo.
Principali applicazioni del cervo volante.
Le applicazioni del cervo volante sfruttano in gran parte la possibilità di servirsi del cavo come guida di postiglioni, apparecchi che, sotto l’azione del vento, possono scorrere lungo il cavo di ritenuta del cervo volante e – se automatici – possono poi tornare indietro.
Un postiglione automatico si compone di una leggiera armatura che può in un modo qualunque scorrere sulla corda: essa porta una vela mantenuta tesa normalmente alla corda stessa e quindi al vento, mediante un cavetto la cui estremità porta un anello; questo è trattenuto da un uncino che automaticamente, p. es. per urto contro un ostacolo preventivamente fissato sul cavo di ritenuta, può aprirsi.
La vela rimane in tal modo liberata, e il postiglione, non più trattenuto dal vento, può ridiscendere per proprio peso lungo il cavo. La prima idea di utilizzare i cervi volanti per osservazioni meteorologiche sembra dovuta ad A. Wilson e Th. Melville, che nel 1749 innalzarono a Glasgow termometri a massima e a minima; il loro uso sistematico per i sondaggi dell’alta atmosfera ebbe inizio nel 1896, anno in cui A. L. Rotch, dell’osservatorio di Blue-Hill, e quasi contemporaneamente Teisserenc de Bort, dell’osservatorio di Trappes, ben presto imitati dagli osservatorî di Lindenberg e di Amburgo in Germania e dall’osservatorio Constantin in Russia, riuscì a far portare da un cervo volante un anemo-termografo Fergusson e un baro-termo-idrografo specialmente costruito. Da allora la tecnica di tali ascensioni si è andata perfezionando, talché ora, in molti osservatorî, l’uso del cervo volante per le osservazioni a grande altezza è giornaliero. In Italia esperienze in questo senso furono eseguite da Pericle Gamba nell’osservatorio geofisico di Pavia e in quello di Vigna di Valle, dell’aeronautica.
Nei sondaggi dell’alta atmosfera si congiungono al cavo (ordinariamente filo d’acciaio), a intervalli regolari, cervi volanti ausiliarî, i quali contribuiscono a sopportare il peso del cavo svolto e permettono al primo cervo volante o – come si dice – al pilota che porta gli apparecchi registratori, di sollevarsi anche oltre i 6000 m. (Lindenberg nel 1906, con 17.000 m. di cavo). Tali notevoli altezze sono state raggiunte anche mercé l’uso (metodo usato per la prima volta a Trappes) di tronchi di cavo di diametro decrescente dal basso in alto e di cervi volanti di densità crescente dall’alto in basso.
Ascensioni con cervi volanti. – Un cervo volante o un insieme di cervi volanti che riescano a portare in alto una navicella con una o più persone, può costítuire un osservatorio aereo analogo a quello ottenuto col pallone frenato, con il vantaggio di una migliore stabilità e sicurezza.
Le prime esperienze in questo senso risalgono al 1854, anno in cui il dottor Laval riuscì a far sollevare un fanciullo da un cervo volante. Dopo di lui il Maillot fece sollevar un peso di 70 kg. da un cervo volante di 72 mq. di superficie. Il capitano Baden-Powell dell’esercito inglese ebbe per primo l’idea, nel 1896, di riunire su un solo cavo parecchi cervi volanti (treno di cervi volanti). Dopo di lui le esperienze si moltiplicarono e l’inglese Cody,. i francesi Madiot e Saconney, il russo Schreiber, dotarono gli eserciti delle rispettive nazioni di treni di cervi volanti sempre più perfezionati.
Un treno di cervi volanti si può formare: o lanciando separatamente diversi apparecchi con cavi di ritenuta di diversa lunghezza e riunendo gli estremi di questi a un unico cavo; o lanciando separatamente diversi cervi volanti con cavi di ritenuta uguali, i cui estremi siano poi fissati in diversi punti di un cavo principale portato da un pilota; o infine lanciando prima di tutto un cervo volante pilota, e fissando sul cavo di ritenuta di questo una serie di cervi volanti costituenti il treno propriamente detto. Il cavo di ritenuta principale può attraversare gli elementi del treno (sistema russo), oppure può essere attaccato alla cellula anteriore di ciascun elemento (sistema francese e inglese). Ciascuno di questi sistemi presenta vantaggi e svantaggi: il terzo metodo indicato ha, è vero, l’inconveniente che l’equilibrio di tutto il treno è fondato su quello del cervo volante pilota, ma in contrapposto offre garanzie di sicurezza, maneggiabilità e rendimento che l’hanno fatto preferire a tutti gli altri.
Lanciato che sia il treno, la navicella può essere sospesa a un punto fisso del cavo principale (sistema russo); oppure sospesa a un cavo secondario manovrato da un verricello sussidiario e che passa per una carrucola fissa sul cavo principale; o, infine, sospesa a un carrello che può scorrere sul cavo principale, e trascinata lungo questo da uno (sistema inglese) o più cervi volanti (sistema francese) riuniti in treno (rimorchiante) e scorrenti lungo il cavo principale. Nei sistemi più perfezionati (Saconney, Madiot) l’osservatore può modificare dalla navicella l’inclinazione dei cervi volanti del treno rimorchiante e può di conseguenza rallentare o accelerare o addirittura fermare l’ascensione della navicella.
Il cervo volante può ancora essere impiegato, oltreché per eseguire fotografie dall’alto, anche come mezzo per gettare un cavo fra la costa e una nave naufragata; numerosi sperimentatori hanno ideato speciali tipi di postiglioni particolarmente adatti a tale uso (Woodbridge Davis, 1892; Dessy, 1906; Wenz, 1908; com. te Brossard De Corbigny il cui materiale è stato adottato dalla marina francese, ecc.). Può altresì servire per rimorchiare imbarcazioni, oppure come mezzo di pubblicità, sia per innalzare cartelloni reclamistici, sia per lasciar cadere dall’alto fogli volanti.
SIBARI (Σύβαρις, Sybăris). – Colonia greca della Magna Grecia, situata sulla costa del golfo di Taranto, presso il confine settentrionale della Calabria (antico Bruzio), nella piccola piana racchiusa tra il corso del fiume Crati, identificabile sicuramente con l’antico Crathis, e quello del Coscile, in cui generalmente si riconosce l’anticoSybaris: in tal caso, è da supporre, per varie ragioni, che i due fiumi (Crati e Coscile), che oggi si riuniscono in uno solo, circa sei chilometri prima della foce, arrivassero fino al mare divisi.
Recentemente però è stata avanzata, con buoni argomenti, l’ipotesi (Kahrstedt) che il nome di Sybaris fosse portato in antico dall’odierno torrente di S. Mauro; sicché l’antica città dovrebbe ricercarsi nella zona compresa fra il corso di questo e quello del Crati, là dove sorse anche e ha lasciato non insignificanti resti di sé la successiva colonia di Turî (v.). L’ipotesi del Kahrstedt non sembra però avere piena conferma dagli scavi più recenti.
La tradizione ne ascriveva concorde la fondazione a coloni provenienti dall’Acaia, ai quali si erano uniti gruppi di altri coloni di Trezene. Ne sarebbe stato ecista un tale Is di Elice. Nei pochi indizî e nelle scarse notizie che possediamo sulla vita più antica della città, la critica moderna non trova obiezioni gravi ad accogliere sostanzialmente il racconto della tradizione. Come data di fondazione, viene tramandata quella del 720 a. C. (Pseudo Scimno) o del 708 a. C. (Tucidide): è più probabile che essa debba farsi risalire più addietro, verso la metà del sec. VIII.
La presenza di cittadini di Trezene fra gli Achei che vennero a stanziarsi in questa colonia, può forse spiegarci le ragioni per cui fu scelto, per la nuova città, un luogo adatto, oltre che all’attività agricola, anche ai traffici di ogni specie. Da una parte, infatti, la valle del Crati offriva condizioni invidiabili allo sviluppo dell’agricoltura e della pastorizia: né mancavano (nel luogo dell’odierna S. Marco Argentano) miniere d’argento. D’altra parte però la foce del Crati si raccomandava, per la sua posizione, a gente dedita ai commerci, trovandosi essa all’un capo di uno dei più brevi tragitti per i quali si poteva comunicare tra l’Ionio e il Tirreno. Infatti ben presto i Sibariti si spinsero dalla loro città nell’interno, lungo l’istmo di terra che li separava dal Tirreno, e piantarono sulle sponde di questo mare, verso la metà del sec. VII, i due stabilimenti di Lao e di Scidro. Probabilmente intorno allo stesso tempo quasi tutti i Trezenî di Sibari lasciavano la città, raggiungevano un altro stabilimento già fondato da alcuni dei loro pionieri presso la foce del Silaro (odierno Sele), e ivi fondavano la città di Posidonia.
Il periodo che corse dalla metà del sec. VII agli ultimi decennî del VI, vide l’apogeo della potenza e della ricchezza di Sibari: essa divenne allora la maggiore città dell’Occidente; gli antichi le attribuivano (con cifre indubbiamente esagerate) un perimetro di 50 stadî (pari a più di 9 chilometri) ed oltre 300.000 abitanti. E di pari passo con la floridezza economica progredì la potenza politica dei Sibariti. Dopo aver distrutto, in alleanza con Metaponto e con Crotone, la fiorente città di Siri, i Sibariti goderono per parecchi anni l’indiscussa egemonia su tutta la Magna Grecia. Cominciò allora però anche la decadenza: l’eccessiva potenza e ricchezza guastarono i costumi dei cittadini (ma è da ritenersi del pari esagerata la pittura che ci lasciarono gli antichi, del fasto e della raffinatezza della vita sibaritica) e destarono l’invidia di altre città, e specialmente della potente Crotone, dove si assisteva allora, sotto l’influsso esercitato dal filosofo Pitagora, a una mirabile rinascita di tutte le virtù civili e di tutte le energie spirituali e morali di quel popolo.
Poco prima del 510 a. C., stabilitasi in Sibari la tirannide di Teli, i partigiani dell’abbattuto governo aristocratico si rifugiarono a Crotone, che rifiutò di riconsegnarli al tiranno. Ne seguì battaglia, che si combatté sul fiume Traente (od. Trionto) e si risolse in una splendida vittoria dei Crotoniati; i quali, dopo poche settimane di assedio, costrinsero Sibari alla resa. La città fu distrutta, ma, come pare, non totalmente: i cittadini si rifugiarono in Lao e in Scidro, ma una piccola parte di essi rimase probabilmente ad abitare in qualche quartiere superstite dell’abbattuta città (v. anche turî). La catastrofe di Sibari ebbe una grande ripercussione in tutto il mondo antico: i Milesî, che mantenevano con Sibari un traffico intensissimo, misero il lutto in segno di compianto per la sorte della infelice città.
TARA (gr. Τάρας). – Fiume che sbocca nel Golfo di Taranto, in vicinanza della città, a ovest dell’apertura del Mar Piccolo; con lo stesso nome i Tarentini designarono anche la divinità fluviale stessa, alla quale però altre leggende ascrivevano diversa origine.
Una leggenda diceva Taras procreato da Posidone e da Satiria, figlia di Minosse; avendo fatto naufragio, era stato da un delfino trasportato alle coste d’Italia e aveva dato il suo nome al luogo in cui poi sorse la città omonima; un’altra leggenda faceva di lui addirittura l’ecista di Taranto. In realtà Taras non fu altro che l’eroe eponimo della città e del piccolo fiume che ne bagna il territorio: la sua rinomanza crebbe per essere egli stato identificato, già dagli antichi, con il cavaliere sul delfino disegnato sulle monete arcaiche tarentine; a torto, perché un’antica tradizione e un gruppo statuario del sec. V attribuivano il delfino all’ecista di Taranto, Falanto. Certamente prima della metà del sec. IV era stato trasferito, nell’opinione dei Tarentini, il nome del dio fluviale alla figura di Falanto, rappresentata sulle monete.
SALADINO da Ascoli (de Asculo; de Esculo). – Medico, vissuto intorno alla metà del sec. XV alla corte del principe di Taranto Giovanni Antonio del Balzo Orsino, fu autore di un Compendium aromatariorum (Bologna 1488; ed. dello stesso anno anche a Ferrara). Fu questo il primo libro di materia medica dedicato ai farmacisti, considerato per secoli come il testo classico dell’arte farmaceutica. Il libro consta di otto capitoli, dei quali il primo particolarmente importante perché contiene un programma degli studî necessarî al farmacista e un elenco dei libri più raccomandati.
TARANTELLA. – Danza popolare dell’Italia meridionale, per tradizione divenuta caratteristica del popolo napoletano. Secondo l’etimologia parrebbe originaria di Taranto, o forse deriva il suo nome dalla tarantola, il cui morso, secondo una credenza popolare, produce una specie di furore bacchico che eccita alla danza. La tarantella era conosciuta fino dal sec. XIV. Affine al saltarello, con il quale in talune regioni si confonde, essa è di carattere vivacissimo in movimento di 3/8 o di 6/8. Come tutte le arie di danza in generale, anche la tarantella si canta con parole appropriate, mentre l’esecuzione strumentale è affidata a strumenti popolareschi, quali il mandolino, la chitarra, la fisarmonica, ecc. Il ritmo è marcato dai colpi di tamburello (piccolo tamburo a mano a una sola membrana, provvisto di sonagli metallici) suonato dagli stessi danzatori.
Le melodie originali di tarantella sono quasi tutte di modo minore e talvolta nei punti cadenzali presentano l’alterazione discendente del secondo grado, che è caratteristica di molti canti popolari napoletani:
Innumerevoli sono le imitazioni che i musicisti di ogni paese hanno fatto di questo genere di danza, stilizzandolo in forme artistiche per orchestra o per strumenti solisti e talvolta anche per canto. Così, ad es., quelle di F. Liszt, F. Chopin, M. A. Balakirev, G. Bazzini, J. Raff, D. Popper, B. Godard, F. Mendelssohn, G. Martucci, M. Castelnuovo-Tedesco, A. Casella, ecc.
ORSINIDELBALZO. – Famiglia nobile, il cui capostipite è Raimondo o Raimondello Orsini, secondogenito di Niccolò Orsini conte di Nola e d’una donna di casa Sabran, nato nella seconda metà del sec. XIV. Per eredità del conte di Soleto, Raimondo del Balzo, fratello dell’ava Sveva del Balzo, ne doveva ereditare i beni; ma, contravvenendo a ciò, Niccolò Orsini fece succedere in quei feudi il primogenito Roberto, onde Raimondo, sdegnato, abbandonò la patria per recarsi a combattere gl’infedeli. Ritornato dopo qualche tempo nel regno, occupò a viva forza, non solo la contea di Soleto, ma anche altre terre del padre. Per memoria verso l’antenato, antepose al suo cognome l’altro dei Del Balzo, e con lui ebbe così inizio questo ramo della famiglia. A vincerne l’urto, il padre si rivolse (maggio 1382) a re Carlo III di Durazzo, ma questi, impegnato nelle lotte con Luigi I d’Angiò, non solo non punì Raimondo, ma lo volle al suo fianco per combattere l’Angioino.
Ribellatosi poco dopo a Carlo III, Raimondo passò al servizio di Luigi I d’Angiò, sposò (1384), sotto gli auspici di lui, Maria d’Enghien, contessa di Lecce, che gli portò in dote questa contea e altre terre in Puglia, e, morto Luigi I (20 settembre 1384), fu tra i più accaniti sostenitori dei diritti del figlio di lui, Luigi II. Minacciato papa Urbano VI in Nocera dalle armi di Carlo III, Raimondo accorse all’appello di lui (marzo 1385) e riuscì a farlo riparare in Genova. Quando poi gli parve che la parte angioina fosse per soccombere, tentò varie volte di riavvicinarsi ai Durazzeschi, e, per essi, al nuovo re Ladislao, e quando quest’ultimo mosse contro Luigi II (1398), passò a lui, combatté sotto le bandiere dei Durazzeschi e, investito del principato di Taranto al quale egli aspirava per i diritti che gli venivano dai Del Balzo, antichi signori di quel feudo, lo conquistò, entrando in Taranto il 18 giugno 1399. Quivi promosse le arti, la giurisprudenza e le lettere, e visse in buona armonia con la corte, fino al 1405, quando, spinto a ciò dal pontefice Innocenzo VII, si ribellò a Ladislao che mosse a sottometterlo. Nel frattempo Raimondo morì (17 febbraio 1406) e fu sepolto a Galatina, nella chiesa di Santa Caterina, da lui resa adorna di molte opere d’arte. Lasciò quattro figli: Caterina, Maria, Giovannantonio e Gabriele, e di essi gli successe nel principato Giovannantonio quando, morto Ladislao che aveva sposato la vedova Maria d’Anghien e s’era insignorito in tal modo del principato di Taranto, e successagli la sorella Giovanna II, questa rimise la cognata e i figli di lei in possesso dei loro feudi. La primogenita Maria aveva sposato il figlio del duca d’Atri; Caterina, Tristano di Chiaromonte; Giovannantonio sposò (1417) Anna Colonna nipote di papa Martino V; Gabriele, Giovanna Caracciolo.
Non avendo potuto affermare il suo dominio a corte, nel 1433 Giovannantonio si ruppe con Giovanna II e mosse contro Luigi III d’Angiò, assunto a suo erede dall’incostante regina. Prese quindi le parti di Alfonso d’Aragona, e insieme combatterono a Ponza, dove entrambi caddero prigionieri e furono condotti a Milano presso Filippo Maria Visconti (1435). La prigionia e la comunione dei propositi strinsero il principe di Taranto e l’Aragonese. Il quale divenuto Alfonso I re di Napoli, concesse al Del Balzo la città di Bari con licenza d’esportare ciò che gli piacesse, lo nominò gran connestabile del regno con l’appannaggio di 100 mila ducati, destinati alle paghe delle lance che gli fu consentito di tenere a sua disposizione.
Qualche ombra tra l’Aragonese e Giovannantonio non mancò; ma il matrimonio tra la nipote di lui, Isabella di Chiaromonte, col duca di Calabria, Ferdinando, parve cementasse con altri vincoli la casa regnante col più potente ceppo feudale indigeno. Invece Ferdinando d’Aragona, successo al padre nel 1458, non lo imitò nell’arrendevolezza verso il baronaggio: egli già meditava di debellarlo. Tali propositi e le fatali conseguenze intuì presto il Del Balzo, che, abbandonata la corte, si trasferì a Taranto, vi si fortificò e si pose a capo dei baroni insorti contro il sovrano. E poiché si aveva bisogno d’un personaggio, dietro cui i baroni mascherassero i loro piani affatto particolaristici e spesso criminosi, fu lui, dopo il rifiuto del re d’Aragona, a invitare alla conquista del regno Giovanni, figlio del defunto Renato d’Angiò. Ma, battuto a Troia, dovette domandare la pace, mentre l’Angioino prendeva la via del ritorno in Francia.
Secondo alcuni, un vero trattato sarebbe stato conchiuso tra l’Aragonese e il Del Balzo, al quale sarebbero stati riconosciuti e riconfermati, in tutta la loro estensione, possessi, uffici ed emolumenti, che egli godeva nel regno. Comunque, rientrò a Taranto, e quivi, qualche anno dopo, nel 1465, morì, a 70 anni, non senza sospetto di veleno, fattogli propinare da Ferdinando d’Aragona. Il quale si recò subito a Taranto e, lungi dal rispettare le disposizioni testamentarie del Del Balzo e quelle della vedova, Anna, incamerò il principato nel demanio regio e s’impadronì di tutte le ricchezze, fatte ascendere a più d’un milione di ducati.
LISIPPO (Λύσιππος, Lysippus). – Scultore greco, nato a Sicione, fiorito all’età di Alessandro Magno. Egli, per età, è il terzo della gloriosa triade di scultori del sec. IV a. C., costituita da Scopa di Paro, da Prassitele ateniese e da lui. Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 51) colloca l’apogeo dell’attività di Lisippo nella olimpiade 113ª e, cioè negli anni 328-324 a. C.; ma lo scultore dovette essere attivo sino alla fine del sec. IV, poiché un’iscrizione, poi perduta, di Roma attesta che L. eseguì una statua di Seleuco Nicatore, il quale assunse il titolo regio nel 306-05. È perciò probabile che, essendo L. pervenuto sino all’età senile, come appare dall’Antologia Greca (IV, 16, 35), egli fosse nato all’incirca nell’anno 370 a. C.
L. formò la sua personalità artistica a Sicione, dove, come nella non lontana Argo, era fin dai tempi dell’arcaismo viva la tradizione della scultura atletica e rimaneva tuttora valido l’influsso del maggiore rappresentante di questa scultura, Policleto. In realtà, da un passo del Brutus (86,296) di Cicerone, apparirebbe che L. considerava come suo modello la statua del Doriforo di Policleto; invece da un passo di Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 61), risalente allo scrittore Duride di Samo, parrebbe che L. non appartenesse a nessuna scuola, sicché è da ritenere che egli, pur tenendo in grande considerazione gl’insegnamenti di Policleto, concretati nel suo capolavoro, cioè nel Doriforo, seguisse essenzialmente la sua indole osservatrice della natura. Ed invero in questo medesimo passo è detto che, mentre L. da giovane si esercitava nella lavorazione del bronzo, fu ammonito dal suo concittadino, il celebre pittore Eupompo, di seguire non già un determinato artista, ma la natura. Nei suoi primi tempi di attività artistica non poté tuttavia L. sottrarsi all’influsso non solo di Policleto, ma anche di Scopa, il quale, più anziano di L. di trenta o quarant’anni, operò sin al 350 a. C. coltivando anche la scultura atletica e palesandosi come il caposcuola di un indirizzo di arte passionale.
Nel 1894 si scoprì nel santuario di Delfi un complesso di statue marmoree consacrate da una famiglia tessalica originaria di Farsalo, negli anni tra il 338 e il 334 a. C.; tra i personaggi rappresentati è un certo Agias effigiato come nudo atleta. Si volle vedere in questa statua una copia di una statua bronzea già esistente a Farsalo, opera, come si desume da una iscrizione ora perduta, di Lisippo. L’Agias delfico presenta caratteri policletei e scopadei insieme, ben diversi da quelli che noi possiamo constatare nelle opere verosimilmente lisippee. Ma sembra ormai assodato che l’Agias delfico sia stato eseguito in età anteriore all’Agias di Farsalo di L., e perciò si ha ora ogni ragione di allontanare, come inutile ingombro, questa statua delfica nella ricerca della personalità artistica di L.
Oltre all’Agias di Farsalo, ora perduto e non identificabile, L. eseguì altre statue atletiche; dalle fonti scritte abbiamo notizia di altri cinque atleti: di Polidamante (olimpionico nel 408 a. C.), di Troilo (olimpionico nel 372 a. C.), di Chilone (vincitore più volte in varî santuarî), di Callicrate, di Senarche. Forse all’inizio della carriera di L. si deve ascrivere la statua di Troilo innalzata verso il 350 a. C., mentre all’età di Cheronea (338-37) discenderebbe l’esecuzione del Polidamante.
Ma di L. ci è pervenuta in copia marmorea una statua atletica, che serve come punto di partenza per lo studio dell’attività del grande scultore: l’apoxyómenos o atleta che si deterge con la strigile il sudore e la polvere dopo gli esercizî ginnastici. L’originale, di bronzo, stava ai tempi di Plinio nelle Terme di Agrippa; racconta Plinio che l’imperatore Tiberio aveva trasportato questo bronzo nel suo palazzo sul Palatino, ma aveva dovuto rimetterlo al suo posto, date le proteste clamorose dei Romani. La copia marmorea proviene dal Trastevere, ed ora è nel Braccio Nuovo dei Musei Vaticani: in essa è riconoscibile l’impronta di un artista non solo originale, ma di genio, il suggello dell’arte di L., dato il confronto che possiamo istituire con opere anteriori o contemporanee, dato quanto possiamo sapere su L. dalla tradizione letteraria.
L’apoxyómenos è snello, svelto, nervoso. Invero lo slancio agile della figura è accentuato dalla piccolezza della testa, e in questo impiccolimento del capo L. si ricollega all’antica scuola argiva della prima metà del secolo V. Poi, pur essendo l’apoxyómenos rappresentato fermo, esso dà un senso di agitazione, quasi tutta la figura sia percorsa da un fremito nervoso, poiché si prova l’impressione che egli cambi di continuo dall’appoggio della gamba destra a quello della sinistra e così via. Vi si osserva una piena libertà di movimento, sia in avanti sia lateralmente; esso possiede la terza dimensione. Nel volto nobilissimo, proprio di un atleta in cui alla vigoria e sanità del corpo si uniscono la luce dell’intelletto e la moralità della coscienza, pare di avvertire il riflesso dell’agitata vita ellenica dei tempi di Alessandro Magno: gli occhi, non molto aperti, sono allungati, e dànno un’impressione di leggiera stanchezza, la bocca è un po’ dischiusa con gli angoli distesi; nella piega orizzontale della fronte e anche nella corta, ricciuta chioma, in intricato disordine e madida di sudore, pare rispecchiarsi l’inquietudine nervosa dello spirito.
Attorno all’apoxyomenos, che è sì discosto dalle patetiche figure di Scopa, dalle gentili e molli figure di Prassitele, possono aggrupparsi altre sculture. Per rimanere nel campo della scultura atletica si possono menzionare i due bronzi di Ercolano nel Museo di Napoli che rappresentano lottatori: sono figure slanciate e con atteggiamento saturo di vibrazioni. Vi sono poi statue di numi: precedono numi atletici, cioè Ermete ed Ares. Ermete ci appare in due belle creazioni lisippee: in quella offertaci dal bronzo da Ercolano del Museo di Napoli (v. XIV, tav. XXX), ove il dio, adolescente, riposa su un masso, ma nel riposo ha tutta la figura tesa per scattare in piedi al comando di Zeus; anche qui nel riposo è agitazione, è nervosismo, specie nelle gambe che toccano appena il terreno. Poi l’Ermete che si allaccia il sandalo: il dio, appoggiando il piede destro su una sporgenza rocciosa, curva il torso, ma solleva il capo per ascoltare il comando di Zeus; delle copie di tale tipo sono notevoli quella dell’ora dispersa collezione Lansdowne (v. XIV, tav. XXX) e quella del Louvre.
Un Ares lisippeo si può riconoscere nella statua dell’Ares Ludovisi, ora nel Museo nazionale romano (v. IV, p. 160); nella bella figura del nume rappresentato seduto, con il ginocchio sinistro alzato, stretto da entrambe le mani, è vigoria vigile, quasi aggressiva, corrispondente al carattere del personaggio rappresentato.
Pausania (IX, 27, 3) ci fa parola di una statua di bronzo di L. rappresentante Eros ed esistente nel santuario del dio a Tespie in Beozia, vicino alla statua, pure di Eros, di Prassitele.
Sembra che si possa riconoscere questa statua lisippea nel tipo offertoci da alcune copie marmoree, tra cui la più nota è quella di Tivoli al Museo Capitolino, ma tra cui è degna di menzione anche la copia di Cirene (v. X, tav. CXVIII). Il dio fanciullo è rappresentato nell’atto d’infilare la corda nell’arco; pure in questo caso l’azione non esige grande movimento, ma vi è la solita impressione d’irrequietezza nervosa, e si avverte quasi il battito delle ali impazienti di recare a volo il bellissimo fanciullo, il quale sembra il fratello minore dell’apoxyómenos.
L. trattò anche le figure di Apollo e di Dioniso, come ci informano Pausania (IX, 30,1) e Luciano (Giove tragico, 12); ma l’identificazione è incerta. Meglio siamo informati sul Poseidone di bronzo che stava a Corinto (Luciano, Giove tragico, 9) e che è riprodotto su monete di Demetrio Poliorcete (303 a. C.).
Un’eco di esso da riconoscere in una grandiosa statua marmorea di Nettuno proveniente da Porto, ora nel Museo Laterano. È in essa il motivo del piede sollevato su un rialzo del terreno, motivo comune allo Ermete che si allaccia il sandalo, e che già Scopa aveva usato per il suo Apollo Sminteo. Ma nella statua di Porto non è fedelmente seguito lo stile di L., perché le forme sono piatte. Piuttosto l’impronta lisippea è in una testa marmorea da Porcigliano nel Museo Chiaramonti al Vaticano: l’immagine di Poseidone ha le disordinate ciocche della chioma e della barba piene di umida salsedine, con le ciglia corrugate nello sforzo visivo.
Sappiamo da Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 63) che di L. era in Rodi una quadriga del Sole, di bronzo, guastata poi da una doratura che volle farvi Nerone. Abbiamo inoltre notizia di quattro statue di Zeus: una a Taranto era alta, come dice Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 40), ben 40 cubiti, una seconda era a Megara, una terza ad Argo, una quarta nella città natale di L., a Sicione.
Oltre ai numi L. trattò un’allegoria, quella del Kairós o Genio dell’occasione, opera forse giovanile di lui, esistente a Sicione.
Riprese L. in quest’opera un argomento trattato da Policleto, ma con audacia di concezione del tutto nuova. Come si può desumere da un epigramma dell’Antologia Greca (II, 49, 13) e dalla descrizione di Callistrato sofista (Descrizioni, 6) il Kairóslisippeo era sotto l’aspetto d’un adolescente alipede, diritto sulla punta dei piedi al disopra di una sfera, con un rasoio nella mano destra: la chioma era ricondotta sulla fronte e la nuca era nuda di capelli. La statua fu trasportata, come si desume da un passo di Cedreno (Comp. Histor., 322 C), a Costantinopoli e perciò se ne hanno ricordi affievoliti e lontani in monumenti tardi, come in un rilievo copto del museo del Cairo e nel rilievo marmoreo del duomo di Torcello. Non solo Dioniso fu riprodotto da L., ma anche i demoni del suo corteo, cioè i Satiri; da Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 64) abbiamo notizia di un Satiro lisippeo in Atene e un’opera lisippea possiamo riconoscere nel gruppo, che conosciamo attraverso varie copie, di cui la più nota è quella del braccio nuovo del Vaticano, e che rappresenta un barbuto Sileno pieno di paterna benevolenza, il quale regge tra le mani Dioniso bambino: bellissimo nesso tra una figura adulta e una infantile.
Prediletta dovette essere per L. la figura di Eracle. Di quattro statue lisippe dell’eroe abbiamo notizia dalle fonti letterarie, cioè di un Eracle inerme, di un Eracle di Sicione, di un Eracle colossale a Taranto, di un Eracle minuscolo che fu di Alessandro Magno.
Dell’Eracle dell’agorà di Sicione forse è da riconoscere il ricordo in una serie di repliche marmoree, in bronzetti, in monete: l’eroe è rappresentato ignudo, appoggiato alla clava posta sotto l’ascella sinistra con sopra la pelle leonina. L’idea più vicina all’originale ci è data da un bel bronzetto di provenienza umbra, ora al Louvre, mentre un rifacimento barocco è nell’Ercole Farnese (v. XIV, tav. XII) firmato da Glicone. È un Eracle patetico che si riposa dopo una delle sue imprese, ed è in questo stanco riposo l’espressione del contrasto tra la forza invitta, superiore a mostri e a belve, e l’accorato senso di dolore, da cui l’eroe è stato alla sua volta vinto. Nelle due figure bronzee dell’Eracle di Taranto e di quello di Alessandro Magno scorgiamo una prova della grande versatilità e potenza artistica di L., il quale sapeva trattare magnificamente lo stesso soggetto e nel colossale e nel minuscolo. L’Eracle di Taranto era di proporzioni colossali; trasportato a Roma da Fabio Massimo, passò in seguito a Costantinopoli, dove fu distrutto nel 1204 dai crociati latini per battere moneta; un ricordo di questa statua è in una cassetta eburnea bizantina di Xánthä. Un tardo scrittore bizantino, Niceta (De Alexio Isaaci Ang., III, p. 687), ci dice che nell’Eracle di Taranto era espresso un senso di sconforto e di stanchezza; invece nel bronzetto, alto meno di un piede, che L. eseguì per Alessandro Magno, risplendeva la serenità.
Il bronzetto era il portafortuna del conquistatore macedone, che lo tenne sempre con sé nell’impresa d’Asia e d’Africa; questo piccolo Eracle era chiamatoepitrapézios, perché di solito adornava la mensa del re; subì poi varie vicende; fu in possesso di Annibale, poi di Silla e fu cantato da Marziale (IX, 44 seg.) e da Stazio (Silvae, IV, 6, v. 32 segg.). Il ricordo del minuscolo capolavoro ci è conservato in riproduzioni più o meno fedeli, di marmo e di bronzo, tra cui una statuetta da Babilonia, il luogo ove morì Alessandro Magno, al British Museum, e, più notevole per accuratezza di forme, un torso acefalo da Gabii nel Louvre.
Ma L. rappresentò l’eroe anche nelle sue dodici fatiche, in un ciclo di gruppi per Alizia, città dell’Acarnania. Gli echi di questi gruppi sono forse da percepire in rilievi di sarcofagi romani; inoltre è probabile che il gruppo bronzeo di Eracle imberbe e un cervo del Museo nazionale di Palermo risalga al prototipo lisippeo, e che ad un Eracle del ciclo di Alizia si possa ricondurre la bella statua, piena di fisica tensione, degli Orti mecenaziani, ora nel Palazzo dei Conservatori a Roma.
Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 63) ci dice che L. cominciò a essere il ritrattista di Alessandro sin da quando questi era fanciullo. Il che significa che L. fu lo scultore della corte macedone sin dai tempi di Filippo, il padre di Alessandro (359-336 a. C.). Ma il regno di Alessandro segna l’apogeo dell’arte lisippea. È noto che il bellissimo re macedone non volle essere effigiato se non da Apelle in pittura, da Pirgotele nell’intaglio, da L. nel bronzo.
Presso gli antichi scrittori troviamo cenno di tre immagini lisippee di Alessandro Magno. Plutarco (De Alexandri Magni, ecc., II, 2) fa menzione d’un ritratto del Macedone in cui questi era in piedi, poggiato all’asta, col volto un po’ alzato. Di questa immagine sono rimasti ricordi modesti in statuette bronzee; ma lo schema rimase, perché fu applicato sia a diadochi, come nella bella statua bronzea del Museo nazionale romano (v. VII, tavola CCVII), sia a imperatori romani, come nell’Augusto del rilievo di San Vitale in Ravenna.
Velleio Patercolo (I, 11, 3), Arriano (Anab., I, 16, 7), Plutarco (op. cit., 16), Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 64), Giustino (XI, 6, 13) ci dànno notizia d’un gruppo bronzeo lisippeo in cui era Alessandro Magno a cavallo fra una torma di cavalieri nella battaglia del Granico; forse un’eco della figura del re risuona nella bella statuetta bronzea di Ercolano del Museo di Napoli (v. IX, tav. CLXV). Infine da Plinio (loc. cit.) e da Plutarco (op. cit., 40) sappiamo che in un dono votivo del macedone Cratero in Delfi, eseguito da L. insieme con Leocare, era rappresentato l’episodio di caccia in cui Cratero aiutò Alessandro assalito da un leone; un ricordo di questo gruppo è in un rilievo da Messene nel Louvre.
Il carattere lisippeo si riconosce in due ritratti di Alessandro Magno: in un’erma da villa Adriana nel Louvre e in una testa da Pergamo nel Museo di Istambul: dal volto piuttosto magro ben appaiono l’agitazione dello spirito di Alessandro, con quelle caratteristiche di virile e di leonino, osservate da Plutarco, che dànno un’impressione di energia e di nobiltà.
L’attività ritrattistica di L. non si restrinse ad Alessandro; abbiamo notizia di altri ritratti, sia di defunti, quali Esopo, i sette sapienti, Socrate e la poetessa Prassilla, sia di contemporanei, quali Efestione, Pite di Abdera, Seleuco Nicatore. Di quest’ultimo si ha copia in un busto bronzeo di Ercolano del Museo di Napoli, pieno di vigore e di espressione.
Sappiamo anche che L. eseguì una statua di flautista ubriaca, tema codesto che sembra preannunziare quanto poi esprimerà l’arte del più maturo realismo. Per il genere animalistico si ha notizia di un leone caduto, di un cavallo sfrenato, di una quadriga. Tutto ciò dimostra la grande versatililà dell’arte di L., il quale tuttavia rappresentò assai più di frequente la figura maschile che la femminile. Oltre a Prassilla e alla flautista ebbra, di L. sappiamo che eseguì le statue delle Muse per il tempio di Tiche a Megara (Pausania, I, 43,6). Ma il tipo femminile di L. non ci è noto con tutta sicurezza: dobbiamo forse riconoscerlo nella statua marmorea detta laGrande Ercolanense dell’Albertinum di Dresda (v. VIII, p. 868) figura ammantata piena di decoro, di nobiltà, di eleganza?
Artista multiforme fu L.; di questo si ha una prova anche in un passo di Ateneo (Deipnosoph., XI, p. 784) che ci riferisce che quando Cassandro, padrone della Macedonia, trasformò nel 315 a. C. l’antica Potideia in Cassandreia, diede a Lisippo l’incarico di foggiare un nuovo tipo di recipiente per l’esportazione del vino di Mende; il celebre artista non rifiutò l’incarico modesto.
Egli fu sempre un artista celebrato, ma certo il periodo felice della sua età dovette essere troncato dalla morte di Alessandro Magno. Già vecchio continuava a lavorare; così invero comincia un epigramma dell’Antologia Greca (IV, 16, 35): “Orsù, lavora, o vecchio L., scultore sicionio”. Fu artista longevo e attivissimo; Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 37) riferisce che per ogni opera che compiva egli deponeva in uno scrigno una moneta d’oro, e che alla sua morte si contarono in questo scrigno ben 1500 monete, vale a dire il ricordo di 1500 sculture: patrimonio grandissimo d’arte in gran parte disperso e distrutto. Attiva e frequentata fu la sua scuola, e i suoi scolari trasmisero nei tempi ellenistici le formule del maestro, conservando, anzi accentuando, i caratteri di audacia degli schemi a forme contorte e incrociate, di espressione vivacissima dell’animo, di studio attento della natura, sì da inaugurare, precisamente nel ritratto, una corrente veristica. Un esempio di quest’arte lisippea nell’età ellenistica si può addurre nell’intricato nesso dei due lottatori in marmo trovato presso il Laterano, ora negli Uffizî a Firenze. Degli scolari diretti di L. conosciamo dalle fonti letterarie i seguenti: i tre figli, Boeda, a cui è da attribuire con ogni probabilità il bel bronzo del Museo di Berlino che rappresenta un ragazzo atleta in preghiera, Daippo, Euticrate; poi Fanide, Eutichide, Carete. Si aggiunga infine che alla scuola lisippea pare appartenga un marmo insigne, cioè la Fanciulla d’Anzio del Museo Nazionale Romano. (V. tavv. LV e LVI).
PIRRO. – Re di Epiro, appartenente alla famiglia reale degli Eacidi. Nacque nel 319 o 318 a. C. da Eacida, figlio di Aribba, che allora regnava in Epiro. Eacida, che nella lotta tra Olimpiade e Cassandro per il predominio in Macedonia aveva preso parte per Olimpiade, dopo che Cassandro ebbe il sopravvento, fu dagli Epiroti deposto e fuggì in Etolia (317-6). Il figlio P. bambino fu salvato con una fuga romanzesca nell’Illiria. Eacida perì in un tentativo di ricuperare il regno, il quale invece fu occupato dal fratello maggiore di lui Alceta, che era stato diseredato dal padre Aribba. Alceta regnò d’intesa evidentemente con Cassandro e però quando Demetrio figlio di Antigono, detto poi Poliorcete, intervenne in Grecia contro l’egemonia macedonica (307-306), gli Epiroti si ribellarono contro Alceta mettendolo a morte, e P. in età di 11 o 12 anni con l’aiuto del re illirico Glaucia gli fu sostituito nel regno. Ma le fortune del giovanetto P. durarono quanto quelle di Demetrio. Quando questi dovette abbandonare la Grecia per aiutare il padre nella lotta decisiva contro i governatori coalizzati, anche P. fu cacciato dal regno e prese poi parte a fianco di Demetrio, segnalandovisi, alla decisiva battaglia d’Ipso (301) in cui Antigono fu sconfitto e ucciso. Rimase fedele a Demetrio dopo la sconfitta e fu da questo mandato a governare i suoi possessi greci e poi, quando Demetrio fece pace con Tolomeo di Lago, inviato in ostaggio in Egitto. Quivi egli si acquistò la benevolenza del re e la protezione della regina Berenice, sposò la figlia di lei di primo letto, Antigone, e poi fu mandato con aiuti egiziani in Epiro, dove regnava Neottolemo, d’intesa col re di Macedonia Cassandro. La morte di Cassandro (aprile 297) fu probabilmente l’occasione del ritorno di P. in Epiro, dove egli sulle prime divise il regno con Neottolemo, poi, ucciso a tradimento il collega in un banchetto, regnò da solo (probabilmente 297). Le discordie tra i due figli di Cassandro, Alessandro e Antipatro, che dopo la morte del primogenito Filippo si erano divisi il regno di Macedonia, diede occasione a un intervento di P. a favore del più giovane, Alessandro, minacciato dal fratello. P. si fece pagare il suo intervento con la cessione della Paravea e della Tinfea, dell’Amfilochia, di Ambracia e dell’Acarnania, che annesse al suo regno, e poi costrinse Antipatro a lasciare ad Alessandro il resto della parte che gli era stata assegnata. Ma poco dopo (294) Demetrio Poliorcete, che era tornato in Grecia e si era impadronito di Atene, intervenne in Macedonia e, ucciso Alessandro e scacciato Antipatro, s’impadronì del regno. Da questo momento le relazioni tra P. e Demetrio si cominciarono a turbare, e quando, auspici gli Etoli, si formò in Grecia una lega contro Demetrio, P. vi partecipò. Demetrio invase l’Etolia (289) e, lasciandovi con un forte reparto di truppe il suo generale Pantauco, mosse contro l’Epiro. Ma P., invasa l’Etolia, riportò su Pantauco una grande e decisiva vittoria in cui fece prigionieri 5000 Macedoni. Questa vittoria non solo liberò gli Etoli dal pericolo, ma indusse Demetrio a ritirarsi dall’Epiro, ripiegando in Macedonia. Qui una grave malattia da cui fu colpito diede a P., animato dal successo in Etolia, l’occasione di penetrare nel cuore del paese fino presso Edessa, ma si dovette poi ritirare quando Demetrio, risanato, mosse contro di lui; e si venne infine tra i due re a una pace sulla base dell’uti possidetis. Demetrio ne profittò per fare grandi preparativi militari per la conquista dell’Asia. Il pericolo indusse Lisimaco e Tolomeo a stringersi in lega contro di lui e a questa lega accedette subito P., rompendo la pace conclusa con Demetrio. Demetrio, mal visto dai suoi sudditi, fu abbandonato dall’esercito che aveva condotto contro P., il quale si divise con Lisimaco il regno di Macedonia (288), dopo di che, cercando Demetrio di riordinare le sue forze in Grecia e stando sul punto di assediare Atene che si era ribellata, P. comparve alle sue spalle e lo costrinse a lasciare l’assedio, onde fu poi accolto in Atene e festeggiato. Fece anche pace con Demetrio, ma la violò non appena Demetrio, passato in Asia, ebbe la peggio anche colà.
Circa questo tempo, il dominio di P. in Grecia raggiunse la massima estensione. Egli possedeva l’Epiro, i distretti montuosi confinanti a oriente, la Tinfea e la Paravea, inoltre tutta la Macedonia propriamente detta fino al fiume Assio, la massima parte della Tessaglia esclusa Demetriade e, delle regioni greche a sud dell’Epiro, Ambracia di cui fece la sua capitale, l’Amfilochia e l’Acarnania, con Leucade, a nord un tratto dell’Illiria meridionale comprendente Apollonia, se non forse anche Durazzo, e alcune isole dell’Adriatico e dello Ionio, tra cui principale Corcira, che aveva acquistata prima come dote di Lanassa, la figlia di Agatocle e poi, dopo che Lanassa divorziando da lui l’aveva consegnata al suo nuovo marito Demetrio Poliorcete, ricuperata con le armi in un momento non bene precisabile tra la partenza di Demetrio dalla Grecia e la guerra con Roma. Pareva un dominio assai vasto, ma non era una formazione organica attorno a un saldo nucleo centrale, sì un semplice conglomerato di territorî tenuti insieme non da un legame d’interessi o d’idealità comuni, ma dal valore guerriero del principe che li aveva conquistati; sicché questo conglomerato cominciò a sgretolarsi nella parte sua più importante e nello stesso tempo più vulnerabile alla prima occasione. Il disastro, con cui la spedizione di Demetrio in Asia terminò, permise a Lisimaco, che aveva rassodata la sua potenza in Tracia e in Asia, di rompere l’accordo fatto con P. Accolto favorevolmente dai Macedoni come vecchio ufficiale di Alessandro, Lisimaco riunì tutta la Macedonia e ricacciò P. nell’Epiro togliendogli anche la Tessaglia. Alla guerra che scoppiò poi tra Lisimaco e Seleuco, P. non partecipò, attendendone l’esito e sentendosi troppo inferiore a entrambi i contendenti. E anche dopo che Seleuco, vincitore di Lisimaco a Corupedio 1282), passò in Europa per raccoglierne l’eredità e fu assassinato da Tolomeo Cerauno, il figlio esule di Tolomeo di Lago che aveva accolto benevolmente presso di sé, e questi, tratto a sé l’esercito, s’apprestò a regnare sulla Macedonia, P. non fu tra quelli che gliela contesero, sebbene in quel momento potesse avere non lievi speranze di riconquistarla.
Ma maggiori speranze gli offriva l’Italia, dove i Tarentini in guerra con Roma lo chiamavano: quivi egli sperava, evidentemente con l’appoggio dei Greci d’ Italia e con quello degl’Italici avversi ai Romani, Sanniti, Lucani, e Bruzî, di costituirsi, vincendo Roma, un vasto principato. Non è qui il luogo di narrare le vicende di questa guerra (per la quale v. roma: Storia). In essa le forze dei contendenti, da una parte Roma coi suoi alleati latini e italici, dall’altra P. col suo stato epirotico, Taranto e altre città greche d’Italia e gli avversarî italici di Roma, a un dipresso si bilanciavano, e gli Epiroti avevano il vantaggio dell’ordinamento tattico più perfezionato che allora si conoscesse e un generale che i contemporanei e i posteri giudicarono concordemente per valore e perizia uno dei primi tra gli uomini di guerra ellenici. Ma i Romani e la loro federazione formavano una saldissima compagine, stretta insieme da vincoli di fratellanza militare, di consanguineità, d’interessi, d’affinità di costumi. Le genti che P. stringeva attorno a sé erano diversissime per costumi, nazionalità, condizioni sociali e ordinamenti, i loro interessi erano diversi e cozzanti, e gli stessi Epiroti non avevano nella campagna italica altro interesse che quello di conquistare gloria e bottino, perché è difficilissimo che fosse tra loro diffuso il pensiero di difendere la comune nazionalità greca, ed è persino molto incerto se lo stesso P. si sentisse e si rappresentasse quale protettore e vendicatore dei Greci, così come si era sentito e atteggiato Alessandro nel passare in Asia contro i Persiani. Il sentimento di nazionalità non giocava in questa guerra una parte se non assai debole e quasi inconsapevole. P. l’assunse, a preferenza della riconquista della Macedonia perché gli parve, date le forze di cui avrebbe disposto, più agevole e promettente risultati più grandiosi. In ciò s’ingannava, come l’evento ha dimostrato: e tutta la sua genialità e il sangue dei suoi Epiroti non valsero che a ritardare di pochi anni la sottomissione dei Greci d’Italia a Roma e a rendere più duro il trattamento che i Romani fecero ai vinti. Sicché non è dubbio che egli avrebbe potuto impiegare le forze di cui disponeva con maggiore vantaggio per gli Epiroti, per i Greci in generale e per sé stesso, combattendo in Macedonia e intervenendo nel momento del pericolo contro le orde celtiche che proprio, mentre egli pugnava contro i Romani, si riversavano in Macedonia, in Tracia e in Grecia. Ma questa invasione egli non poteva prevedere, né le occasioni che essa gli avrebbe offerto, come non poteva neppure valutare la validità delle forze di cui Roma disponeva e la salda compagine della federazione che le si stringeva attorno. Non tardò però ad avvedersene dopo la prima vittoria del Siri o di Eraclea (280) e soprattutto dopo l’audace marcia che lo condusse ad Anagni, a 60 miglia da Roma, marcia militarmente mirabile, ma destituita di qualsiasi effetto. E dovette riconoscere la piena fallacia delle sue speranze dopo la seconda vittoria, quella presso Ascoli di Puglia (279), che lasciò intatto il grosso delle forze romane e non gli permise neppure di tentare un’altra avanzata nel territorio nemico, come quella, del resto inutile, dell’anno precedente. Perciò egli cercò di concludere coi Romani una pace che garantisse l’indipendenza dei Tarentini e dei suoi alleati italici. Ma i Romani, a cui le stesse sue vittorie avevano dimostrato quanto poco avessero da temere da lui, rifiutarono, tanto più che offersero a loro l’alleanza contro P. i Cartaginesi, i quali temevano il suo intervento in Sicilia e desideravano che fosse trattenuto in Italia.
E tuttavia la certezza che la guerra sarebbe continuata in sua assenza, e quindi con danno inevitabile dei Greci e dei suoi alleati italici, non valse a trattenervelo. E si può dire che tanto il suo proprio interesse quanto quello dell’ellenismo lo indussero e quasi lo costrinsero a intervenire in Sicilia. Dopo la morte di Agatocle (289) le lotte intestine tra i Greci e quelle tra i Greci e i mercenarî italici del tiranno, i Mamertini, che si erano stabiliti in Messina impadronendosene a tradimento e facendo strage della popolazione, avevano causato la disgregazione dell’impero di Agatocle e dato agio ai Cartaginesi di riprendere i loro tentativi di conquista della Sicilia greca. Ora essi erano sul punto di vedere coronata dal successo questa loro aspirazione circa due secoli dopo la prima loro grande spedizione contro la Sicilia greca, quella che si era chiusa con la rotta d’Imera (480). Profittando infatti della lotta fra Tenone e Sosistrato per il possesso di Siracusa, che essi conducevano nella stessa città, dominando l’uno nella rocca dell’Ortigia, l’altro nei quartieri di terraferma, i Cartaginesi avevano assediato Siracusa per terra e per mare, e la resa della città pareva inevitabile. In questi frangenti tanto Tenone quanto Sosistrato si rivolsero a P., il quale intervenne nella speranza giustificata che avrebbe potuto vincere i Cartaginesi assai più facilmente dei Romani, e dopo la vittoria riprendere con maggiori forze e maggiore prestigio la guerra con Roma. Questo calcolo era in buona parte fondato; soltanto, tutta la storia precedente mostrava che quanto era facile vincere i Cartaginesi, altrettanto era difficile discacciarli dall’isola, e che non cacciati dall’isola essi erano sempre pronti a rinnovare i loro tentativi di conquista, sicché una guerra anche vittoriosa in Sicilia avrebbe difficilmente prodotto un accrescimento effettivo delle forze di cui P. disponeva contro i Romani. Ingannando la sorveglianza della squadra cartaginese che incrociava nello stretto di Messina, P. sbarcò felicemente presso Tauromenio e di lì procedette in direzione di Catania e di Siracusa: aveva con sé circa 10.000 uomini e navi da guerra e da trasporto. La flotta cartaginese che bloccava Siracusa non osò tagliare la via alle sue navi; egli entrò nella città ed ebbe da Tenone e Sosistrato la consegna dei quartieri che ciascuno di essi teneva, mentre i Cartaginesi toglievano il blocco per terra e per mare. Riconosciuto dai Sicelioti duce e re (ἡγεμὼν καὶ βασιλεύς), P. non solo poté liberare dai Cartaginesi tutto il territorio che essi occupavano nella Sicilia greca, ma condusse poi una campagna fortunata nella provincia cartaginese prendendo d’assalto la fortissima Erice e riducendo i Cartaginesi al possesso della sola Lilibeo. Lilibeo non poteva conquistarsi che assediandola per terra e per mare, e ad assediarla per mare occorreva la superiorità marittima che P. era ben lontano dal possedere. Sicché sarebbe stato prudente accettare la pace che Cargine offriva sulla base dell’uti possidetis, conservando in Sicilia la sola Lilibeo. P. avrebbe conseguito così ciò che nessuno dei tiranni di Siracusa aveva mai potuto ottenere. Certo questa pace sarebhe stata soltanto una tregua, ma della tregua si poteva approfittare sia per intervenire in Grecia prima che essa, dopo il turbamento provocato dall’invasione gallica, ritrovasse un assetto stabile, sia per risollevare le sorti della guerra in Italia con gli aiuti della vicina Sicilia greca, procedendo anche qui sulle tracce di Dionisio il Vecchio e di Agatocle. Ma i Sicelioti pensavano che sarebbe stato facile ora con un piccolo sforzo liberarsi per sempre dal pericolo cartaginese, e a P. arrideva la speranza di una guerra a fondo con Cartagine. Perciò egli non seppe resistere alle richieste dei suoi alleati e la guerra continuò. Sennonché dopo due mesi di vani tentativi egli dovette definitivamente convincersi che non era possibile conquistare Lilibeo attaccandola solo dalla parte di terra e s’apprestò a costruire una grande flotta per sbarcare in Africa e rinnovare ivi con migliore preparazione e maggiore speranza di successo l’audace tentativo di Agatocle. Ma per un tale miraggio egli perdette di vista i compiti più urgenti che l’attendevano in Grecia e in Italia, e inoltre non pensava che l’impresa avrebbe richiesto una tale tensione delle forze militari e finanziarie dell’isola quale era assai dubbio se i Sicelioti, esausti e depressi dal periodo di guerra e d’anarchia dopo la morte di Agatocle, avrebbero sopportato. D’altronde siffatti apprestamenti richiedevano concordia e severa disciplina, e P., principe straniero di consuetudini soldatesche, si guastò presto coi nuovi sudditi e volendosi assicurare l’ubbidienza con la forza suscitò dappertutto ire e ribellioni. Ciò lo indusse a incrudelire: mise a morte Tenone, mentre Sosistrato, temendo la stessa sorte, si salvò con la fuga ad Agrigento, ribellandosi. In tali condizioni non solo P. non poteva guadagnare terreno sui Cartaginesi, ma la stessa Sicilia non era più che un peso morto per lui, poiché per riconquistarla o anche solo per tenerne saldamente una parte avrebbe dovuto impegnare senza risultato forze anche più considerevoli di quelle di cui disponeva. Di tutto ciò approfittarono i Cartaginesi per ricuperare terreno e inviarono un nuovo esercito nell’isola. P. lo sbaragliò in battaglia e così, salvo il suo onore militare, poté evacuare interamente la Sicilia imbarcandosi con tutto il suo esercito per l’Italia. Da questa impresa pertanto egli non ricavò per sé, per lo stato epirota, per i suoi alleati d’Italia nessun vantaggio, anzi vi perdette uomini e denari. Ciò peraltro non fu invano per la causa dell’ellenismo, anzi per la causa della civiltà in generale, perché al suo intervento si deve se, più tardi, i Romani intervenendo in Sicilia non la trovarono trasformata interamente in una provincia cartaginese, ciò che avrebbe reso a loro assai più difficile la conquista dell’isola e avrebbe rese assai più dubbie le sorti del grande conflitto per il dominio del Mediterraneo occidentale. Ma queste non erano cose a cui P. potesse pensare, e allo stesso consolidamento dell’ellenismo in Sicilia è assai difficile che egli pensasse, se non in linea secondaria e come elemento sussidiario ai suoi piani d’impero. Nel tornare in Italia, P. non fu così fortunato come nell’andata e la sua flotta subì gravi perdite per opera della squadra cartaginese che incrociava nello stretto. Altre perdite il suo esercito toccò, dopo sbarcato, ad opera dei Campani di Reggio e dei loro alleati, i Mamertini. Tuttavia egli riuscì a disimpegnarsi, a ricuperare Locri che durante la sua assenza era venuta in potere del nemico e a raggiungere felicemente con le truppe il suo quartiere generale di Taranto. Qui riordinò l’esercito e si apprestò alla nuova campagna. Occorreva che egli riportasse qualche successo militare per rianimare i suoi alleati italici che molto avevano sofferto durante la sua assenza per la pressione dei Romani. I due consoli del 275, M. Curio Dentato e L. Cornelio Lentulo, operavano separatamente ciascuno con due legioni contro gli alleati italici di P. Il re si propose di attaccare l’uno di essi, Curio, che era a campo presso Maluento (la posteriore Benevento), prima che l’altro collega potesse raggiungerlo. Ma Curio attendendo il collega si teneva chiuso nelle fortificazioni del suo accampamento. Onde P. deliberò di assalirvelo per sorpresa. Il tentativo non riuscì e ne nacque un combattimento presso il campo romano in cui gli Epiroti ebbero la peggio e il re, riconoscendo fallita la sorpresa, ripiegò nel proprio campo. I Romani si ascrissero la vittoria e non a torto, sebbene il grosso delle forze nemiche fosse rimasto intatto, perché avvicinandosi l’altro console e non credendo il re di poter dare battaglia contro le forze riunite di entrambi, dovette chiudere la campagna tornando indietro. Con le truppe di cui disponeva egli si sarebbe potuto sostenere indefinitamente in Italia, come più tardi Annibale; ma Annibale non pensava che ad avvantaggiare la sua patria tenendo impegnati quanto più a lungo poteva i Romani lontano dall’Africa, P. non aveva nessun interesse né per sé stesso né come principe epirota a logorare le sue forze in una guerra che non gli dava una speranza di successo, mentre l’Epiro non correva alcun pericolo dalla parte dei Romani e poteva invece correrne per parte dei Macedoni. Sicché, dopo avere fatto un vano tentativo per indurre Antigono Gonata e Antioco Sotere di Siria a inviargli soccorsi coi quali riprendere con nuove forze la guerra contro Roma, s’imbarcò per l’Epiro con la maggior parte degli Epiroti sopravvissuti a tante battaglie, lasciando a Taranto fortemente presidiata il figlio Eleno. Questo mostra che non intendeva abbandonare Taranto alla sua sorte, ma non mostra ancora che avesse serie intenzioni di ritornare in Italia a riprendere una guerra in cui egli aveva dovuto riconoscere che le speranze di conquistarsi un impero erano scarse, e che la stessa difesa dei suoi alleati italici non si poteva effettuare senza sacrifizî assai gravi.
In Grecia nessuno allora minacciava l’Epiro. Antigono Gonata, il figlio di Demetrio Poliorcete, aveva fatto pace con Antioco Sotere rinunciando a ogni pretesa sull’Asia Minore, aveva acquistato prestigio con una grande vittoria sui Galli presso Lisimachia, e poi, invasa la Macedonia, aveva ricuperato il regno paterno e posto fine all’anarchia. Il solo pretendente che avrebbe potuto impedirgli la conquista, P., era allora impegnato nell’Occidente, sicché egli aveva potuto iniziare la riorganizzazione dello stato macedonico dando al paese respiro dopo tanti guai. Anche le condizioni della Grecia erano assai migliorate. Respinta l’invasione celtica, gli Etoli erano divenuti la potenza preponderante della Grecia settentrionale, la Beozia e l’Attica erano indipendenti, sebbene deboli e sebbene Antigono avesse conservato il possesso del Pireo. Nel Peloponneso si equilibravano gli Spartani, che avevano ripreso alquanto vigore sotto il governo energico di re Areo, e gli alleati della Macedonia, e qualche conato di rinnovata libertà repubblicana si cominciava ad attuare in Acaia. In tali condizioni un tentativo di dare alla penisola unità politica quale era riuscito a Filippo di Aminta, e non era riuscito più tardi a Demetrio Poliorcete, non aveva una seria speranza di successo, fatto su basi assai meno salde di quelle onde era partito Filippo, e per di più contrastato dalla Macedonia. L’occasione favorevole dell’invasione gallica e della successiva anarchia in Macedonia era trascorsa e ne avevano approfittato gli altri. Sicché un intervento di P., se poteva dargli, grazie alla permanente instabilità delle condizioni e al suo genio militare, qualche successo, doveva in sostanza giocare come elemento perturbatore, non come elemento unificatore. Certo, se si consolidava nuovamente la Macedonia, l’Epiro non poteva non trovarsi ridotto di nuovo in quella condizione di potenza di second’ordine, in cui era stato sempre prima di P. e anche sotto P., quando Lisimaco aveva conquistato la Macedonia. Ma questo non era se non la conseguenza inevitabile della misura effettiva della potenza epirotica, la quale dalle campagne di P. in Occidente non aveva avuto nessun incremento utile. Perciò, senza nessuna vera necessità e senza nessuna seria speranza di restaurazione e d’unificazione, P. iniziò la sua ultima avventura con un’ardita avanzata in Macedonia (274). Dopo un’avvisaglia fortunata contro Antigono, riuscì a ottenere che defezionasse a lui la falange macedonica. Antigono infatti non aveva ancora potuto radicare saldamente il suo dominio e i Macedoni non avevano ancora appreso quella fedeltà verso la sua casa che poi dimostrarono inconcussa per oltre cento anni fino alla battaglia di Pidna. Con ciò tutta l’alta Macedonia venne in mano di P., mentre Antigono conservò la Macedonia marittima e quella ad oriente dell’Assio. Era chiaro che questo smembramento della Macedonia non poteva essere stabile e che unificarla sotto il suo dominio P. non poteva, perché Antigono, padrone del mare, teneva saldamente le piazze marittime. Rimaneva da combattere Antigono nel Peloponneso dove egli conservava largo dominio. Ma qui, per ottenere risultati di qualche conto, bisognava abbattere la potenza spartana con rischio evidente che Areo e Antigono, fino allora rivali, unissero le forze contro il nuovo nemico. Anche qui P. agì di sorpresa. Con grande rapidità di mosse, attraverso l’Etolia che gli era amica, condusse l’esercito sulle sponde del golfo corinzio e lo tragittò nel Peloponneso. Qui fu accolto a braccia aperte dagli Achei, dagli Elei e da parte degli Arcadi che speravano in lui il tutore della propria libertà. Gli si diede perfino Megalopoli, che da tempo era come la cittadella del dominio macedonico nel Peloponneso; e P. invase senz’altro la Laconia portando con sé un pretendente di sangue reale, Cleonimo, che voleva sostituire ad Areo. L’attacco era stato così impreveduto che Areo era lontano e prendeva parte a una guerriglia in Creta. Ma la sorpresa di Sparta non riuscì a lui come non era riuscita poco meno di un secolo prima ad Epaminonda. La città d’altronde non era più aperta. Le fortificazioni furono riattate e gli Spartani, comprese le donne, si difesero accanitamente e riuscirono a sostenersi fino al ritorno di Areo. P. si propose di sottomettere Sparta bloccandola, ma sbarcò nel Peloponneso con un esercito Antigono, ciò che indusse P. ad abbandonare il blocco, per non rischiare egli stesso di essere chiuso in Laconia tra gli eserciti di Antigono e di Areo, e a ripiegare verso nord non senza subire gravi perdite per opera di Areo che lo seguiva passo passo. In Argolide egli si trovò di fronte i due eserciti avversarî, ma invece di abbandonare l’impresa riconoscendone il fallimento e mettendo in salvo a tempo il suo esercito, tentò di giocare l’ultima carta entrando in Argo per sorpresa in presenza dei due eserciti nemici. Se anche la sorpresa fosse riuscita, la sua posizione sarebbe stata sempre strategicamente assai grave e quasi disperata, così lontano come egli era dalla sua base epirotica in presenza di forze nemiche preponderanti che avevano assai più vicine le loro basi. Ma ad ogni modo il temerario tentativo fallì. Il re vi perdette la vita (273 o 272) e l’esercito dovette arrendersi agli avversarî. Antigono si mostrò clemente non solo onorando il cadavere del nemico, ma rilasciando il figlio di P., Eleno, che era venuto dall’Italia probabilmente con gran parte delle forze ivi rimaste per accompagnare il padre nella spedizione peloponnesiaca, e facendo pace con l’altro figlio Alessandro erede del trono (il figlio maggiore Tolomeo era morto combattendo presso Sparta). La pace gli ridava naturalmente la Macedonia, ma lasciava ad Alessandro l’Epiro coi territorî acquistati dal padre in Grecia: ciò che giovava allora anche alla Macedonia, la quale aveva bisogno di un periodo di raccoglimento e di consolidamento. L’impresa d’Italia terminò ingloriosamente col tradimento della rocca tarentina ai Romani per opera del comandante epirota Milone, il quale procedette, è da credere, d’accordo col nuovo re Alessandro per cui la conservazione di Taranto, dove il partito filoromano cominciava a dare serî fastidî agli Epiroti, non era che uno sperpero inutile di energie.
L’esame attento delle vicende di P. mostra che la molla di tutte le sue imprese fu il desiderio di costituirsi un impero. Questa sua ambizione non s’incontrò che parzialmente con gl’interessi dei suoi Epiroti, le cui migliori energie egli spese nel cercar di fondare tale impero. È chiaro infatti che essi dalla conquista dell’impero non avrebbero avuto nessun vantaggío proporzionato ai loro sacrifizî e ne avrebbero profittato assai meno di quel che i Macedoni dalla conquista dell’Asia. Fu invece ventura per P. che queste sue mire ambiziose combaciassero con la difesa degl’interessi ellenici nelle sue campagne occidentali, le quali del resto non giovarono affatto a lui e giovarono solo nella ristretta misura che abbiamo precisata alla causa dell’ellenismo. Ciò in parte, specie in Italia, procedette da cause indipendenti dalla sua volontà e da lui imprevedibili, ma in parte, specie in Sicilia, dipese dal fatto che egli non intervenne con la mira disinteressata di difendere l’ellenismo, ma anche e soprattutto con quella di fondarsi un impero. In Grecia poi, sebbene astrattamente si possa dire che ogni tentativo d’unità nazionale era utile ai Greci anche se vi riluttavano, in concreto non si può non rilevare che nei mezzi relativamente ristretti e nella mancanza in P. di una vera idealità che non fosse quella del soddisfacimento della propria ambizione, era il germe dell’insuccesso per cui i suoi tentativi furono in realtà dannosi non meno alla Grecia che all’Epiro. Le forze dell’Epiro nel pieno rigoglio si sperperarono nelle lotte fratricide senza risultato, mentre si sarebbero potute adoperare assai utilmente per stendere a nord i limiti dell’ellenismo nella regione illirica, ciò che poi avrebbe permesso ai Greci di resistere con maggiore speranza di successo alla penetrazione romana nella Penisola Balcanica.
Intellettualmente e moralmente P. non differì molto dai primi diadochi alla cui scuola egli visse e di cui condivise l’ambiente spirituale. Prode soldato, esperto ufficiale, egli non ebbe però né il genio creatore di un Epaminonda o di un Annibale, né le vaste concezioni di Annibale stesso, di Scipione o di Cesare, e la sua soverchia temerità spiega i non rari insuccessi, compreso quello in cui trovò la morte. Come politico ebbe larghezza di visuale e arditezza di concezioni, ma gli mancò il senso concreto del possibile. Non difettò di generosità magnanima, ma incrudelì quando ve lo spingeva l’interesse, e talora contro il suo interesse quando ve lo spingeva l’insofferenza d’ostacoli. Per soddisfare alla sua ambizione non esitò a ricorrere all’assassinio, come del resto fecero i suoi contemporanei, Cassandro, Demetrio Poliorcete e Tolomeo Cerauno: segno dell’inferiorità morale degli Epiroti e dei Macedoni rispetto agli altri Greci e della sfrenatezza cui apriva la via il potere illimitato e senza controlli. Anche nella vita familiare P. si comportò come la maggior parte dei diadochi. Dopo la morte di Antigone, figliastra di Tolomeo di Lago, egli sposò Lanassa, figlia di Agatocle, e nello stesso tempo si unì con una figlia di Audoleonte, re dei Peoni, e con Bircenna, figlia del re illirico Bardili, il che provocò lo sdegno e la separazione di Lanassa. Ebbe da Antigone Tolomeo, da Lanassa Alessandro, da Bircenna Eleno, e, non sappiamo se da Antigone o da una delle mogli barbare, una figlia, Olimpiade, la quale sposò il fratellastro Alessandro. Al pari di altri diadochi P. si sperimentò come scrittore. È menzionata una sua Tattica (τακτικά) e gli sono attribuite anche Memorie (ὑπομνήματα), che però non sappiamo se siano propriamente opera sua o solo scritte per sua iniziativa (gli scarsissimi frammenti in Müller, Fragm. Hist. Graec., II, p. 461).
Fonti: La storia di P., oltreché nelle Memorie dello stesso P., fu narrata in tutto o in parte da non pochi scrittori contemporanei, come Prosseno, che scrisse una storia epirotica (‘Ηπειρωτικά) in cui si parlava largamente di quel re, Ieronimo di Cardia (v.), che con le sue storie giungeva almeno fino alla morte di P., Duride di Samo, che si spingeva almeno fino alla battaglia di Corupedio, e Timeo che perveniva con la sua storia siciliana fino al passaggio in Sicilia dei Romani. Per le ultime vicende di P. soccorreva anche Clitarco, le cui storie s’iniziavano appunto con la spedizione di P. nel Peloponneso. Le fonti romane sono tutte assai posteriori e fondate solo in piccola misura sulle registrazioni contemporanee dei pontefici e in particolare sui fasti trionfali, in massima su tradizioni familiari più o meno alterate dalla vanagloria e sugli stessi Greci in parte tendenziosamente alterati e travisati. Faceva solo eccezione il discorso di Appio Claudio Cieco contro la pace con P., per la cui autenticità v. claudio cieco, appio. Tutte queste fonti sono perdute. Per noi la fonte principale è la vita di P. in Plutarco, al solito di difficilissima analisi, la quale contamina fonti greche con altre, come Dionisio di Alicarnasso, che, greche o no, risentono l’influsso dell’annalistica romana. Inoltre Diodoro, purtroppo frammentario (lib. XXI-XXII), Giustino, che riassume negligentemente Trogo e ha il solo vantaggio d’essere indipendente dalle falsificazioni dell’annalistica (lib. XVI-XVIII; XXIIIXXV), Pausania il Periegeta in parecchie digressioni, le Perioche di Livio (12-15), le cui storie per questo periodo mancano, e le altre fonti da lui derivate. Infine, anch’essi in tutto o in parte sotto l’influsso romano, Dionisio (frammenti dei lib. XIX e XX), Dione Cassio (fr. 39-40 e presso Zonara, VIII, 2-6) e Appiano (Samn., 7-12).
GIOVANNI d’Aragona. – Cardinale, nato nel 1463, morto nel 1485. Figlio di Ferrante re di Napoli, fu, “non maturo di senno, acerbo di anni” (L. Tosti), creato protonotario e abate di Montecassino, nel primo fervore di Sisto IV per un accordo col re contro i Turchi (1471). A Roma pronunziò allora un discorso per l’obbedienza al pontefice, che fu stampato come suo. Amministrò molte diocesi (Taranto 1477, Cosenza 1481, Salerno 1482, Strigonio [Esztergom] 1484); fu abbate della Cava, di S. Benedetto di Salerno, di S. Lorenzo di Aversa, della Pomposa, cardinale (10 dicembre 1477), legato due volte in Ungheria e in Germania (1479-80 e 1483-84). Il padre lo mandò a Roma per indurre Innocenzo VIII a non accogliere le richieste d’aiuto dei baroni: qui morì. Sono ricordate di lui istruzioni e lettere, manoscritte nell’archivio della Cava. Lasciò a Montecassino traccia onorevole del suo governo.
ARSENALE (dall’arabo dār aṣ–ṣinā ‛ah “casa di fabbricazione”; fr. arsenal; sp.arsenal; ted. Zeughaus, Arsenal; ingl. arsenal, dockyard). – È lo stabilimento di lavoro per la costruzione e riparazione di naviglio da guerra e in genere di tutte le armi, macchine e strumenti impiegati da detto naviglio e per la fabbricazione e la custodia di armi, specialmente di artiglieria, e di attrezzi d’ogni genere per gli eserciti. Dalla stessa origine deriva evidentemente anche la voce darsena che si dà ad uno specchio d’acqua interno con una sola o al massimo due strette comunicazioni col mare. La denominazione “arsenale” è ormai applicata solo a stabilimenti di carattere militare, tanto per l’esercito quanto per la marina: così mentre è opportuno in cose di marina aggiungere alla parola “arsenale” l’aggettivo qualificativo “marittimo”, è superfluo aggiungervi, come molti fanno, quello di “militare”. Uno stabilimento privato che possa eseguire i lavori che vengono di solito richiesti agli arsenali, e ciò tanto per la marina militare quanto per quella mercantile, non avrà mai modo di soddisfare alle esigenze varie di una flotta come vi soddisfa un arsenale e non viene mai indicato con questo nome, ma più genericamente come stabilimento od officina oppure con la sua ragione sociale. Nei paesi di lingua inglese gli arsenali marittimi vengono denominati in generedockyards in Inghilterra, e navy, yards in America.
Gli arsenali nell’antichità.
Organizzazione. – Nei tempi più antichi gli eserciti erano costituiti da soldati provvisti di armi proprie, che variavano a seconda dei mezzi e dei gusti individuali, pur uniformandosi ai criterî generali dell’epoca in fatto di armamento, e le stesse flotte risultavano dall’unione di navi costruite da singoli principi. Più tardi invece, in seguito all’estendersi dei poteri dello stato, alla maggiore ampiezza degli armamenti, e al perfezionamento dell’organizzazione e della tattica, che esige armamento uniforme e regolare, lo stato si assunse sempre più largamente la fabbricazione, la raccolta e la custodia delle armi, delle navi e di tutti gli altri materiali necessarî alla guerra terrestre e navale, e alle più o meno ricche sale d’armi private successero gli arsenali pubblici. Già nell’antico impero egiziano sono ricordati i sovrintendenti della camera delle armi del Faraone ed ogni distretto ha, oltre alla sua milizia, il suo arsenale, la casa delle armi. Un arsenale con armi, effetti di equipaggiamento e provvigioni è raffigurato, per esempio, in un rilievo di Tell-el-Amarna dell’epoca del nuovo impero. Gli eserciti dei re assiri, numerosi e perfettamente organizzati, disponevano naturalmente di grandi arsenali. Tiglatpilesar I (1115-1093 a. C.) si vantava d’aver fatto costruire più carri da guerra dei suoi predecessori, e le armi trovate in gran copia tra le rovine del palazzo di Sargon II (721-705 a. C.) attestano la ricchezza dell’armeria reale. I suoi successori Sennacheribbo e Asarhaddon si gloriano della costruzione del Palazzo che custodisce tutto, cioè di un arsenale ove si raccoglieva quanto era necessario per la guerra.
In Grecia gli stati più grandi cominciarono già nel sec. V a. C. a radunare armi, per far fronte al consumo richiesto dalle lunghe guerre e per fornirle ai cittadini meno abbienti chiamati al servizio militare in casi di grave necessità. Abbiamo però scarse notizie sugli arsenali terrestri dei Greci. Dionigi I di Siracusa (406-367), che si era assunto, disarmando i suoi concittadini, di provvedere in caso di guerra per intero all’armamento delle truppe (il primo caso di un intero esercito armato a spese dello stato), in vista della guerra contro Cartagine, radunò turbe di artefici per i suoi armamenti terrestri e marittimi; ma essi lavoravano non in un arsenale, ma qua e là in locali pubblici e privati secondo l’opportunità. Depositi d’armi sono attestati per Atene al tempo della guerra del Peloponneso, durante la quale essa armò da opliti a spese dello stato i teti; e sappiamo che l’oratore Licurgo, alla fine del sec. IV, preparò grandi depositi d’armi (fra cui 50.000 dardi) sull’Acropoli. I re dell’età ellenistica crearono grandi arsenali, dovendo provvedere direttamente all’armamento di tutte le loro truppe regolari. La Macedonia aveva nel 172 a. C. negli arsenali armi per tre eserciti, e un arsenale macedone è ricordato a Calcide (Livio, XXX, 23, 7; XLII, 52); Appiano (Proem., 10) enumera i grandiosi apparati militari terrestri e navali degli arsenali dei Tolomei d’Egitto.
Anche in Roma, i soldati dovevano più anticamente provvedersi le armi, ma lo stato cominciò presto, e in misura sempre crescente, a fornire armi regolamentari. Pare però che molto si lasciasse all’iniziativa dei comandanti degli eserciti, che avevano le loro officine e arsenali mobili (per Scipione Africano in Spagna, a Siracusa e in Africa: Livio, XXVI, 51, 8; XXIX, 22, 3; 35, 8). Gli armamentaria publica in Roma sono ricordati per la prima volta da Cicerone, Pro Rab., 20, per il tempo di Mario; sotto l’impero, un grande armamentarium era in Roma nei castra praetoria (v. Tacito, Hist., I, 38, 80 e Corp. Inscr. Lat., VI, 999, 2725), amministrato daarmamentarii, riuniti in decuria. Nelle provincie, ogni campo militare aveva il suo arsenale. Nel sec. III d. C., gli arsenali (fabricae) per la fabbricazione delle armi erano posti in città dell’interno, ed erano alla dipendenza dei magistri officiorum. Erano specializzati, e ne troviamo la lista nella Notitia Dignitatum; in Italia erano sei: a Concordia (saette), Verona (scudi e armi), a Mantova (loriche), Cremona (scudi), Pavia (archi) e Lucca (spade).
Meno scarse notizie abbiamo per gli arsenali marittimi, che sorsero in Grecia quando, verso la fine del sec. VII, gli stati cominciarono ad organizzare flotte da guerra regolari. Gli arsenali marittimi (τὰ νεώρια in senso lato) comprendevano principalmente le tettoie per il ricovero delle navi disarmate e tirate in secco (τὰ νεώρια in senso stretto) e il magazzeno per le attrezzature (σκευοϑήκη): lo stato non costruiva invece di solito le navi in proprî cantieri, ma ne affidava la costruzione a cantieri privati sotto la sorveglianza dei suoi organi, che le collaudavano.
Tutti i grandi porti militari dell’antichità avevano i loro νεώρια, che sono testimoniati dalle fonti e da rovine per Siracusa, Samo, Corinto, Cizico, Rodi, Eniade, Alessandria, Cartagine, Utica, Marsiglia, ecc.; Sparta aveva il suo arsenale marittimo al Gytheion. Ma i più famosi erano quelli ateniesi dei tre porti del Pireo, dei quali esistono ancora le tracce.
Costruiti nell’età periclea colla spesa di 1000 talenti, dopo la guerra del Peloponneso furono venduti dal governo dei Trenta per tre talenti per essere demoliti, ma furono ricostruiti nel sec. IV, e distrutti infine da Silla nell’86 a. C. Dalle iscrizioni sappiamo che nel 354 erano pronti per 300 navi, nel 330 per 372 (196 nel porto di Zea, 82 a Munichia, 94 nel porto di Kantharos). Dietro ai νεώρια del porto esclusivamente militare di Zea, stava la σκευοϑήκη (ὁπλοϑήκη in Strabone), il vero e proprio arsenale. Il vecchio edificio dell’arsenale, divenuto insufficiente, fu sostituito nel secolo IV da una grande costruzione eretta su progetto dell’architetto Filone di Eleusi.
La direzione amministrativa delle costruzioni navali spettava in Atene al Consiglio dei 500, che agiva per mezzo di una commissione di 10 τριηροποιοί, scelti fra i suoi membri uno per tribù e assistiti da architetti eletti dall’assemblea popolare, i quali avevano la direzione tecnica dei lavori. La sorveglianza sulle navi costruite e sugli arsenali era esercitata dallo stesso consiglio, fin dal sec. V, per mezzo di una seconda commissione da esso eletta, i νεωροί; gli ἐπιλελόμενοι τοῦ νεωρίου sono da alcuni ritenuti una terza commissione, da altri la stessa cosa dei νεωροί. I νεωροί cessarono quando i Trenta distrussero gli arsenali; ma quando flotta ed arsenali furono ricostruiti nel sec. IV, ripresero col titolo di οἱ τῶν νεωρίων ἐπιμεληταί o anche di οἱ τῶν νεωρίων, οἱ ἐν τοῖς νεωρίοις ἄρχοντες. Erano dieci magistrati (ἄρχονες), uno per ϕυλή, che duravano in carica per un anno; erano loro addetti un γραμματεύς, un perito (δοκιμαστής) e uno schiavo pubblico. Erano in continua relazione coi varî ταμίαι delle costruzioni e degli approvvigionamenti navali. I loro inventarî, che vanno dal 376/5 al 323/2, ci sono conservati in iscrizioni e sono pubblicati in Inscr. Graec., II, 789 sg. (Dittenberger, Sylloge Inscr. Graec., 3ª ed., n. 964): in essi gli ἐπιμεληταί segnavano lo stato delle navi e degli attrezzi giacenti negli arsenali, o che ne uscivano o entravano, i debiti e i pagamenti dei trierarchi. Avevano poteri giudiziarî per alcune questioni che rientravano nella loro competenza. Verso la fine del sec. IV c’erano in Atene anche due στρατηγοί ἐπι τὸν Πειραιᾶ, con la competenza specifica di sorvegliare i porti e gli arsenali, e uno ἐπί τὸ ξαυτικόν.
C’erano poi 500 guardiani dei cantieri (ϕρουροί ξεωρίων).
I Romani al tempo della repubblica non tennero mai flotte permanenti, ma preferivano costruirle di pianta quando ce n’era bisogno, o riattare vecchie navi rimaste eventualmente nei cantieri della capitale o delle colonie e città alleate. Roma non aveva perciò arsenali importanti come quelli delle città marittime greche e puniche. I due navalia erano sulla riva del Tevere, uno nel Campomarzio, l’altro più a valle ai piedi dell’Aventino; furono restaurati dal greco Ermodoro nel secolo II ed esistevano ancora sotto l’impero, sebbene la loro già scarsa importanza fosse diminuita ancora per la costruzione di porti militari altrove. Dopo Azio, scomparsa ogni altra potenza marittima dal Mediterraneo, i Romani non mantennero più flotte di grandi unità da battaglia, ma solo di piccole unità celeri, per le quali si costruirono porti militari a Miseno, a Ravenna e altrove. Questi porti dovevano avere i loro arsenali, ma non ne sappiamo nulla.
Bibl.: A. Ermane e H. Ranke, Aegypten, Tubinga 1923, pp. 96, 99, 621, 651; B. Meissner, Babylonien und Assyrien, I, Heidelberg 1920, p. 106; gli articoliArmamentorium, Fabrica, Portus, in Daremberg e Saglio, Dict. des Antiquités; art.Armamentarium e Fabrica, in De Ruggiero, Diz. Epigrafico; gli art.Armamentarium, Classis, Fabricenses, in Pauly-Wissowa, Real-Encyclopädie; J. Kromayer-G. Veith, Heerwesen u. Kriegführung der Griechen u. Römer, Monaco 1928, passim; A. Boeckh, Urkunden über das Seewesen des Attischen Staates, Berlino 1840 (vers. ital. in Pareto, Bibl. di Storia Economica, I); A. Köster, Das antike Seewesen, Berlino 1923, passim.
Pianta e costruzione. – La parola “arsenale”, nel suo significato principale di “luogo, dove si fabbricano i navigli e tutto quello che è necessario ad armarli e a guernirli”,esprime un concetto che non corrisponde più esattamente a quello dell’arsenale greco, che si chiamava con termine di numero plurale νεώρια, termine generale, che etimologicamente vuol dire “luogo, dove si ha cura delle navi”. Infatti oggi, essendo le navi da guerra e i grandi transatlantici costruiti prevalentemente in acciaio, e manovrati per mezzo di macchine, il concetto di arsenale si restringe piuttosto al luogo di costruzione e riparazione delle navi, le quali anche in tempo di pace o di riposo possono continuare a navigare o si fermano a cielo aperto nei porti; mentre invece gli antichi legni armati, assai più esposti ai danni delle intemperie, e manovrabili solo con forte impiego di forze umane, richiedevano di poter essere tirati in secco e custoditi, quando, nelle tregue fra guerra e guerra e nella stagione invernale, non si faceva uso di essi. Perciò l’arsenale antico, più che non l’arsenale moderno, presentava caratteri di affinità con gli hangars dei nostri campi di aviazione.
La parola σκευοϑήκη, molto usata nel mondo ellenico, designava una parte speciale dei neoria, e cioè l’edificio nel quale si conservavano tutti i materiali accessorî per l’armamento della flotta; con i termini ναυπήγιον e νεώλκιον si distinguevano invece i due aspetti speciali dell’arsenale classico, e cioè da una parte quello della costruzione e riparazione delle navi, il cui cantiere sembra fosse talvolta in luogo separato dei veri e proprî neoria, dall’altra quello della loro custodia.
Numerosi passi di autori antichi, e notevoli ritrovamenti archeologici ci aiutano a ricostruire idealmente i neoria greci del secolo IV e del principio del III a. C., mentre scarsissime sono le vestigia degli anteriori, che furono prevalentemente costruiti in legno, come quelli di Samo, i primi a essere citati dalle fonti: ogni città marittima d’importanza strategica o commerciale ebbe infatti naturalmente il suo arsenale. Molto celebre nell’antichità fu quello del Pireo costruito nell’età periclea, rovinato dopo la guerra del Peloponneso, rifatto nel sec. IV a. C. Suddiviso nelle tre baie fortificate di Kantharos, Zea e Munichia, era capace di contenere circa 400 navi: meglio conservati sono gli avanzi rimessi in luce in Zea dalla Società archeologica d’Atene nel 1885, per mezzo di un regolare scavo. Zea era il principale porto militare di Atene (mentre l’emporio commerciale si trovava in Kantharos) e dopo la ricostruzione del sec. IV, quando alle vecchie baracche si sostituirono solide mura, colonnati di pietra e tetti a due spioventi, poggiati su robuste travature di legno, esso conteneva 196 celle per navi da guerra. Queste celle, dette in greco νεώσοκοι, si appoggiavano posteriormente a un muro in pietra πόρος, il quale, in forma di poligono, cingeva tutta la baia; il muro distava all’incirca 37 metri dalla riva del mare. Tanti colonnati, a intervalli di circa m. 6,50 l’uno dall’altro, correvano perpendicolarmente al muro, da questo al mare, separando così una cella dall’altra. Fra i colonnati era murata a terra, nel senso della lunghezza, una guida in poros, larga 3 metri, leggermente inclinata, sulla quale scorreva la chiglia della nave, che entrava o usciva dalla sua custodia. In Zea le celle erano accoppiate a due a due sotto un comune tetto a due spioventi, ragione per cui un colonnato più alto e con intercolumnî minori si alternava con un colonnato meno alto con intercolumnî maggiori: sul colonnato più alto poggiava il trave centrale del tetto a due spioventi.
Vicina ai νρώσοικοι di Zea, ma separata da essi, a nord della baia, si ergeva la celebre σκευοϑήκη costruita dall’architetto Filone; i lavori iniziati nel 346 a. C. furono sospesi nel 339 a causa della guerra con Filippo di Macedonia, ripresi nell’anno seguente e ultimati nel 329. Una grande iscrizione attica di 5161 lettere, rinvenuta al Pireo nel 1885, nelle vicinanze del luogo dove sorse l’antico edificio (Inscr. Gr., II, 1054; Dittenberger, Sylloge Inscr. Graec., 3ª ed., n. 969), ci ha conservato notizie precise sulla costruzione di Filone; probabilmente il testo dell’iscrizione fu preparato dall’architetto, il quale fu anche autore di due opere ora perdute, ma citate da Vitruvio, l’una sulla simmetria nella costruzione dei templi, l’altra “sull’arsenale che aveva fatto nel Pireo”. È notevole come Filone si fosse preoccupato non solo della parte tecnica e della praticità dell’edificio, ma anche della sua estetica. La σκευοϑήκη di Zea aveva la pianta di un rettangolo allungato lungo circa m. 123, largo 17, con 3 finestre nei lati corti e 36 nei lati lunghi; le pareti erano coronate all’esterno da un fregio con triglifi; era coperta da un tetto a due spioventi, poggiato su travature di legno. L’interno era diviso in tre navate, per mezzo di due file di colonne: la navata centrale, più ampia, serviva al passaggio del popolo ateniese, che si recava a visitare, come in un museo, gli oggetti esposti nelle navate minori, suddivise in due piani: nell’inferiore, in 134 armadî, si conservavano vele e pezze di lino, nel superiore gomene e sartiame. Recentemente il danese Marstrand, riprendendo in esame la grande iscrizione di Zea, ha dato una ricostruzione accurata di questo edificio, che costituiva una parte tanto importante dell’antico arsenale del pireo.
Alcuni rapporti numerici, che per la filosofia pitagorica furono l’essenza di tutte le cose e il principio razionale dell’universo, ebbero importanza fondamentale nella costruzione dei templi greci, nella fabbricazione delle navi, nel fissare le proporzioni di certi tipi di bellezza umana, creati dalla scultura attica e peloponnesiaca. Il Marstrand, basandosi sulle misure e i dati tramandati dall’iscrizione, ha cercato di ritrovare le regole che determinarono l’opera di Filone, vale a dire di stabilire quali rapporti numerici fissarono le dimensioni verticali e orizzontali della celebre σκευοϑήκη. Questo fondamento matematico, filosofico, estetico permise a Filone di fare una così maravigliosa pubblica esplicazione della sua opera architettonica, durante un’assemblea popolare, che il popolo lo lodò non meno per la sua eloquenza che per la sua arte.
Oltre i neoria del Pireo, che furono bruciati da Silla nell’86 a. C. si conoscono abbastanza bene quelli di Eniade (Οἰνιάδαι) in Acarnania, già visitati e disegnati da Ciriaco d’Ancona nel 1436, e esplorati da una missione archeologica americana, nel 1900-1901. Tanto per le proporzioni, quanto per la disposizione delle celle, scavate in parte nella viva roccia, essi si rivelano molto affini a quelli di Zea, e perciò dovettero essere costruiti proprio all’inizio dell’età ellenistica. Anche qui i νεώσοικοι erano attigui l’uno all’altro e separati da colonnati. Ma ciascuna cella aveva un tetto proprio a due spioventi: le guide, scavate anch’esse nella roccia, sulle quali scorreva la chiglia dei navigli, appaiono perfezionate, in modo da permettere una manovra più rapida per l’ingresso e l’uscita della flotta, e la σκευοϑήκη non è più separata dalle celle come in Zea, ma attigua ad esse.
In età ellenistica (secoli III-I a. C.) ci dovette essere un incremento straordinario nella costruzione degli arsenali, incremento parallelo al diffondersi della civiltà greca in tutto il bacino del Mediterraneo, in seguito alle conquiste di Alessandro Magno e dei suoi successori. Si costruirono città nuove e nuovi porti, su piani regolatori molto progrediti al confronto di quelli delle più antiche città greche. I neoria, che fino allora erano stati costruiti nelle adiacenze immediate dei porti commerciali, degliemporia (salvo qualche eccezione), e che erano stati accessibili al pubblico, che vi circolava liberamente, cominciarono a separarsi, a isolarsi, a divenire di regola impenetrabili agli estranei, come i nostri arsenali della R. Marina: a Rodi, in età ellenistica, l’ingresso agli estranei nel porto militare era vietato con tanto rigore, che i trasgressori erano puniti con la morte.
Malgrado la rinomanza dei neoria ellenistici, non abbiamo notizie o ritrovamenti archeologici sufficienti per poterci fare una idea completa del loro tipo di costruzione.
A Cartagine il porto militare, dove si trovavano i neoria per le navi da guerra, era nettamente separato dal commerciale o emporion: questo ebbe forma rettangolare, quello circolare, e fu chiamato κώϑον. Ιneoria si componevano di 220 celle, distribuite tutt’intorno al porto circolare, e a una piccola isola centrale, tagliata artificialmente nella roccia, in forma di disco. La separazione fra cella e cella non era più costituita da colonnati, come a Zea e a Eniade, ma da muri pieni; c’era inoltre una divisione in due piani, in modo che i magazzini, le σκευοϑήκαι, i ταμιεῖα contenenti tutti i materiali necessarî all’armamento, erano disposti nel piano superiore: così dalla celebre σκευοϑήκη di Filone, costruita in luogo vicino, ma separato dalle celle delle navi, si arriva ai magazzini di Cartagine, molto più opportunamente distribuiti al piano superiore delle celle, uno per ogni singola nave.
A Tharros in Sardegna, si sono trovate alcune rovine portuali, che secondo alcuni sarebbero avanzi dell’aniico arsenale. I neoria ellenistici di Salonicco (Θεσσαλονίκη) furono bruciati da Perseo dopo la battaglia di Pidna.
La parola latina corrispondente a νεώρια è navalia. È da notarsi come tanto la parola greca, quanto la latina siano usate più comunemente al plurale, precisamente per esprimere come l’arsenale consistesse di più elementi simili fra loro, di costruzioni omogenee. Si discute il significato esatto della parola textrina, usata in età arcaica romana, per significare i navalia; forse l’analogia fra la tessitura in legno delle carene e la tessitura delle stoffe suggerì l’uso del vocabolo esprimente l’arte e l’officina del tessitore anche per indicare l’arsenale, e forse più specialmente quel reparto di esso destinato alla costruzione e riparazione delle navi. In ogni modo la parola textrina andò presto in disuso.
Se poco sappiamo dei neoria ellenistici, purtroppo pochissimo o quasi nulla conosciamo dei navalia romani. Certamente essi, nella loro costruzione, dovettero nel periodo repubblicano più antico essere imitazione del tipo greco, e derivazione dal tipo greco-ellenistico nell’età seguente e durante l’impero. Lo sviluppo nella struttura delle navi avvenuto dal periodo greco al romano, sviluppo che è analogo a quello delle forme architettoniche del tempio classico, ebbe certamente la sua ripercussione nella determinazione della pianta, delle dimensioni, dell’aspetto esteriore e della disposizione interna degli arsenali romani.
Quanto ai particolari architettonici e tecnici, poco si ricava da Vitruvio, il quale si limita ad alcuni consigli di carattere generale: orientare gli edifizî a nord per impedire l’azione deleteria degli insetti, che si moltiplicano al calore del sole; evitare il legno, per il pericolo degli incendî; regolare le proporzioni degli ambienti, in modo che vi possano essere accolte anche le navi più grandi. Infatti in uno dei rilievi della Colonna Traiana, nel quale è rappresentato un porto con i suoi navalia (non quello di Ancona, come si è creduto in passato) si distinguono nettamente le celle, non più con tetto a due spioventi, ma con volte in muratura e un magazzino oarmamentarium che corrisponde alla u.
Roma, dalla metà del sec. V a. C. fino ad Augusto, non ebbe arsenali così grandiosi come quelli di Atene e di altre città marinare. Le grandi flotte, di cui si ebbe bisogno in occasione di guerre combattute terra marique in periodo repubblicano, non poterono certo essere allestite sulle rive del Tevere, e si raccolsero in qualcuno dei porti romani meglio fortificati. Pozzuoli, per esempio, occupata durante la seconda guerra punica, per la felice postura del suo porto ebbe indubbiamente importantinavalia, che si vorrebbero da alcuni riconoscere in una pittura parietale, proveniente dalla cosiddetta casa del Laberinto di Pompei, e conservata ora nel museo di Napoli (secondo altri si tratterebhe piuttosto dell’arsenale di Miseno).
Sulle rive del Tevere a Ostia, come si ricava da un’iscrizione latina ivi trovata, dovette esserci un arsenale, costruito da L. Celio (L. Coilius) in età repubblicana, restaurato da P. Lucilio Gamala nel sec. II d. C.; si sa che nel 208 a. C. trenta navi furono riparate in Ostia. Si credette di poter riconoscere i navalia di Celio in un gruppo di rovine, prossimo al cosiddetto Palazzo imperiale (che in realtà è un edificio termale), ma è più probahile che esso sia invece un magazzino di grano. Dall’iscrizione di Ostia si ricava che gli arsenali romani si distinguevano inextruendis navibus facta per la costruzione, e in subducendis navibus facta per la conservazione della flotta.
Altri navalia furono nell’interno di Roma stessa: le navi dovevano abbassare gli alberi, e passare fra i piloni dei ponti, prima di giungere ad essi. Nel 332 a. C. esistevano già, poiché sappiamo che la flotta di Anzio fu in parte trasportata nei navali urbani e in parte bruciata. Anche dopo la battaglia di Pidna (168 a. C.) le navi tolte a Perseo, re di Macedonia, furono trasportate a Roma nel Campo Marzio. Al tempo della guerra contro Antioco il Grande, al principio del sec. II a. C., il pretore M. Giunio fu incaricato di riparare e di armare tutte le vecchie navi che si trovavano a Roma.
Quanto all’ubicazione di questi navali di città, i quali sono noti più attraverso le citazioni di antichi autori che per sicuri ritrovamenti archeologici, si sono emesse in passato opinioni diverse e contraddittorie. Finalmente si è riconosciuto che è impossibile riferire tutte le testimonianze ad un solo luogo, e che già al tempo della repubblica esistevano due arsenali diversi sulle rive del Tevere, uno nel Campo Marzio, davanti agli antichi Prata Quintia, all’incirca nella zona compresa fra l’odierno Palazzo Farnese e il fiume, e l’altro più a valle, ai piedi dell’Aventino, presso lo sbocco della Cloaca Massima: questo secondo arsenale, congiunto con l’emporium, si chiamava navale inferius. La più antica testimonianza per i navalia del Campo Marzio è forse un verso di Ennio citato da Servio (Ad Aeneid., XI, 326: ma Ennio due semplicemente campus). Da un passo di Cicerone (De or., I, 14,63) risulta che alla metà del sec. II a. C., Ermodoro, architetto greco, fu incaricato di restaurare inavalia di Roma, ma non sappiamo quali; in età imperiale non se ne fa più menzione.
Di quelli del Campo Marzio non si conservano vestigia. Del navale inferius c’è il ricordo anche nella marmorea Forma Urbis rinvenuta nel Foro e ora nel giardino del Palazzo dei conservatori in Campidoglio: il frammento originale, contenente la pianta di uno spazio circondato da mura su tre lati, con le lettere NAVAL EMFER (navale inferius) è ora perduto, ma conservato in un disegno della Biblioteca Vaticana. Ad esso possono avere appartenuto avanzi di costruzioni in blocchi di tufo, rinvenutisi in tempi diversi nelle vicinanze dello sbocco della Cloaca Massima. A volte i navali funzionarono come prigione: ad es. vi furono rinchiusi gli ostaggi dati dai Cartaginesi al principio della terza guerra punica.
L’importanza degli arsenali di Roma va diminuendo man mano che sorgono e si sviluppano i grandi porti di Claudio e di Traiano alla destra della foce del Tevere; nelnavale inferius, trasformato in una specie di museo, Procopio poté vedere la nave con la quale Enea approdò alle coste d’Italia. Questa trasformazione dell’arsenale in museo dovette essere non infrequente: Augusto dopo la hattaglia di Azio fondò unneorion sacro, nel quale furono esposti esemplari di tutte le navi tolte al nemico: presto l’edificio rimase distrutto da un incendio.
Pur avendo fatto di Miseno la stazione navale per la flotta romana del Tirreno, Augusto concepì il disegno di scavare un grande porto marittimo, commerciale e militare a Ostia, idea già vagheggiata da Cesare. Il porto fu poi costruito da Claudio e inaugurato da Nerone nel 54 d. C., ed ebbe certamente grandiosi navalia. Traiano fra il 100 e il 106 fu costretto a ingrandire il porto di Claudio, aggiungendo un bacino completamente nuovo, in forma di esagono, e scavando un canale di comunicazione fra questo e il fiume (l’odierno Fiumicino, ramo destro del delta del Tevere). I navali del porto traianeo sono riprodotti nel rovescio di molte monete del tempo, ma queste immagini per le loro proporzioni minuscole non possono dare che idee molto vaghe dei particolari architettonici. Recenti lavori di bonifica agricola a Fiumicino e il taglio di un nuovo canale per riportare le acque del Tevere nell’antico porto di Traiano, hanno facilitato lo studio di esso; tuttavia non essendosi potuti eseguire veri e proprî scavi archeologici, non si son fatte nuove constatazioni sulla costruzione dei navalia. Non è improbabile che alcuni dei molti edifici a lunghe serie di celle, segnati nelle piante topografiche del porto di Traiano come horrea facenti parte dell’emporio, possano un giorno essere riconosciuti come veri e propri navali romani.
Bibl.: M. Besnier, s. v. navalia, in Daremberg e Saglio, Dictionn. des Antiquités grecques et romaines, IV, p. 17 segg.; E. Saglio, s. v. Armamentarium, ibid., I, p. 431 segg.; Pauly-Wissowa, Real-Encycl. der class. Altertumswiss., s. v. Karthago, col. 2182 segg.; J. Schubring, Ein Beitrag zur Stadtgeschichte von Syrakus, inRheinisches Museum, n. s., XX (1865), p. 22 segg.; W. Judeich, Topographie von Athen, in I. Müller, Handbuch d. klass. Altertumsw., Monaco 1913, p. 384 segg. Per Eniade, v. American Journal of Archaeology, 1904, p. 227 segg.; A. S. Georgiadis,Les Ports de la Grèce dans l’Antiquité (1907), H. Jordan e Chr. Huelsen,Topographie der Stadt Rom im Alterthum, I, 3ª ed., Berlino 1907, pp. 143 segg., 485 segg. – Per i navalia di L. Celio a Ostia, v. J. Carcopino, Les Inscriptions Gamaléennes, in Mélanges École franç. de Rome, 1911; W. Marstrand, Arsenalet i Piraeus og oldtigens byggereregler, Copenaghen 1922; K. Lehmann e Hartleben,Die Antiken Hafenanlagen des Mittelmeeres, Lipsia 1923 (Klio, Beiheft XIV), con un catalogo alfabetico degli antichi porti: a p. 185, n. 6 bibliografia per il porto di Traiano; G. Calza, Ricognizioni topografiche nel porto di Traiano, in Notizie degli scavi, 1925, p. 54 segg.; E. Breccia, Cenni storici sui porti di Alessandria dalle origini ai nostri giorni, in Bulletin de la Société Archéol. d’Alexandrie, XXI (1925), pp. 3-26, 154-155.
Gli arsenali nel Medioevo e nell’età moderna.
I primi arsenali militari marittimi costruiti in Europa nel Medioevo furono quelli che le nostre repubbliche marinare dovettero allestire per potervi fabbricare, armare e riparare le navi alle quali era affidata la loro potenza.
Di questi stabilimenti ci sono rimaste notizie, descrizioni e, per alcuni di essi, anche resti piuttosto cospicui che ci permettono, per quanto modificati in epoche posteriori, di farci un’idea chiara dell’importanza e della funzione di tali costruzioni.
Analogamente a quelli moderni, gli arsenali medievali erano costituiti da un complesso di bacini o darsene, sulle cui banchine erano sistemati scali – coperti o no -, officine, magazzini, fabbriche d’armi, uffici e altre costruzioni. L’insieme era cinto da mura dove si aprivano in genere solamente due aperture: la porta donde transitavano i navigli e quella verso terra, destinata al passaggio delle persone e dei materiali.
Se dell’arsenale amalfitano non ci è rimasto altro che due scali coperti, di quello genovese ci sono restate solamente delle notizie, tra le quali quella della data di costruzione nel sec. XIII e il nome dell’architetto, il genovese Boccanegra.
Dell’arsenale pisano abbiamo alcuni resti seminascosti, deturpati e parzialmente interrati, ma sufficienti a darci un’idea abbastanza chiara dello stabilimento, soprattutto se studiati col sussidio di notizie storiche e con quello della descrizione e dei rilievi che di essi ci ha lasciato l’architetto francese Rohault de Fleury, il quale li studiò nella seconda metà del secolo scorso, quando erano meglio conservati.
L’arsenale di Pisa sorgeva sulla riva destra dell’Arno, presso la città, ed era circondato da mura munite di torri a custodia dei punti più importanti, tra i quali lo sbocco del Ponte a mare. Aveva questo ponte la testata sulla riva sinistra del fiume difesa da un castelletto, mentre quella sulla riva destra era compresa tra una fortezza, nella quale si ergeva l’alta torre detta Guelfa che esiste tuttora, e la porta d’ingresso verso terra dell’arsenale; munita, questa, di antiporto e forse di ponte levatoio, se, come è probabile, un fossato cingeva l’intero stabilimento dalla parte di terra. Nel tratto di mura che guarda a mezzogiorno, un poco più a ponente della fortezza, esiste tuttora, per quanto in parte interrata, la porta per la quale le galee entravano dal fiume nelle due darsene. Sulle banchine si affacciavano, secondo la testimonianza del Rohault de Fleury, due gruppi di scali coperti (complessivamente una trentina) che avevano una struttura ad archi trasversali e longitudinali e direzione obliqua rispetto ai bacini. Questo particolare costruttivo si spiega con la difficoltà di varo delle galee per la ristrettezza delle darsene; mentre la larghezza media degli scali (il minore di 9 m.) ci fa pensare alle modeste dimensioni delle galee stesse. Più a oriente delle costruzioni descritte precedentemente e che si possono far risalire ai secoli XIII e XIV, sono ancora conservati otto grandi capannoni in laterizio che si affacciano sull’Arno con un motivo di grandi archi poggianti su pilastri decorati da mascheroni marmorei. Tali fabbricati costituivano l’arsenale mediceo, dell’Ordine dei Cavalieri di S. Stefano, che venne costruito nel 1588.
Più interessante dei precedenti per la parte monumentale ancora esistente, per la sua vastità e per l’importanza storica è certamente l’arsenale di Venezia. La Repubblica veneta ebbe in questo gigantesco stabilimento, che essa costruì nel 1104, doge Ordelaffo Falier, uno strumento formidabile della sua prosperità.
Intorno alla primitiva piccola darsena, scavata fra le due isolette dette le Gemelle e comunicante per mezzo di un canale col bacino di S. Marco, venne successivamente costruita tutta una serie di opere che resero ben presto l’arsenale di Venezia uno stabilimento occupante, come anche attualmente, ben 32 ettari circa di superficie all’estremità orientale della città. Febbrile vi dovette essere il lavoro in alcune epoche. Così da occupare 16.000 operai e da suscitare nell’animo di Dante, che visitò spesso Venezia, l’ultima volta come ambasciatore di Guido da Polenta, l’impressione di cui son eco le celebri terzine del XXI dell’Inferno:
Quale nell’arzanà de’ Viniziani
Bolle l’inverno la tenace pece
A. rimpalmar li legni lor non sani….
Ai primitivi due accessi, quello marittimo e quello terrestre, situati tutt’e due dalla parte più antica dello stabilimento, ne venne aggiunto un terzo nel 1473 nel lato di levante, mettendo in comunicazione diretta la laguna con la parte dell’arsenale allora costruita, allo scopo di assicurare un comodo rifugio alle galee già pronte o in attesa di essere riparate. Quest’ingresso, chiuso al principio del secolo XVI, venne riaperto sotto il dominio napoleonico per poter permettere l’accesso all’arsenale dei potenti vascelli di quell’epoca e ricevette allora il nome di Porta Nuova di Mare. I due ingressi marittimi potevano essere sbarrati da cancelli di legno ed erano difesi da torri. Architettonicamente molto importante è l’ingresso terrestre, ricco portale ad arco, inquadrato da due coppie di colonne con capitelli bizantini e sul quale posa un’edicola a timpano recante in bassorilievo il leone di S. Marco. Questa bella opera architettonica venne eretta sotto il dogato di Pasquale Malipiero (1460) ed è attribuita da taluno al veronese fra’ Giocondo, da altri ad Antonio Gambello.
Dopo la vittoria di Lepanto (1571) si conferì a questo portale il valore di monumento commemorativo arricchendolo con vittorie alate, con trofei e con la statua di S. Giustina, nella cui ricorrenza (7 ottobre) era avvenuta la battaglia. Tale carattere di arco trionfale dato al monumento venne accentuato collocando attorno alla cancellata che lo ricinge alcune sculture greche di varie epoche, raffiguranti leoni e che erano state portate a Venezia, come bottino di guerra, in più volte, e specialmente da Francesco Morosini dopo la riconquista della Morea (1687).
Nell’interno dell’arsenale si conservano ancora alcuni degli antichi scali, alcune tettoie acquatiche (tra le quali, importanti, quelle cinquecentesche delle Gagiandrecioè “tartarughe” destinate al completamento delle galee già varate), la Tana oCasa del Canevo, lo scalo per la custodia del Bucintoro e l’ampio locale, lungo 150 metri, costruito verso la metà del sec. XVIII da Giuseppe Scalfarotto e destinato agli squadratori delle grandi ossature di navi. La Tana (così chiamata da Tanai, antico nome del fiume Don, alle cui bocche i Veneziani avevano gli stabilimenti commerciali che procuravano loro la canapa necessaria per la marina), ambiente destinato alla costruzione dei cordami e alla conservazione delle canape, venne ricostruita, al posto d’una più antica (1304), tra il I579 e il 1583, da Antonio da Ponte, l’architetto del Ponte di Rialto. Essa era un unico grandioso locale, lungo metri 316 e largo oltre 20, alto quasi altrettanto e diviso in tre navate da 84 colonne con capitelli dorici. Ora la Tana è suddivisa da tramezzi in varî magazzini.
Per la custodia del Bucintoro, il famoso naviglio riccamente adorno che la Repubblica usava nelle occasioni solenni, venne elevato tra il 1544 e il 1547, su disegno di Michele Sammicheli, veronese, un ampio locale con facciata di semplice e maschia architettura.
L’introduzione e il rapido aumentare dell’impiego delle armi da fuoco indussero ben presto le autorità della repubblica veneta a far confezionare e conservare in appositi reparti dell’arsenale sia le armi stesse sia le polveri e i proiettili. Alcuni gravi incendî, che avvennero al principio del sec. XVI nei locali dove si confezionavano e conservavano Je polveri, indussero il senato veneto ad allontanare dall’arsenale i servizî pirotecnici, conservando solamente quelli che non presentassero pericoli per l’incolumità dello stabilimento. Tra essi, quello importante della fusione delle artiglierie in bronzo, affidato per più che quattro secoli alla famiglia Alberghetti.
Le armi da fuoco e le munizioni furono allora conservate nelle Nuove sale d’armi, nel Parco delle bombarde e in altre parti dell’arsenale. Nel 1772 venne istituito un Museo d’artiglieria, il quale accolse le armi fuori uso. che avevano un notevole valore artistico.
L’arsenale di Venezia era governato da due magistrati ambedue temporanei, l’uno detto dei sopravveditori e l’altro dei provveditori o patroni; i primi erano senatori, i secondi patrizî: queste due magistrature unite si chiamavano eccellentissima banca. I sopravveditori avevano potestà civile e penale su tutte le persone impiegate nell’arsenale; essi invigilavano gli atti dei patroni, dai quali dipendeva l’ammiraglio dell’arsenale, che sopraintendeva alle costruzioni, riparazioni e armamenti, avendo sotto di sé il primo architetto navale, e anche alle opere idrauliche per l’arsenale. Alla dipendenza di quest’ultimo era pure il capitano dell’arsenale, che aveva incarico di polizia. Le costruzioni navali erano comandate dal senato e intraprese e dirette dai seguenti tecnici: un primo architetto navale, un secondo architetto navale, un aiutante del primo architetto, otto architetti costruttori, sei sottoarchitetti costruttori, quattro aiutanti di sottoarchitetti, otto primi aiutanti delle compagnie, otto secondi aiutanti delle compagnie, otto terzi aiutanti delle compagnie. Ogni ramo d’arte aveva i suoi capi d’opera o proti, i maestri, un certo numero di operai di varie classi e i garzoni. Tutti gli operai erano militarmente ordinati e denominati arsenalotti con impiego a vita trasferibile ai figli.
L’arsenale di Venezia fu utilizzato pure come arsenale della marina del regno d’Italia sotto Napoleone (1805-14). Indi subentrò l’Austria la quale, nel 1849, preferendo a Venezia Pola, vi intraprese la costruzione dell’arsenale, che divenne poi uno dei migliori e più efficienti arsenali d’Europa e passò, nel 1918 all’Italia, la quale però dopo pochi anni ne cedette molte parti e lo ridusse per il rimanente a semplice base navale.
I diversi stati, in cui era divisa prima del Risorgimento la nostra penisola, per lo più bagnati dal mare e con tradizioni marinari militari, oltre che commerciali, avevano ciascuno un proprio arsenale destinato specialmente alla costruzione del naviglio da guerra.
Tali erano per il regno di Sardegna l’arsenale di Villafranca, di cui è cenno fin dal 1750, e l’arsenale di Genova alla Darsena, dove nel 1851 fu inaugurato il primo bacino di carenaggio in muratura
La marina pontificia aveva il suo arsenale a Civitavecchia, eretto nel 1665 da Alessandro VII per opera del Bernini sotto l’ultimo bastione della fortezza fatta costruire da Giulio II: era costituito da sei cantieri o navate, alti e spaziosi tanto da poter contenere una galera in costruzione, oltre al deposito di tutti i materiali e alle necessarie officine. I sei cantieri erano a due a due accoppiati , per modo d’avere un unico piano, di varo; i tre piani di varo costituivano i tre lati di un esagono. L’edificio prospettava sulla rada con una serie di arcate divise da lesene.
La marina napoletana aveva l’arsenale di Napoli, eretto nel 577 dal viceré Mendoza (regnante in Spagna Filippo II d’Asburgo); ultimato verso il 1600, fu poi ampliato da Carlo di Borbone. Nel 1780, sotto Ferdinando IV di Borbone, Giovanni Edoardo Acton fondò il cantiere di Castellammare.
Sembra che fin dal 1808 Napoleone avesse avuto l’idea di trasferire alla Spezia, ingrandendoli, gli stabilimenti marittimi avuti da Genova; ma il primo progetto di legge per il trasferimento della marina miilitare da Genova alla Spezia fu presentato da Cavour alla Camera il 3 febbraio 1851, avendo egli l’intenzione di creare un nuovo porto militare alla Spezia e costruire invece a Genova alla Darsena, dove in quell’anno si apriva il primo bacino di carenaggio, un vasto deposito franco per il crescente movimento del naviglio mercantile. Altro progetto di legge fu presentato da Cavour il 28 febbraio 1857 per il trasferimento della marina militare da Genova alla Spezia e precisamente nel seno del Varignano: questo progetto, dopo aspre lotte al senato, divenne legge il 4 luglio successivo e poco dopo furono iniziati i lavori al Varignano. Un’altra legge dell’11 ottobre 1859 assegnava i fondi per la costruzione d’un arsenale militare marittimo nel golfo della Spezia. Finalmente venne la legge 18 luglio 1861, preparata ancora dal Cavour, e presentata alla camera il 12 giugno 1861 poco dopo la sua morte, la quale concedeva un fondo straordinario di 36 milioni, ripartito in sei esercizî fino al 1866, per la costruzione di un arsenale militare marittimo fra la città di Spezia e l’abitato di San Vito: il progetto dell’arsenale era già stato studiato da Domenico Chiodo e i lavori furono subito iniziati sotto la sua direzione.
Avviata a buon fine la sistemazione dell’arsenale della Spezia, il nuovo regno d’Italia, non appena annesse le provincie meridionali, doveva pensare alla costituzione d’un altro arsenale per queste provincie, che formavano il secondo dipartimento marittimo: la commissione nominata nel 1864 per scegliere la località più adatta a tale arsenale portò nell’anno successivo la sua scelta su Taranto che offriva alcuni vantaggi, non ultimo quello di poter essere facilmente protetto dalla parte del mare. Il primo progetto del nuovo arsenale, che ebbe poi diversi rimaneggiamenti, fu presentato nel marzo 1869: in base ad esso dal 1871 in poi vennero sottomesse al parlamento diverse proposte di legge per l’attuazione delle opere. I lavori per il primo impianto dell’arsenale furono approvati con legge 29 giugno 1882 e vennero subito dopo iniziati. Il primo bacino di carenaggio in muratura fu inaugurato il 7 giugno 1889.
L’arsenale di Napoli, ereditato dalla marina napoletana, fu impiegato ancora per molti anni, ma dopo la guerra europea, per la necessità di ridurre le spese generali degli arsenali, concentrando in poche sedi i lavori della flotta, fu dapprima ridotto a semplice base navale e quindi soppresso definitivamente nel 1927.
Cosi la marina militare italiana possiede ora i due arsenali della Spezia e di Taranto in efficienza e quello di Venezia in potenza, oltre al cantiere di Castellammare e a un certo numero di basi navali. L’arsenale della Spezia occupa una superficie di 1.200.000 mq. e impiega 378 operai permanenti e 5400 operai temporanei; quello di Taranto occupa una superficie di 680.000 mq. e impiega 179 operai permanenti e 3850 operai temporanei. Per l’uno e per l’altro occorre ancora tener conto degli operai impiegati dalle direzioni del munizionamento, aventi sede al di fuori dell’arsenale, che sono 68 permanenti e 1120 temporanei alla Spezia e 23 permanenti e 380 temporanei a Taranto.
Non tutte le nazioni estere che posseggono una marina militare hanno anche proprî arsenali. Riportiamo qui di seguito l’elenco degli arsenali facendo rilevare che la loro importanza relativa dipende essenzialmente dall’importanza della flotta cui devono servire. Argentina: Buenos Aires, Puerto Militar (Bahía Blanca), Río Santiago;Ausnalia: Cockatoo Island; Brasike: Rio de Janeiro; Chile: Punta Arenas, Talcahuano, Valparaiso; Danimarca: Copenaghen; Francia, in patria: Brest, Cherbourg, Lorient, Tolone; nelle colonie: Biserta (Sidi Bel Abbes); Germania: Wilhelmshafen; Giappone: Kure, Maizuru, Sasebo, Yokosuka; Grecia: Salamina;Inghilterra, in patria: Chatham, Devonport, Portsmouth, Rosyth, Sheerness; nelle colonie: Bermude, Città del Capo, Gibilterra, Hong Kong, Malta, Singapore;Iugoslavia: Teodo; Norvegia: Horten; Olanda: Amsterdam; Perù: Callao; Polonia: Gdynia, Portogallo: Lisbona; Romania: Galaţi; Russia: Kronstadt, Sebastopoli;Spagna: Ferrol; Stati Uniti, sull’Atlantico: Boston Mass., Brooklyn N. Y., Charleston S. C., Norfolk Va., Philadelphia Pa. (League Island), Portsmouth N. H., Washington D. C. (per la costruzione delle artiglierie); sul Pacifico: Mare Island Cal., Pearl Harbour Hawaii, Puget Sound Wash.; Svezia: Karlskrona; Uruguay: Montevideo.
Oltre ai marittimi dobbiamo ricordare gli arsenali terrestri, stabilimenti adibiti alla fabbricazione e conservazione delle armi da fuoco e degli altri attrezzi militari degli eserciti. Sono notevoli fra questi, oltre che per la loro importanza storico-militare, anche per il valore architettonico degli edifici in sé stessi, gli arsenali di Berlino e di Torino. L’arsenale di Berlino (Zeughaus) venne fatto costruire tra il 1694 e il 1706 dall’ultimo elettore del Brandeburgo, Federico III, che nel 1701 col nome di Federico I, divenne il primo re di Prussia. Il grandioso edificio (occupante un quadrato di 90 metri di lato con un grande cortile centrale) venne eretto probabilmente su disegni dell’architetto francese Francesco Blondel, dapprima sotto la direzione del Nering, poi sotto quella d’un altro francese, Jean de Bodt. Tanto la facciata, a due piani con un corpo centrale sporgente e con trofei d’armi sulla balaustrata terminale, quanto il cortile, decorato con maschere di guerrieri morenti, opere di Andrea Schlüter (1664-1714), come anche la decorazione di alcune sale, celebri quelle dei sovrani e dei generali, fanno di questo edificio una delle opere più interessanti dell’architettura berlinese dell’epoca e anche, per la robustezza e solennità delle linee, uno degli esempî più caratteristici di tal genere di fabbricati.
L’arsenale di Torino, edificio grandioso con due cortili e dall’architettura un poco massiccia, venne iniziato nel 1659 da Carlo Emanuele II, continuato da Vittorio Amedeo II, modificato da Carlo Emanuele III su disegni del Devincenti e terminato nella facciata all’angolo di via Arsenale, solamente nel 1890. L’arsenale torinese fu centro attivo nella costruzione di artiglierie in bronzo e in ferro, sia per i duchi di Savoia sia per i re di Sardegna; esso ebbe parte importante nelle guerre per l’unità italiana quando fu sotto la direzione del celebre costruttore di artiglierie generale Cavalli, e perfino nell’ultima guerra.
Bibl.: G. Rohault de Fleury, La Toscane au Moyen-âge, II, Parigi 1873, p. 10;Guida per l’arsenale di Venezia, Venezia 1829; M. Nani Mocenigo, L’arsenale di Venezia, in Rivista marittima, allegato al fasc. di aprile 1927; R. Ronzani, G. Luciolli e D. Dianoux, Les Monuments de Michel Sammicheli, Genova 1878, p. 89.
Organizzazione degli arsenali moderni.
Impianti. – Negli arsenali moderni troviamo sempre una o più darsene circondate dalle officine, le quali a loro volta sono separate dalle darsene da una banchina per il traffico del materiale e del personale.
Per facilitare i lavori di riparazione alle navi e l’imbarco dei materiali sarebbe desiderabile che le navi potessero ormeggiare col fianco alla banchina, ma ormai il numero delle navi che devono entrare nelle darsene o per lavori o anche solo per riparo e per facilitare il traffico con la terra è talmente grande e le loro dimensioni talmente aumentate, mentre le darsene, costruite molti anni addietro, hanno uno sviluppo di banchine così limitato, che è ben difficile che le navi possano attraccare di fianco: la quasi totalità è costretta a ormeggiarsi con la poppa alla banchina usando di passerelle o di scalandroni per il traffico e ciò porta l’inconveniente che per la loro lunghezza le prore si avanzano notevolmente entro lo specchio acqueo, riducendo la superficie libera di questo e rendendo così difficoltosi i movimenti delle altre navi che devono entrare e uscire. Queste difficoltà, che hanno tendenza ad aumentare col tempo piuttosto che diminuire, sono particolarmente sentite in quelle darsene in cui si aprono i bacini di carenaggio, specialmente se questi sono atti a ricevere navi molto lunghe. Così, a meno che l’arsenale non possegga diverse darsene, qualcuna delle quali possa essere lasciata completamente sgombra per il traffico delle navi da carenare in bacino, conviene studiare la costruzione dei bacini al di fuori delle darsene, anche se questo porti alla necessità di aumentare in modo sensibile l’importanza dell’officina che si deve creare in vicinanza dei bacini per i lavori di riparazione alle navi in bacino: quest’officina è detta di solito officina mista, perché raccoglie diverse categorie di mestieri per i lavori diversi di piccola mole che occorrono d’urgenza alle navi, le quali di solito si tengono in bacino il minor tempo possibile, essendo sempre assai numerose quelle che attendono il loro turno d’immissione. I lavori di più grossa mole vengono fatti invece nelle officine maggiori più particolarmeme attrezzate.
Compiti essenziali di un arsenale marittimo sono la costruzione e la riparazione delle navi: perciò la sua attività e la sua organizzazione devono essere sviluppate intorno a due centri principali di lavoro, cioè gli scali di costruzione e i bacini di carenaggio con le darsene di raddobbo. Questo per la fronte a mare, per la fronte a terra è sufficiente pensare al traffico del personale e ai collegamenti ferroviarî per l’introduzione dei materiali provenienti per via di terra e occorrenti per i lavori. Oltre gli scali di costruzione, e in loro vicinanza, vi possono essere anche uno o pihscali di aiaggio che servono per tirare a terra e riparare naviglio di limitate dimensioni senza ingombrare i bacini (v. anche bacino).
Attorno a questi due centri di lavoro si sviluppano tutti gli altri servizî che enumeriamo:
Centrali di produzione (con relative reti di distribuzione agli utenti): per energia elettrica per forza e per illuminazione; per aria compressa per utensili pneumatici, per forza idraulica per impianti idraulici (gru, presse, magli, ecc.); per ossigeno occorrente nei lavori di saldatura autogena; per acqua distillata per il servizio delle caldaie a tubi di acqua sulle navi. Centrali per prosciugamento dei bacini, ordinariamente con motori elettrici alimentati dalla rete di distribuzione principale. (Le centrali più importanti hanno proprî generatori di corrente per far fronte a eventuali interruzioni della linea principale). Stazioni per la carica degli accumulatori dei sommergibili.
Officine: carpentieri in ferro con reparti per fucinatura di verghe e lavorazione a macchina e con annessa sala a tracciare; carpentieri in legno con reparti calafati e per riparazione degli scafi delle imbarcazioni in legno; congegnatori con reparti per artiglierie; fabbri con reparti per la zincatura; fonditori con reparti modellisti; calderai con reparti tubisti e ramai; elettricisti con reparti per radiotelegrafia, telegrafi e telefoni; siluristi e torpedinieri; proiettili e bossoli; pirotecnici; segheria; attrezzatori; velai; pittori; mista per il servizio dei bacini.
Depositi e magazzini: piazzale per lamiere e profilati in vicinanza degli scali e dell’officina dei carpentieri in ferro; deposito degli avantiscali; tettoie per il legname; magazzino generale; magazzino per pezzi di rispetto degli apparati motori; magazzino di materiale elettrico; magazzino di modelli per la fonderia; parchi di artiglierie; parchi di ancore e catene; parchi per torpedini; parchi di paramine; parchi di reti per ostruzioni; depositi di siluri; magazzini coperti per deposito d’imbarcazioni; magazzini viveri; magazzini vestiario; depositi di carbone con pontili d’approdo per imbarco e sbarco; depositi di combustibili liquidi (nafta, benzina) con relativi pontili d’approdo; depositi di olî lubrificanti; depositi di bombole metalliche; depositi di pitture e di analoghe sostanze infiammabili depositi per oggetti dismessi in attesa di demolizione e vendita; depositi di rottami; deposito di rifiuti con relativo impianto di smaltimento; deposito per locomotive e gru spostabili su binarî a scartamento ferroviario; rimessa per automobili e camions; magazzini di ricezione delle merci introdotte nell’arsenale dal retroterra; magazzini per la merce in arrivo e partenza per via di mare; banchine per il deposito e la riparazione di galleggianti diversi d’arsenale.
A questi occorre poi aggiungere una serie di altri impianti, i quali, pur non essendo strettamente legati col servizio di un arsenale, sono assai spesso, tutti o in parte, inclusi in esso costituendo delle utili integrazioni al complesso dei lavori che vi si svolgono. Tali sono per esempio: vasca per esperienze di architettura navale; laboratorio per prove di materiali e per esperimenti diversi; laboratorio ottico; laboratorio per analisi chimiche; laboratorio per elettricità; tipografia con annessa legatoria; cianografia ed eliografia.
Abbiamo accennato sin qui solamente alle sistemazioni riguardanti il materiale, e dobbiamo ora occuparci del personale e delle sistemazioni a esso relative, tanto per il personale dirigente e per gli uffici quanto per il personale militare e operaio. Gli uffici devono comprendere quelli del comando e quelli delle direzioni dei lavori. Per il personale operaio occorre disporre di spogliatoi e di docce comuni, oltre quelle particolari che insieme con altre provvidenze igieniche devono essere predisposte per alcune categorie della maestranza, come a esempio i pittori; inoltre di un refettorio, dove il personale possa consumare i suoi pasti ed eventualmente provvedere all’acquisto di qualche cibo caldo, e d’impianti sanitarî igienici, aereati, con abbondante acqua, distribuiti opportunamente.
Per il personale militare occorre distinguere fra quello che può alloggiare a bordo delle navi e l’altro che non ha tale possibilità o perché le navi non lo consentono per costruzione (sommergibili) o perché sono in grandi riparazioni: e allora occorrono caserme. Non dovrebbero essere trascurati i mezzi per raccogliere il personale militare in ambiente confortevole per allontanarlo dalle malsane attrattive della città: così dovrebbero trovarsi sempre entro il recinto dell’arsenale un circolo per sottufficiali e sale di lettura per i marinai con locali per proiezioni cinematografiche. Né dovrebbe trascurarsi di trovare il terreno per un campo sportivo.
Nel far l’esame delle esigenze varie a cui deve soddisfare dal punto di vista materiale un arsenale moderno nulla si è detto di proposito sul migliore raggruppamento delle varie officine e dei magazzini e depositi nei riguardi dei due centri principali di lavoro (scali e bacini) ai quali abbiamo accennato in principio: è questo un argomento che richiederebbe una trattazione troppo estesa, mentre d’altra parte il problema che esso importa, cioè lo studio della pianta di un arsenale, deve dipendere nella sua soluzione prima di tutto dalla località disponibile per l’impianto dell’arsenale e dalla posizione degli scali e dei bacini che nella maggior parte dei casi è obbligata, a causa della configurazione del terreno. Del resto al giorno d’oggi non ci si trova più nel caso di dover studiare a nuovo un arsenale altro che in casi rarissimi, ad es. l’arsenale di Singapore che gl’Inglesi stanno ora costruendo nella Penisola Malacca; per gli arsenali già esistenti, i quali (hanno adattato i servizî varî alle esigenze della distribuzione già effettuata delle officine, il problema d’un rimaneggiamento di queste per soddisfare in modo migliore alle esigenze dei lavori, mentre può avere dal punto di vista tecnico più di una soluzione buona, si troverebbe spesso praticamente insolubile per ragioni economiche, poiché le spese dirette e indirette che ci vorrebbero, difficilmente potrebbero essere compensate da un vantaggio effettivo valutato in migliore rendimento economico del lavoro, anche se distribuite in un lungo numero d’anni. Così si può dire che presentemente non si pongono nemmeno problemi di tale natura; le esigenze che si vengono a manifestare in alcuni rami del servizio sono di solito soddisfatte con rimaneggiamenti parziali, dei quali non si va però mai a valutare il rendimento economico, che risulterebbe nella maggior parte dei casi assai basso.
Organizzazione. – I sistemi di organizzazione degli arsenali variano da paese a paese secondo i concetti che hanno prevalso a volta a volta in ciascuno di essi, ma occorre premettere a questo esame che purtroppo, trattandosi di organismi militari, spesso, e specialmente da noi, la loro organizzazione è più intesa a soddisfare certe esigenze di dipendenza gerarchica di corpi militari e a mantenere vecchie tradizioni non più giustificate dalla pratica moderna, che a costituire un ente, il quale, pur soddisfacendo alle necessità particolari derivanti dal mantenimento in efficienza della flotta e dei diversi servizi logistici d’una piazza marittima, tenda ad avere carattere industriale e a svolgere quindi in modo economico i lavori che gli vengono affidati. Questa è una delle ragioni per cui oramai è pacifico che agli arsenali nostri vengono lasciati soltanto lavori di manutenzione e di riparazione al naviglio militare, per i quali sono più indicati a motivo dell’elasticità con la quale vi possono soddisfare, e sono state praticamente tolte le nuove costruzioni, che vengono quasi del tutto assorbite dall’industria privata. Una delle ragioni più importanti di questo passaggio delle nuove costruzioni ai cantieri privati sta però nel fattore politico di distribuzione del lavoro alle diverse regioni e nella necessità di mantenere cantieri e maestranze attrezzati a costruire naviglio militare per utilizzarli in pieno in tempo di guerra.
Riportiamo nei diagrammi la distribuzione schematica della organizzazione d’un arsenale italiano, d’un arsenale francese, di un arsenale inglese e di due tipici arsenali americani. Si osserva che negli Stati Uniti la distribuzione e la denominazione degli uffici varia, si può dire, da arsenale ad arsenale; sono indicate quindi le organizzazioni di quello di Puget Sound Wash., che si può dire uno dei più moderni, e di quello di Brooklyn N. Y.
Lo studio approfondito e dettagliato di queste diverse organizzazioni ci porterebbe molto oltre, anche perché esso richiederebbe in primo luogo un esame comparativo della composizione e delle attribuzioni dei varî corpi militari nelle diverse marine. Ma possiamo affermare che un’efficace organizzazione industriale e un buon rendimento economico d’un arsenale non si può avere senza una direzione unica affidata a un tecnico; il comando militare dell’arsenale non sarebbe in nulla menomato nella sua funzione e nel suo prestigio, qualora fosse reso estraneo a tutto il funzionamento tecnico e amministrativo dei lavori e si limitasse all’impiego dei mezzi logistici, alla sorveglianza militare. dello stabilimento, alla vigilanza sui movimenti delle navi negli specchi acquei delle darsene, all’ispezione sulle caserme, campi sportivi, circoli per sottufficiali e marinai e in genere su tutti i servizî di carattere militare esistenti nello stabilimento. Il comandante dell’arsenale, così come è da noi costituito, ha solo un’apparenza di comando, quando lo si confronti con i comandi di carattere militare, più consoni alla natura e alla preparazione degli ufficiali di vascello, nei quali comandi veramente questi possono esplicare le loro qualità peculiari affinate dal lungo esercizio e rafforzate dal sentimento della responsabilità: in molte cose presentemente un comandante di arsenale, il quale abbia un equilibrato sentimento della posizione che occupa, è costretto a prendere solo atto di quanto dispongono i direttori dei lavori che da lui dipendono e, se è pur vero che con la distribuzione attuale delle direzioni dei lavori è logico che vi sia un’autorità, la quale tutte le assommi e le coordini, anche per soddisfare a un’impellente necessità di armonia organizzativa, pure non è meno evidente agli occhi di chiunque non sia digiuno di organizzazione industriale, che un rendimento economico e un sano sviluppo industriale degli arsenali non si possono avere se non si concentri sotto un’unica direzione tecnica tutto il servizio delle officine, dei lavori e degli approvvigionamenti. Questi concetti sono stati più d’una volta affermati anche in Inghilterra da commissioni incaricate appunto dello studio specifico del problema degli arsenali, ma anche in quel paese non hanno trovato fino ad ora completa applicazione. Nei nostri arsenali i direttori dei lavori hanno il grado di colonnello ed esercitano le loro funzioni coadiuvati dal vicedirettore, che ha normalmente l’incarico diretto del personale e degli approvvigionamenti, e da un certo numero di ufficiali tecnici dello stesso corpo per la direzione delle officine e dei lavori e da ufficiali del corpo di commissariato per la parte amministrativa. Alla dipendenza degli ufficiali tecnici sono i capi tecnici, i quali si occupano direttamente dell’esecuzione dei lavori in officina col titolo di capo-officina e a bordo delle navi. Sotto i capi tecnici è distribuito il personale operaio, costituito da operai permanenti e cioè non soggetti a licenziamenti che in determinate condizioni, e da operai temporanei, per i quali il contratto di lavoro ha durata varia, ma non mai superiore a un anno, per quanto rinnovabile. Fra gli operai permanenti sono scelti i capi operai, ai quali viene affidata la sorveglianza e direzione di lavori di particolare importanza. Oltre agli operai temporanei si hanno anche i giornalieri, assunti volta a volta per determinati lavori. (V. Tavv. CXXXVII-CXXXVIII).
PERSONAGGI ILLUSTRI NATI A TARANTO
Archita |
Nato a Taranto intorno al 430 a.c. fu filosofo, uomo politico, matematico ed inventore; un genio versatile e grande come l’epoca in cui visse. Lo testimoniano esplicitamente Platone, Aristotele, Cicerone ed Orazio, i sommi esponenti della classicità greco-romana.
Archita era un seguace della filosofia pitagorica, che riconosceva nel numero il principio e l’essenza prima della realtà. Pitagora, oriundo di Samo, si era stanziato a Crotone, fondandovi una scuola filosofica, i cui membri erano legati da severe norme morali e religiose. Essi professavano la metempsicosi, dottrina diffusa più tardi da Platone, secondo la quale le anime degli esseri sono immortali e perciò, al deperire del corpo in cui si trovano, per un comando divino che le tiene segregate dal mondo incorruttibile, sono costrette ad emigrare in quello di un altro essere; così la trasmigrazione si ripete fino a che l’anima non abbia conquistato, con la schiavitù corporea, una completa purificazione.
Archita, dapprima discepolo di Pitagora a Crotone, ne divenne amico e lo ospitò per un certo tempo in Taranto, quando la scuola del saggio maestro fu distrutta per ragioni politiche.
Archita ideò le più ardite macchine del suo tempo e ne perfezionò altre già esistenti.Inventò la vite dei frantoi per pigiare le olive; la spola per le tessiture, e persino un lontano progenitore dei nostri aeroplani: un apparecchio a forma di volatile, capace di muoversi e di star sospeso nell’aria per breve tempo. Coll’ausilio del suo sapere matematico perfezionò il flauto e la tibia, strumenti musicali a fiato assai in uso a quei tempi; architettò inoltre un apparecchio che meccanicamente produceva melodie diverse, come un romantico carillon.
La sua vita si concluse tragicamente. Esiliato dalla sua patria per le calunnie dei rivali, errò per terre straniere e finì nelle mani dei pirati, che lo posero alle catene. Dopo varie peripezie ottenne la libertà e, mentre su una nave si dirigeva alla cara Taranto, naufragò nei pressi del Gargano (seconda met・à circa del IV secolo); il suo corpo, in balia delle onde, fu abbandonato sulla spiaggia di Matina, nei pressi dell’odierna Mattinata (Foggia). |
Giovanni Paisiello |
L’Anfione tarantino, come venne grecamente soprannominato Giovanni Paisiello, nacque a Taranto nel 1740 da un umile fabbro ferraio. Dotato di grande inclinazione per la musica, studiò diversi anni a Napoli nelConservatorio Sant’Onofrio ed ebbe carriera facile e brillante sin dagli inizi. Già la sua prima opera: Il ciclone, rappresentata a Bologna, ottenne lusinghevoli consensi.
Da allora la sua musica fu ammirata ed applaudita nelle principali corti d’Italia e d’Europa. A Pietroburgo, dove rimase illustre ospite per otto anni, la corte di Caterina II lo idolatrò soprattutto dopo la rappresentazione delBarbiere di Siviglia. Dopo una breve sosta a Vienna, presso Giuseppe II, rientrò a Napoli, dove fu rappresentato per la prima volta, nel 1789, l’opera che rimase il suo capolavoro: Nina lo pazza per amore.
Concluse la sua carriera a Parigi, invitatovi, per la sua fama non mai venuta meno, dall’uomo del nuovo secolo: Napoleone. Il Paisiello, al pari di altri contemporanei, se da una parte si avvicinò solo convenzionalmente alla tragedia, portò indiscutibilmente il suo ossequioso contributo al genere comico. Autore di sinfonie, coltivò anche la musica sacra e da camera, nelle quali, pur mostrando sensibilità nuova, non riuscì tanto grande come nel melodramma. Morì a Napoli nel 1815 e venne tumulato nella chiesa delTerzo Ordine Francescano. |
Lucio Livio Andronico |
Verso il 280 a.c. nacque in Taranto Lucio Livio Andronico, appassionato cultore di letteratura, che, per primo, portò nel mondo romano la passione ed il gusto per la poesia, la tragedia e la commedia. Questi generi letterari, che in Grecia avevano ormai raggiunto espressioni perfette e inimitabili, solo in questi anni incominciavano ad essere conosciuti ed apprezzati dai popoli latini, fino allora dediti esclusivamente alle armi ed al lavoro dei campi.
Ma quando ormai Roma, affermatosi vittoriosamente per mare e per terra, si avviava a divenire una grande potenza, anche il gusto dell’arte ed il desiderio del divertimento trovarono il favore sia delle persone colte che del popolo. Per queste ragioni appunto, lo nobile gente Livia portò con se da Taranto, come un tesoro prezioso, uno schiavo della Magna Grecia, che sapeva quasi a menadito l’opera di Omero e conosceva tutti gli scrittori greci.
Lucio Livio Andronico infatti, giunto a Roma, ed emancipato, divenne un famoso pedagogo in casa dei nobili Livii, dove traduceva per i giovani romani, assetati di sapere, le opere immortali di Omero. Adattava le divinità greche a quelle venerate dai Romani; i nomi dei personaggi prendevano la desinenza latina e il verso greco risuonava un po’ duro e cadenzato nel verso è saturnia latino, che era basato sull’accentuazione e non ancora sulla lunghezza delle sillabe.
Questa traduzione dell’Odissea, rozza ma importante perchè lo prima, è l’unica opera che, pur frammentario, ci rimane dell’attività letteraria di Andronico. Nulla invece, se non nove titoli, ci rimane delle tragedie e delle commedie che, sempre traducendo dal greco, Andronico potè far rappresentare in Roma durante le principali festività religiose. |
San Cataldo |
Monaco erudito del VII secolo, Cataldo divenne vescovo di Rachau e diresse con scienza e saggezza lo grande scuola abbaziale di Lismore. Nell’ultimo periodo della sua vita decise di recarsi in pellegrinaggio a Gerusalemme, ma nel viaggio di ritorno, in seguito ad una visione, si recò a Taranto dove iniziò un’ardente predicazione.
Alla sua morte, le venerate spoglie vennero deposte dai Tarantini, nellaChiesa di San Giovanni in Galilea, racchiuse in un’arca di marmo. Quando, nel 927, i Saraceni rasero al suolo la città anche l’arca di San Cataldo sembrò perduta fra le rovine. Venne rinvenuta soltanto 157 anni più tardi, durante lo ricostruzione della basilica. Una crocetta d’oro, trovata sul suo petto, con l’incisione: ‘Kataldus Ra Chri’, lo fece riconoscere ai Tarantini che ripresero a venerarlo. Oggi l’arca marmorea è offerta al culto dei fedeli nella cripta del Duomo di Taranto. |
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IL MONUMENTO Al MARINAIO DI TARANTO
Il monumento al Marinaio di Taranto è uno dei monumenti del Borgo Nuovo della città. Dedicato ai marinai della Marina Militareitaliana, fu realizzato in bronzo sul corso Due Mari dallo scultore Vittorio Di Cobertaldo nel 1974, per volontà dell’ammiraglio Angelo Iachino, comandante della flotta di stanza a Taranto durante la seconda guerra mondiale, che volle far dono dell’opera alla città che fu teatro della famosa “Notte di Taranto“.
La scultura, che è alta circa sette metri e poggia su di un piedistallo, raffigura due marinai nell’atto di salutare le imbarcazioni che si accingono ad attraversare il canale navigabile che collega il Mar Grande con il Mar Piccolo, levando verso l’alto il tipico berretto con la mano destra. L’opera si integra con l’antica ringhiera del corso Due Mari sulla quale è impressa una stella a cinque punte e lo stemma della Marina dei Savoia, e vuole esprimere il legame tra la città e i marinai della Marina Militare.
Lo scultore che ha realizzato l’ingrandimento dal bozzetto dell’artista Di Cobertaldo, per la realizzazione della fusione in bronzo è stato Paolo Bosio, il lavoro è stato poi fuso nelle Fonderia Catani a Roma, prima di essere trasportato presso il porto di Taranto.
STORIA DELL’AMAT a TARANTO con foto storiche di Nicola Corona
La storia della Mobilità nell’area di Taranto iniziò prima dell’invenzione dell’automobile.
Era il 1885 quando, a seguito della costruzione dell’Arsenale Militare, si rese necessaria l’istituzione di un servizio di trasporto pubblico: erano molti i lavoratori che dalla province di Lecce e di Brindisi si trasferivano nella nostra città, ed in quegli anni i mezzi di trasporto privati erano un lusso per pochi: perfino le biciclette erano rarissime.
I primi omnibus a cavalli destinati ai trasporti pubblici appartenevano alla ditta di Michelino Cacace. Per poter transitare sul Ponte Girevole, la ditta Cacace dovette ricevere particolari autorizzazioni dall’allora regia Marina. Rileggendo i documenti dell’epoca, fa sorridere sapere che non era consentito portare animali da cortile sulle vetture, e che l’accesso non era permesso a chi non fosse vestito in maniera decente.
Tra la fine dell’Ottocento ed i primi anni del Novecento il servizio passò in mano ad altri piccoli imprenditori locali. Il concetto di mobilità andava evolvendosi, grazie alle innovazioni portate dalla rivoluzione industriale. Le carrozze furono sostituite dai primi tram alimentati ad energia elettrica, e le vie della città furono preparate per essere percorse da questi nuovi mezzi: Corso Vittorio Emanuele fu allargato per consentire la posa dei binari; la struttura fu rinforzata con la costruzione di pilastri a mare. La struttura utilizzata ancora oggi è la stessa progettata nel 1918 dall’ingegner Vallecchi.
Nel 1918 venne costruita e registrata a Londra la Società “the Taranto Tramways and Elettric Supply Cp.Ltd”, che in Italia prese il nome di Società Tramvie Elettricità Taranto (STET). Una volta portate a termine le trattative con la regia marina per il transito dei mezzi sul ponte, non restava che stipulare il contratto definitivo: era il 6 luglio del 1920.
I lavori iniziarono poco dopo. Il compito di dirigerli fu affidato all’ing.Alfieri.
Corso Vittorio Emanuele fu allargato grazie alla costruzione di pilastri a mare, ed i binari iniziarono ad essere posati. A dimostrazione della qualità dei lavori, la struttura del Corso Vittorio Emanuele che percorriamo oggi è quella che fu costruita in quegli anni.
Furono acquistate nuove vetture e, il 15 febbraio 1922 avvenne l’inaugurazione ufficiale di due linee: la linea 1, che congiungeva la stazione all’Arsenale, e la linea 2, che fino al quartiere Solito.
Purtroppo, dopo qualche anno la società fu sciolta a causa dei problemi finanziari in cui il presidente era caduto, ma in realtà non vi fu effettivo deliberato di scioglimento da parte dell’Ente, ed in ogni caso non avvenne la liquidazione. La sopravvivenza dell’azienda in quei periodi difficili fu dovuta alla Rappresentanza dell’Italia, all’Ing.Vallecchi e al barone Pantaleo ma i sovvenzionamenti erano troppo pochi per pensare di rinnovare gli impianti, che iniziavano a sentire il peso degli anni. Erano necessari dei cambiamenti ai vertici della Società.
Il desiderio di migliorare l’efficienza dei servizi di trasporti pubblici a Taranto non venne mai meno, anche se l’ambiente in cui si operava diventava di anno in anno più difficile: era la fine degli anni Trenta, ed in Italia iniziava nuovamente a respirarsi aria di guerra. Allo scoppio della guerra l’Azienda fu sequestrata e messa in liquidazione dal governo fascista, in quanto faceva sempre capo a degli imprenditori inglesi. Il servizio continuò comunque ad essere esercitato durante il periodo bellico, perché era necessario che i lavoratori si recassero all’Arsenale.
Dopo l’armistizio, l’Azienda passò alle dipendenze del “Property Control” (Controllo Proprietà Alleata). Gli esercizi successivi al conflitto si chiusero in attivo, e si poté iniziare a sanare i debiti protratti durante i periodi passati sotto l’amministrazione degli imprenditori inglesi.
Nel ’48 i tranvieri di Taranto costitutuirono una cooperativa per azioni a responsabilità limitata, la “Società Tramvie e Autobus Taranto” s.r.l.
L’impianto tranviario fu cambiato radicalmente. Furono acquistati i primi autobus e, con accordi presi in precedenza con il comune si decise di eliminare il tratto tramviario della linea 1 e della linea 2. Così dal ’50, su tale linea gli autobus sostituirono i tram. Il servizio di trasporto pubblico urbano fu affidato alla STAT, che successivamente divenne AMAT.
Negli anni Sessanta l’Azienda operò in una realtà economica florida e promettente, con lo stabilimento siderurgico che trainava tutta l’economia della città. Importantissimo fu il suo ruolo negli Anni 70, con le crisi petrolifere (1973 e 1979) e la forte inflazione: per limitare l’uso delle autovetture private (e quindi, di carburante), su delibera comunale fu disposto l’uso gratuito del mezzo pubblico per tutta la cittadinanza.
Nonostante il periodo di crisi sociale, l’AMAT aumentò e migliorò il servizio sotto tutti i punti di vista. Dal 1974 fu possibile acquistare i biglietti anche a terra: iniziò così a scomparire la figura delbigliettaio. Furono costruite pensiline a ogni fermata, e presso tutti i capolinea vennero ubicati gabbiotti di servizio per il personale viaggiante.
E siamo giunti così ai giorni nostri, con la trasformazione in Società per Azioni (12/01/2001), con vetture di ultima generazione alimentate a gasolio con basso tenore di zolfo, o adenergia elettrica, con l’istituzione del servizio idrovie: l’AMAT, dopo le inevitabili incertezze dei suoi primi anni di esistenza, è un’Azienda che opera concretamente alla gestione del trasporto urbano. Anche se durante la storia si è dovuto far fronte a tante difficoltà, i servizi dell’Azienda si sono ampliati per venire incontro ad ogni tipo di necessità dell’utenza.
FILM GIRATI A TARANTO
Two Families (2006)
Diretto nel 2006 dal regista di “Nightmare” Romano Scavolini, “Two Families” è un film prodotto dalla Victoria Media di Roma e la Parallel Pictures di Londra. Il protagonista è il figlio di un malavitoso, costretto dalla sua “famiglia” e dal vincolo di sangue a un imprescindibile vita da mafioso.Solo l’amore gli permetterà di trovare il coraggio per cambiare la sua vita e sottrarsi al suo destino già scritto.Tra le scene girate a Taranto si ricorda quella che si svolge durante i riti della Settimana Santa. Nel cast figurano Franco Nero, che interpreta il ruolo del questore di Taranto, ma anche Casper Zafer, Susie Amy e Richard Johnson.
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La Nave Bianca (1941)
Sebbene il mare di Taranto si affacci a ovest, gli albori del cinema neorealista italiano si videro proprio sulle nostre sponde. La Nave Bianca è un film ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale e girato su una nave della Marina Militare Italiana, ed è un pezzo fondamentale della storia del cinema: l’uso di attori non professionisti, il taglio documentaristico e il piglio anti-retorico, suggellano un’opera che prende le distanze dal cinema fascista di propaganda, aprendo le strade al neorealismo rosselliniano post-bellico. Protagonisti sono dei marinai che leggono e scrivono alle loro madrine di guerra. Augusto, fuochista della nave, ha una fitta corrispondenza con Elena, maestrina elementare. Elena ha percorso tutta l’Italia per poterlo conoscere, ha regalato ad Augusto metà della propria medaglietta che lui adesso indossa sempre al collo. I due si danno appunatamento alla stazione di Taranto ma, poco prima che Augusto possa sbarcare, la nave su cui è imbarcato salpa per partecipare ai combattimenti di Punta Stilo…
La Nave Bianca è stato il primo film sonoro girato in Puglia, le riprese furono girate nell’intera area portuale di Taranto che poco dopo diventò una delle zone maggiormente colpite dai bombardamenti aerei inglesi. Fu diretto da Francesco De Rubertis e Roberto Rossellini al suo esordio, al montaggio invece Eraldo da Roma, considerato uno dei migliori montatori del cinema italiano.
Le madrine di guerra furono una vera istituzione nel primo conflitto mondiale. A quei tempi erano signorine della buona società che confortavano con lettere e pacchi i soldati, più spesso gli ufficiali, che si trovavano al fronte. Una corrispondenza che aiutava i militari a non sentirsi troppo soli e a essere confortati nei momenti peggiori. A volte, anzi molto spesso, i due non si conoscevano, erano stati messi in contatto epistolare nei modi più svariati. Al ritorno i due potevano anche sposarsi, più spesso restavano soltanto amici, oppure non si incontravano mai e tutto finiva in niente.
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I pirati di Capri (1949)
I Pirati di Capri è un film storico in costume, il primo film girato dal regista tedesco Edgar G.Ulmer in Italia. Taranto fu scelta come location di molte scene, ma la storia è ambientata nella Napoli del 1779. Il capitan Scirocco guida la rivolta popolare antiborbonica contro la regina Carolina, succube del nobile tedesco Von Holstein, capo della polizia. Il tema del doppio è il principale filo conduttore del film: dietro la figura rivoltosa di capitan Scirocco (interpretato da da Hayward) si nasconde infatti il conte di Amalfi, cicisbeo della regina. Alla maschera e alla teatralità della rappresentazione Ulmer affida il suo intento satirico: quando non veste i panni di capitan Scirocco, il conte di Amalfi è un personaggio tratteggiato con una forte impronta caricaturale.
Il film ebbe grande successo in tutto il mondo grazie anche ad un cast internazionale e alla colonna sonora scritta dal grande compositore italiano Nino Rota.
E’ un film molto raro, di cui sono rimaste in circolazione pochissime copie che, rimaneggiate, sono state restaurate e recuperate nel 1998. Si dice che l’unica copia originale in italiano sia in possesso di un’attrice italiana e che sia molto oneroso restaurarlo per rimetterlo in circolazione.
Edgar G. Ulmer è considerato il re dei B-movie, del cinema indipendente della prima metà del Novecento. La sua produzione difatti spaziò con grande libertà stilistica dal noir all’horror psicologico, da soggetti in cui protagonisti erano melting pot al western. Il regista rivendicò addirittura la sua collabGuadagnaorazione al set de “Il Gabinetto del Dottor Caligari”, manifesto dell’espressionismo cinematografico tedesco, partecipazione più tardi smentita da Fritz Lang. La sua rivalutazione avvenne sulle pagine dei Cahier du Cinema, grazie a François Truffaut.
Imbarco a Mezzanotte (1952)
Un uomo, nella disperata ricerca di espatriare si nasconde nella stiva di una nave ormeggiata. Scoperto e scacciato da questa è costretto a vagare affamato e senza denaro per le vie della città. Il suo vagabondare termina in un lattificio che lui cerca di rapinare, l’uomo, nel tentivo di azzittire la proprietaria accidentalmente la uccide strangolandola. Da ora inizia la sua fuga assieme ad un nuovo compagno di sventura: un ragazzo, che entrato prima di lui nella latteria, aveva rubato del latte ed ora si crede inseguito. I due nella loro fuga si rifugiano sul tetto di una casa ormai circondata dalla polizia. L’uomo potrebbe fuggire ma è richiamato dal disperato grido del ragazzino che scivolando è rimato appeso nel vuoto, aggrappato al cornicione. Egli torna indietro e salva il ragazzino pagando questo gesto con la propria vita, viene infatti colpito a morte dalla polizia e precipita sulla strada.
Girato nel 1951 dal regista londinese Joseph Losey in lingua inglese tra Taranto e Livorno, Imbarco a mezzanotte è un film drammatico con influenze legate al neorealismo italiano grazie alla fotografia curata da Henry Alekan e al tema trattato del rapporto tra padre e figlio. Fu distribuito in Gran Bretagna e nei paesi di lingua inglese nel 1952, in Italia invece fu proiettato per la prima volta il 20 agosto del 1954.
Joseph Losey mentre girava il film in Italia fu richiamato a testimoniare in America davanti al Comitato per le Attività Antiamericane. Il comitato era nato nei primi anni della guerra fredda e faceva parte del Maccartismo, un progetto nato dal senatore MacCarthy per sdradicare ed allontanare dall’industria cinematografica americana i comunisti ed i sovversivi. Losey decise di non sottomettersi alle intimidazioni e alle leggi del comitato, decise di tornare in Inghilterra e di lavorare sotto falso nome usando lo pseudonimo Victor Hambury.
Il Prezzo della Gloria ( 1955 )
Sagittario, cacciatorpediniere della Marina Militare Italiana è di ritorno nel porto di Taranto da una durissima battaglia. I marinai, stremati e stanchi pregustano il loro meritato riposo ma avranno presto un’amara sorpresa. La Sagittario, infatti, la sera stessa riceve l’ ordine di ripartire per una nuova difficile missione verso le coste africane e tutti gli uomini devono immediatamente risalire a bordo. Da questo nuovo viaggio nasce lo scontro ed il dualismo tra il Comandante Bruni, uomo duro, severo e irreprensibile e Valli, Primo ufficiale, uomo più sensibile e preoccupato per la sorte e la stanchezza dei marinai. La nave dopo ore di navazione a tutta velocità a causa dello sforzo eccessivo si ferma e resta immobile nelle pericolose acque nemiche. I marinai si apprestano alle riparazioni nella sala macchina quando la Sagittario è vittima di un furioso bombardamento aereo, l’attacco uccide il Comandante Bruni a cui subentra Valli. A bordo tutti credono che il nuovo comandante abbandonerà la pericolosa rotta, ma Valli, conscio delle sue nuove responsabilità, ordina di proseguire verso la meta stabilita. La Sagittario viene ripetutamente colpita, Valli nel tentativo di salvare i marinai ordina l’immediata evaquazione della nave, attardato ed ultimo nella fuga resta ucciso da un’esplosione.
Fu uno dei primi film girati in puglia, a Taranto nel 1955. Diretto da Antonio Musu al suo esordio come regista,con la fotografia di Renato del Frate e la colonna sonora di Carlo Rustichelli uscì nelle sale nel 1956.
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Promesse di Marinaio ( 1958 )
Cinque grandi amici ( Franco, Mario, Giulio, Michele e Filippo), marinai imbarcati sull’Audace, motosilurante della Marina Italiana, escono in libera uscita e vivono allegre e spensierate avventure sentimentali da infaticabili corteggiatori. In particolare aiutano Luciano, guardamarine dell’Audace, nelle sue peripezie amorose. Luciano, innamorato della direttrice di un negozio di musica troverà nei cinque compagni l’aiuto per superare tutti gli ostacoli e coronare la sua insperata felicità conquistando la sua amata.
Il film, una commedia musicale e comica fu diretto e scritto da Turi Vasile nel 1958. Fu girato interamente a Taranto e ambientato sul porto, sul lungomare, nei giardini e in Piazza Della Vittoria nel centro della città. Le musiche originali furono scritte da Lelio Luttazzi. Turi Vasile e Antonio Margheriti (aiuto regia del film ) lo stesso anno girarono in Puglia anche il film Gambe D’oro.
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L’infermiera di Notte (1979)
Il lungomare, il porto e il Park Hotel di Taranto sono alcune delle splendide location esterne di questo film girato quasi interamente in Puglia. Commedia sexy all’italiana del 1979, per la regia di Mariano Laurenti, “L’infermiera di Notte” ripropone il classico intrigo comico erotico: qui Lino Banfi, nei panni del fedifrago dentista Nicola Pischella, è attratto dalla giovane Gloria Guida, che interpreta il ruolo di Angela. Angela è l’infermiera che accudisce di notte l’anziano zio di Francesca Romana Coluzzi, moglie di Nicola. Della ragazza si innamora Carlo, il figlio del dentista, che riuscirà a conquistarla solo dopo lunghe peripezie: la ragazza sarà insidiata da tutti i grotteschi personaggi maschili che graviteranno intorno a lei, in un ridicolo susseguirsi di equivoci e tradimenti.
White Pop Jesus (1979)
Sull’onda del grande successo generazionale e della grande suggestività del capolavoro di Jewison “Jesus Christ Superstar”, sei anni dopo, nel 1979, Luigi Petrini diresse a Taranto il film musicale “White Pop Jesus”. Una commedia musicale carica di spunti di riflessione su tematiche contemporanee, nonostante la vena ironica e le situazioni comiche nostrane. Il ruolo di attore protagonista fu affidato ad Awana Gana, uno dei dj più in voga negli anni ’70, che interpretò appunto il ruolo di Jesus, un giovane che, fuggito da un manicomio, approda in città attirando una fitta schiera di proseliti col suo richiamo all’amore e alla solidarietà, e vi resta fino a quando non viene di nuovo rinchiuso (si veda nella trama un chiaro ammiccamento alla giusta Legge Basaglia, approvata nel 1978, con la quale si impose la chiusura dei manicomi). La colonna sonora fu affidata a musicisti che hanno segnato la storia della musica italiana: Vince Tempera, Franco Bixio e Alberto Mandolesi, mentre la coreografia fu commissionata al celeberrimo Don Lurio. Tra le esterne scelte per i “miracoli” di Jesus ricordiamo la villa Peripato, la spiaggia “Il Gabbiano”, via D’Aquino, via Di Palma, via Dante e la Concattedrale.
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Io speriamo che me la cavo (1992)
Nel 1992 Lina Wertmüller scelse la città vecchia di Taranto in luogo di Napoli come location principale di questo film, liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Marcello D’Orta. La scelta ricadde su Taranto in primis per le analogie paesaggistiche tra le due città: Corzano, la città immaginaria in cui è ambientata la storia, doveva dunque essere, nei progetti della regista, una città di mare nei dintorni di Napoli. In secondo luogo, la scelta fu indotta dalle difficoltà riscontrate dalla troupe non appena iniziò a girare nella città partenopea: alcune persone pretesero una sorta di pizzo per consentire la continuazione delle riprese nelle vie della città. Lina Wertmüller rifiutò il ricatto e decise di spostare il set a Taranto. “Io speriamo che me la cavo” è la storia di un maestro elementare settentrionale (interpretato da un eccellente Paolo Villaggio in versione drammatica) che, per un errore, viene mandato a insegnare in una scuola di un paesino fatiscente e malfamato in provincia di Napoli. Qui entra in contatto con una condizione minorile fortemente disagiata: microcriminalità, lavoro, povertà e ignoranza accompagnano in maniera disinvolta la quotidianità dei suoi alunni, i quali però, piano piano, si legano affettivamente all’empatico ed esemplare maestro. Il film restituisce, in chiave dolce amara, l’immagine della realtà umana di un angolo di Sud come tanti, dimenticato e abbandonato a se stesso. Una realtà che pullula non solo di bruttezza, ma anche di tenerezza, schiettezza, profondità e poesia.
Le Acrobate (1997)
Il titolo di questo film, diretto da Silvio Soldini nel 1997, è ispirato al nome di tre statuette magnogreche in terracotta esposte nel Museo Archeologico Nazionale di Taranto. Le statuette sono il pretesto iniziale per lo svolgimento della trama: la protagonista, Elena, interpretata da Licia Maglietta, scova una cartolina ricevuta da Taranto dell’anziana amica Anita, da poco deceduta. Elena è un chimico di Treviso la cui vita trascorre grigia tra una vitrea relazione con un uomo sposato e il suo lavoro. Quando muore Anita, si ritrova immersa tra le sue carte; affascinata dal mondo di ricordi di Anita, decide di partire per Taranto, ove conoscerà Maria, interpretata da Valeria Golino, e la sua figlioletta, Teresa. Maria e Teresa vivono nel grattacielo alle spalle del Pala Mazzola, in via Venezia. L’antitesi tra Nord e Sud, cui il regista assegna tratti quasi manichei, è in realtà il presupposto di un incontro tra due solitudini al femminile, fortemente diverse ma allo stesso tempo delicatamente vicine: Elena e Maria sono due donne cui la vita costantemente richiede prove, prove di armonia, equilibrio: due acrobate.
Figli di Annibale (1998)
Mettiamo che un disperato disoccupato decidesse di fare una rapina in una banca. Immaginiamo che nel caos decida di prendere come ostaggio un imprenditore. E mettiamo il caso che la vittima (l’imprenditore, interpretato da Diego Abatantuono) approfitti del suo sequestro per rivoluzionare la propria vita e fuggire in Africa, trascinando in questa avventura il carnefice (il rapinatore, Silvio Orlando). Commedia del 1998 diretta dal regista Davide Ferrario e girata in vari luoghi della Puglia, tra cui Taranto, “Figli di Annibale” nasce da un soggetto scritto a tre mani dal regista, Abatantuono e Sergio Rubini. Il viaggio dei due protagonisti sottolinea le bellissime scelte di fotografia di Giovanni Cavallini, mentre nel cast segnaliamo anche Valentina Cervi, Flavio Insinna e Ugo Conti. Il titolo del film è ispirato all’omonimo ep degli Almamegretta, che curarono in parte anche la colonna sonora, in cui un quartetto d’archi ripropone brani dei Clash, Cccp e Talking Heads
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Mar Piccolo (2009)
Tiziano è un sedicenne di Paolo VI, quartiere popolare della periferia tarantina situato sulle sponde dell’incantevole Mar Piccolo e di fronte all’Ilva. Sacro e profano, bene e male, natura e violenza sono le dicotomie in cui è immersa la sua vita a soli 16 anni. La sua è una famiglia per bene che vive di stenti, i suoi compagni fanno vita di strada e Tiziano per un errore finisce per diventare il sicario di un malavitoso della zona. Finisce in riformatorio e quando ne esce il suo sogno di fuggire da Taranto diventa sempre più forte. Dovrà scontrarsi coi sentimenti, con gli affetti, con una ragazza che lo ama. “Mar Piccolo” è una pellicola girata nel 2009 per la regia di Alessandro di Robilant, prodotta da Rai Cinema e la Overlook Production di Marco Donati. Nel cast figurano l’esordiente Giulio Beranek nel ruolo di Tiziano; Selenia Orzella nel ruolo di Stella, la fidanzata di Tiziano; Michele Riondino nel ruolo del boss Tonio; e ancora Valentina Carnelutti, Anna Ferruzzo, Giorgio Colangeli. Il film è stato definito dalla critica la “Gomorra tarantina”. Durante le riprese i registi Emanuele Tammaro e Mauro Ascione hanno girato il documentario “Le case bianche”, in cui viene narrato l’intenso rapporto nato tra la troupe e gli abitanti di Paolo VI.
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Tonio ha soltanto dodici anni quando viene investito da un’auto in corsa. Cinzia, l’automobilista che lo ha investito, non si ferma a prestargli soccorso ed il bambino si risveglia in ospedale scoprendo di avere, a quanto sembra, il potere di guarire gli ammalati. Questo acuisce il conflitto già in atto fra i suoi genitori e scatena l’interesse del mondo della comunicazione. Edoardo Winspeare, alla sua opera terza, realizza un film molto più compiuto sul piano formale ma, per assurdo ma non tanto, proprio per questo meno emotivamente ‘forte’ rispetto al suo precedente “Sangue vivo”. L’ambiente rimane sempre la Puglia (questa volta non il Salento ma Taranto) e l’attenzione al mondo dei marginali (in questo caso i bambini sempre più ‘a lato’ nella nostra società) e si sente che Winspeare aderisce laicamente al tema che sta trattando con grande rispetto ma anche con il giusto disincanto. I miracoli nascono dall’amore e in un’epoca di maghi e cartomanti a pagamento sembra sempre più difficile poter contare sulla gratuità di un gesto che vuole essere solo solidale e con il pudore del non chiedere nulla in cambio. Tutto questo è interessante e palpabile nel film ma non scatta mai la partecipazione. Neanche la sempre splendida musica degli Zoè riesce a compiere il miracolo.
Dracma – Taranto
Le poleis greche battevano una moneta cittadina, che dovevano essere ben riconoscibili nel Mediterraneo in quanto uniche e rappresentative. Taranto, antica colonia di Spartani, aveva una moneta molto particolare: vi era raffigurato Taras, il mitico fondatore della città. Taras, figlio del dio del mare Polifemo, un giorno vide un delfino: quello fu il segnale divino che era giunto il momento di costruire una città sulla riva dell’avvistamento. Da allora, il simbolo di Taranto è rappresentato da un uomo che cavalca un delfino. Su questa moneta, ritroviamo la stessa icona: pensate che questa moneta ha 2600 anni!
DELFINO SIMBOLO UFFICIALE DI TARANTO
Lo stemma di Taranto raffigura un giovanetto nudo che cavalca un delfino.
Intorno al braccio sinistro ha avvolto un drappo, mentre con la mano destra impugna un tridente.
Il giovanetto, secondo la mitica storia della fondazione delle città, altri non sarebbe che Taras, figlio di Poseidone e delle ninfa Satyria, morto annegato in un fiume che scorreva ad Occidente della città, il Tara, che da lui prese il nome.
Si narra che, mentre Taras compiva sacrifici a Poseidone suo padre, apparve improvvisamente un delfino.
Ciò fu interpretato con un segno di buona fortuna e Taras si sentì incoraggiato a fondare una città, che egli avrebbe poi governato. Divenendo Taras la trasposizione logica di Poseidone, in tutte le raffigurazioni veniva rappresentato con gli attributi e le sembianze dello stesso Poseidone.
Si può comprendere, così, perché per molto tempo il personaggio che cavalcava il delfino, da tutti indicato come Taras, veniva raffigurato con la barba e la corona.
Al di sopra di questa raffigurazione c’è una fascia in cui c’è una conchiglia che si trova al centro della scritta TA e RAS, gruppo di lettere che formano il nome greco di “Taranto”. Questo stemma fu riconosciuto ufficialmente nel 1935.
Gli ori di Taranto
Nel panorama del Museo Archeologico di Taranto , sicuramente una parte preponderante di interesse è destata dai famosi Ori , che fanno ormai parte della storia sia antica che moderna della Magna Grecia , visto il grande interesse che suscitano nei visitatori del museo stesso e negli studiosi anche stranieri . Basti pensare che questi preziosi oggetti antichi sono stati presentati anche in mostra a Milano e Tokyo, con grande affluenza di pubblico , che ne ha ammirato le splendide lavorazioni fatte dagli orafi che artigianalmente ne forgiarono i metalli preziosi in età Ellenistica , nel periodo che va dal quarto secolo al primo secolo a.C. , periodo che nel mondo antico segnò uno sviluppo importante in campo sociale , economico e artistico , con lo stato Tarentino che dopo un grande apogeo sociale , vide in seguito il suo perigeo , inglobato fatalmente dall’Impero Romano . C’è da ricordare che la genesi della nostra città , l’antica Taras , si fonda su più di duemila anni di storia e questa la dice lunga sul materiale archeologico e le conseguenti documentazioni storiche in possesso degli studiosi . Secondo le fonti in mano ai ricercatori , la colonia greca di Taras fu fondata nel 706 a.C. da un gruppo di profughi provenienti da una delle regioni più importanti del mondo ellenico , la Laconia , regione in cui la città di Sparta sembrava ne avesse il predominio politico . La zona dove sorse l’antica città di Taranto pare fosse compresa tra una parte della attuale città vecchia e la zona marina dello Scoglio del Tonno sull’antico porto mercantile . Stabilito questo excursus storico torniamo all’argomento principe di questo approfondimento . Gli Ori di Taranto rappresentano forse la parte più lussuosa nel nostro panorama archeologico , visto che essi facevano parte del corredo funerario dei defunti ritrovati nelle tombe durante gli scavi archeologici e non solo delle famiglie benestanti , ma anche di quelle meno abbienti che potevano fregiarsi di ori riprodotti dagli originali e quindi meno costosi . Non si è molto a conoscenza di chi siano stati i primi maestri orafi che hanno tramandato le conoscenze ad altri allievi orafi e chi ha fabbricato e in base a quali ritrovati tecnici le prime attrezzature da lavorazione dei metalli preziosi . Queste conoscenze si perdono nella notte dei tempi e confermano in modo inequivocabile la cultura e la tecnologia avanzata delle antiche civiltà , comprese quelle delle nostre latitudini . Probabilmente i maestri orafi tarentini e i coroplasti sono stati indottrinati dai maestri orafi greci e macedoni . Il mistero da chiarire è invece quello di chi ha insegnato a sua volta ai greci e ai macedoni e chi ancora prima di questi . Senza stare a fare illazioni troppo eretiche , l’enigma pare sia ancora irrisolto anche dagli studiosi più esperti e addentrati nel problema . La perfezione di questi gioielli della antica oreficeria sarebbe difficile da eguagliare anche dalla oreficeria contemporanea , con tutti i mezzi tecnologici oggi a disposizione . Si pensi che alcuni di questi monili provenienti non solo da Taranto ma anche da altri siti archeologici della antica Apulia, sono conservati al British Museum di Londra , al Museo del Louvre di Parigi, al Metropolitan Museum di New York e all’ Antikitenmuseum di Berlino oltre alla maggior parte di essi presente nel Museo Archeologico Nazionale di Taranto . Per osservarne la perfezione stilistica e la lavorazione miniaturizzata sicuramente effettuata con strumenti tecnici decisamente avanti per quei tempi , in molti casi si è dovuto utilizzare il microscopio elettronico . Sarebbe oltremodo affascinante scoprire chi sono stati i primi orafi a forgiare questo tipo di gioielli aurei . Lanciando una provocazione , potremmo azzardare una reminescenza atlantidea , matrice ramificata di queste perfette lavorazioni , che si sono poi estese successivamente alla scomparsa del mitico continente narrato da Platone , in tutto il mondo antico , comprese la Grecia , l’antica Macedonia e la Laconia . Chiariamo subito a scanso di equivoci che non stiamo affermando che gli Ori di Taranto provengono da Atlantide , ma solo che la loro matrice antica , fra le tante ipotesi , potrebbe essere questa , ma ripeto è solo una teoria anche se eretica . Come cita nel suo libro : Gli Ori di Taranto , lo studioso Enzo Lippolis : è tra i diademi che si raggiunge uno dei vertici della produzione , con lo splendido esemplare della tomba degli ori di Canosa , unico rimasto in Puglia tra quelli rinvenuti nell’antica città della Daunia . Il più significativo è senza dubbio proprio quello del Museo di Taranto , per perfezione tecnica e fantasia compositiva . Su un cavetto di lamina aurea è stata disposta una serie di fiori miniaturistici colorati con paste vitree o con la rara inserzione di pietre dure , come in una ghirlanda stretta da un nastro che si avvolge obliquamente . La lavorazione è avvenuta certamente sulla base di un progetto iniziale di massima . I vari elementi vegetali infatti sono stati eseguiti e smaltati separatamente e il montaggio sembra aver costituito solo la fase finale . Fin qui Enzo Lippolis . Come ho detto poc’anzi tecniche molto avanzate. Ma oltre ai diademi ci sono anche altri tipi di gioielli aurei molto importanti come : corone , orecchini , collane , pendenti , anelli , sigilli e bracciali oltre ai “ nucifrangibulum “ , una sorta di antichi schiaccianoci . Le conoscenze tecniche della loro lavorazione hanno subito attualmente un incremento col progredire degli studi di archeometria e l’analisi al microscopio elettronico ha consentito di osservare queste tecniche anche con l’ausilio delle tracce lasciate sugli ori dagli strumenti utilizzati come : scalpelli , lime da taglio , punzoni e punte da incisione . Codeste tecniche principali erano : la laminatura che consisteva nell’ottenere fogli di lamina sottili , la lavorazione a sbalzo che era ottenuta con l’uso di martelli e punzoni , la lavorazione a stampo ottenuta con pressione diretta , i fili d’oro ottenuti a mano con sottili foglie d’oro tagliate a strisce , le catene ottenute con anelli che inseriti l’un l’altro venivano saldati al momento , la filigrana dove sottili fili d’oro venivano saldati ad una lamina di fondo e la granulazione che consisteva in minuscole sferette auree saldate alle lamine per formare motivi ornamentali . Dopo la descrizione del diadema esposto al Museo di Taranto , rinvenuto nella tomba di Canosa , che serviva ad adornare l’eleganza delle matrone dell’epoca , un altro antico gioiello aureo che più mi ha incuriosito è la Nereide sul Ketos , con una figura femminile seduta sul dorso di un animale , raffigurata all’interno di un gioiello a forma di conchiglia che si può riconoscere come Pecten Jacobaeus ( cozza San Giacomo ) . La figura femminile seduta sul dorso dell’animale è vista di spalle con il corpo nudo avvolto in un mantello dorato . Essa regge un ventaglio a forma di cuore con la mano sinistra , mentre con la destra stringe il collo dell’animale che si raffigura in mostro marino con la testa crestata , canina e ringhiante , zampe da palmipede , corpo serpentiforme coperto di scaglie e si vede mentre solca le onde tremolanti del mare . Questo strano essere ricorda le ancestrali figure dei mitici serpenti di mare o del famoso kraken e dei noti calamari giganti Architeutis , essenze dell’affascinante cripto zoologia . Più comunemente questi oggetti a conchiglia servivano come contenitori per cosmetici utili alla bellezza delle donne della seconda metà del terzo secolo a.C. , ma la misteriosa raffigurazione di questo mostro marino sulla valva del gioiello in questione , danno un alone di leggenda a questi monili aurei e argentei già di per se molto affascinanti ed esposti con evidente interesse nel Museo Archeologico di Taranto .
GLI ORI DI TARANTO Ed IL MUSEO
I gioielli, custoditi nella sezione dedicata all’arte orafa in età ellenistica del Museo nazionale archeologico di Taranto, costituiscono la più importante testimonianza di come la lavorazione dei metalli preziosi, e in particolare dell’oro, fosse una delle attività più sviluppate nella famosa città della Magna Grecia tra il IV e il I secolo a.C.
Le principali tecniche di lavorazione erano quelle di martellatura, cesellatura, filigrana e granulazione.
Fra i numerosi pezzi in esposizione nella “Sala degli ori”, si segnalano i gioielli appartenuti ad alcuni corredi funerari, tra i quali si notano:
“Diadema in oro e pietre dure” con decorazione a motivi floreali;
“Orecchino a navicella” con lavorazione in filigrana;
“Orecchini a testa di leone”;
“Schiaccianoci”;
“Teca in argento” a forma di conchiglia.
Negli anni ottanta gli ori furono esposti con enorme successo di pubblico in una mostra itinerante tenutasi a Milano, Parigi, Amburgo e Tokio.
Tale mostra suscitò però anche polemiche per la sparizione di un orecchino d’oro, avvenuta in circostanze mai chiarite
Il Museo archeologico nazionale di Taranto (MArTA) è un importante museo archeologico con sede a Taranto, dove è esposta, tra l’altro, una delle più grandi collezioni di manufatti dell’epoca della Magna Grecia, tra cui i famosi Ori di Taranto, che in realtà sono della principessa Opaka Sabadeila, la proprietaria degli ipogei Lagrasta di Canosa di Puglia
Sito in Corso Umberto I al civico 42, fu fondato nel 1887 ed occupa la sede dell’ex Convento di San Pasquale di Baylon, edificato nel XVIII secolo. L’archeologo Luigi Viola voleva farne un Museo della Magna Grecia, ma esso è sempre stato dedicato, principalmente, alla documentazione archeologica di Taranto e del resto della Puglia.
Chiuso per essere sottoposto a lavori di restauro dal mese di gennaio del 2000, anno a partire dal quale fu mantenuta un’esposizione parziale presso Palazzo Pantaleo, riapre nuovamente al pubblico il 20 dicembre 2007.
Il piano rialzato del museo è utilizzato per esposizioni temporanee e convegni. Il primo piano ospita la sezione greco-romana inerente alla società tarantina. Il secondo piano, attualmente in allestimento, ospita la sezione preistorica del Paleolitico e dell’età del Bronzo inerente all’intero territorio pugliese.
Sezione greco-romana
I reperti della sezione greco-romana sono sistemati in base alla tipologia dei materiali: sculture in marmo, tombe monumentali, sculture in pietra tenera, ceramiche delle necropoli, oreficerie.
Due sale sono dedicate alle sculture in marmo risalenti all’età ellenistica, tra cui figurano statue realizzate con il marmo bianco proveniente dalle cave dell’Isola di Paros; vi sono poi opere minori, alcune delle quali sono copie di originali famosi.
Un’altra sala espone sculture, mosaici ed epigrafi provenienti da edifici pubblici e privati, tra cui figurano le teste in pietra di carparo risalenti al periodo romano.
Le sale dedicate alla ceramica proveniente dalla necropoli, sono organizzate secondo un percorso cronologico che va dal periodo della fondazione di Taranto fino all’età arcaica, tra cui figurano le ceramiche protocorinzie e corinzie realizzate nella città di Corinto e poi esportate, provenienti per la maggior parte da corredi funerari. Dalle necropoli di età arcaica provengono, invece, i vasi in argilla rosata con figurazioni in nero, con illustrazioni di personaggi e scene della mitologia e dell’atletica. Di rilievo è la collezione di oggetti in oro risalenti al periodo che va dall’età arcaica all’epoca bizantina, con esemplari di pregio e di straordinaria fattura, nonché piccoli oggetti di uso comune, tra cui specchi, scatole porta trucco e spilloni.
Alcune sale del museo sono, infine, dedicate ad una mostra permanente sulla società aristocratica a Taranto tra il VI ed il IV secolo a.C.
Si notano tra i reperti esposti:
le sculture in marmo, tra le quali la “Statua acefala di divinità femminile”, la “Kore” del 500 a.C., la “Testa di Herakles”, la “Statua votiva di Athena”;
la collezione di statue, tra le quali lo “Zeus” da Ugento (LE) in bronzo, la “Testa di Afrodite”, il “Corpo di Ninfa”;
la collezione di ceramiche provenienti dalla necropoli, tra le quali il “Bronzetto di un cavallo”, “Aryballos”, “Skyphos del Pittore di Teseo”, le tre “Kylikes”;
i corredi funerari, tra cui la “Kylix con la maschera della Gorgone”, la “Kylix del Pittore dei pesci”, i gioielli in oro con il prezioso “Diadema”, le “Coroncine”, gli “Orecchini a disco con tre pendenti”;
la “Tomba dell’Atleta”, attribuita ad un uomo vissuto a Taranto presumibilmente nel V secolo a.C.
Direttori
Luigi Viola
Quintino Quagliati
Renato Bartoccini
Ciro Drago
Nevio Degrassi
Attilio Stazio
Felice Gino Lo Porto
Dinu Adamesteanu
Ettore Maria De Juliis
Giuseppe Andreassi
Luigi La Rocca
SANTI E PATRONI DI TARANTO E PROVINCIA
Santi Patroni e Feste Patronali comuni provincia di Taranto |
- Avetrana – San Biagio – 29 aprile
- Carosino – San Biagio – seconda domenica di novembre
- Castellaneta – San Nicola e San Francesco da Paola – seconda domenica di maggio
- Crispiano – Madonna della Neve – 5 agosto
- Faggiano – San Giuseppe – 19 marzo
- Fragagnano – Sant’Antonio – 13 giugno
- Ginosa – Madonna del Rosario – prima domenica di ottobre
- Grottaglie – San Ciro – 31 gennaio
- Laterza – Santa Maria Mater Domini – 20 maggio
- Leporano – Sant’Emidio – 5 agosto
- Lizzano – San Gaetano – 7 agosto
- Manduria – Santo Gregorio Magno – 3 settembre
- Martina Franca – San Martino – 11 novembre
- Maruggio – San Giovanni Battista –
- Massafra –
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- Monteiasi – Santissimo Crocifisso – 14 settembre
- Montemesola – Madonna del Rosario – 7 ottobre
- Monteparano – San Gaetano da Thiene – 7 agosto
- Mottola – San Tommaso Becket – 29 dicembre
- Palagianello – Santa Maria delle Grazie – Lunedì dell’Angelo
- Palagiano – San Rocco – domenica successiva al 16 agosto
- Pulsano –
- Roccaforzata – Sant’Elia – 19 luglio
- San Giorgio Ionico – San Giorgio – 23 aprile
- San Marzano di San Giuseppe – San Giuseppe – 19 marzo
- Sava – San Giovanni Battista – 24 giugno
- Statte – Madonna del Rosario – 7 ottobre
- Torricella – San Marco – 25 aprile
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I RITI DELLA SETTIMANA SANTA A TARANTO
I Riti della Settimana Santa a Taranto costituiscono senz’altro l’ evento più importante dell’anno, non solo sotto l’aspetto religioso, ma anche sociale e culturale.
Nei tre giorni del triduo pasquale, dal Giovedì Santo al Sabato Santo, sino alla Veglia di mezzanotte, la città vive in una dimensione atemporale, in cui i frenetici ritmi della vita quotidiana vengono esorcizzati dal lento pellegrinare dei confratelli e di tutti i fedeli.
La pietà popolare, cifra distintiva del popolo tarantino, in quei giorni si estrinseca nelle chiese, nelle vie, nelle piazze in modo corale, partecipato e commosso.
Si può azzardare una considerazione col dire che i tarantini, in questa occasione, ritrovano ogni anno quell’identità, quel senso di appartenenza alla propria città che sembra a volte smarrito o, peggio ancora, rimosso per un malinteso senso delle proprie radici e della propria storia.
.Protagoniste primarie dei Riti sono le due Confraternite, diMaria SS. Addolorata e San Domenico e del Carmine che da più di due secoli, puntualmente, con lo stesso amore e la stessa devozione organizzano le toccanti e originali processioni con cui si rivivono i drammatici momenti dei dolori dellaVergine Addolorata e della Passione di Cristo.
Preliminarmente va detto che i Riti propri della Settimana Santa rappresentano il momento culminante e più visibile di una fase preparatoria che vede impegnate le Confraternite sin dal Mercoledì delle Ceneri.
La Confraternita dell’ Addolorata, come anche quella del Carmine, organizza ogni domenica sera la
Via Crucis, vissuta dai confratelli in abito di rito; inoltre particolarmente solenne è la Via Crucis svolta l ’ultima domenica di Quaresima, detta un tempo domenica di Passione, lungo via Duomo, nella Città Vecchia sino alla chiesa di San Domenico; la sera del lunedì successivo si svolge, sempre in San Domenico, il Concerto della Passione a Taranto, di marce funebri, eseguito dalla Banda della Marina Militare; il venerdì di Passione ha luogo in San Domenico la secolare funzione della Compassio Virginis o “Via Matris”, secondo il rito dei Servi di Maria, alla cui spiritualità la Confraternita si ricollega, con la solenne partecipazione dell’ Amministrazione, in abito di rito; il lunedì Santo infine si svolge il pio esercizio della meditazione sulle sette parole di Cristo in Croce.
La Settimana Santa però, com’ è intesa dai tarantini, vive il primo momento forte la Domenica delle Palme quando, dopo la partecipazione alla Messa del mattino, le due Confraternite in due luoghi diversi, si riuniscono in Assemblea straordinaria, detta “
gara”, per procedere all’ aggiudicazione dei simboli e delle poste che usciranno in pellegrinaggio e in processione nei giorni del triduo pasquale.
Il tutto ha poi inizio il Giovedì Santo con la “Messa in Coena Domini”, durante la quale avviene il rito della “lavanda dei piedi” a dodici confratelli in abito di rito.
Intanto dalla chiesa del Carmine si sono già avviate le coppie di confratelli per il
pellegrinaggio.
PERSONAGGI DI QUARTIERE A TARANTO